I teli di seta nera mi accarezzano la pelle senza violarla, come il candore delle cosce di una donna irriverente, carezzevoli ma senza peccato, abbracciano il corpo desideroso di avventure inaspettate. In un solo passo ci si immerge nell’oscurità tipica del cielo senza stelle, e senza il tempo di accorgersene, il mondo sparisce attorno a noi, a me, che continuo a muovermi, solo, in questa follia isolata. Dall’interno di questo mondo di seta posso ancora sentire la voce vicina di mia moglie che parla con il gallerista, e mi distrae, mi distoglie l’attenzione da ciò che sto affrontando, si intrufola nelle orecchie, come il trillare continuo della sveglia che frantuma il corpo di una donna durante i sogni più intriganti.
Un amore fugace quello di seta, che scivola addosso come l’acqua sulle rocce, e che lascia dietro di sé solo il velato ricordo del suo passaggio. Così anche lo spazio che mi circonda smette di stringermi nella sua dolce morsa. Le distanze si fanno più presenti, ed i teli che prima mi abbracciavano languidamente ora sembrano essere spariti, lasciandomi vittima di una surreale nudità. Non esiste nulla qua dentro, se non me solo. Né luce, né mondo, né moglie.
Da piccolo ero innamorato del buio, sì, innamorato di un amore infantile. Le notti le passavo ad occhi aperti ad immaginare un mondo che non esisteva. Mentre di giorno, nell’attesa del tramonto, avevo trovato un modo per ingannare tutti; chiudevo gli occhi fingendo di dormire, ed improvvisamente, come per magia, avevo l’impressione che tutt’attorno apparisse una scorribanda di immagini, le stesse nate dalle storie che mi raccontavano i miei genitori per farmi addormentare. Le vedevo riempire ogni centimetro della stanza, incastrarsi una sull’altra, ma restando sempre fedeli al loro unico destino. Il cavaliere si muoveva al galoppo del suo cavallo bianco impugnando una spada foderata di diamanti, la damigella danzava, il leone ruggiva, e le battaglie non diminuivano mai la loro ferocia; mentre tutt’attorno, i boschi e le cascate decoravano il fiabesco mondo dell’immaginazione. Al tempo la fantasia era viva dentro i miei occhi chiusi. Ed ora non lo è più.
Nascosto in questa struttura senza nome ho l’impressione di cadere in un vuoto perenne. La porta si è chiusa alle mie spalle nascondendomi all’esterno ed all’interno di ogni cosa, perché l’oscurità e l’improvviso silenzio, hanno il labirintico potere di appiattire ogni consapevolezza, come un isolamento cieco e sordo, tanto abominevole da instillare la follia anche nella più sana delle menti.
Mentre mi muovo senza speranza inizio però ad intravedere qualcosa. Prima le mie stesse mani ridicolmente protese in avanti alla ricerca di sostegno, e con esse, lentamente, anche la mia persona ormai scomparsa. Poi un leggero fascio di luce, che a fatica è riuscito a mostrarsi stringendosi sotto i teli più leggeri. Mi sembra quasi di riconoscere un suono, una voce lontana che mi chiama. Non chiama me, non il mio nome. Sta ripetendo un sussurrio di versi di una poesia che non conosco. Non sento le parole, sento solo il ritmo altalenante delle quartine alessandrine, come un valzer dal sapore sconosciuto che mi guida afferrandomi per le corde dell’anima.
Non sono mai stato un amante dell’arte contemporanea. Forse perché non sono mai stato in grado di capirla, o forse perché non riesco ad intravedere quel pezzo di cuore che l’artista è solito lasciare in ciò che crea. Non ne percepisco alcuna energia, di solito. Ma in questo particolare caso inizio a sentirne il peso, l’importanza. Forse perché sono chiuso, fisicamente segregato in questa installazione di cui tutti parlano con toni d’amore e di disprezzo.
Siamo a New York, in una delle gallerie d’arte più rinomate di questa folle città dove tutto è possibile. Come da routine, ho bevuto, mangiato quei piccoli stuzzichini a misura di bambino, e bevuto ancora. Bevuto e bevuto ancora. Dopotutto non sono mai stato capace di sopportare le inaugurazioni, le nuove aperture o tutte quelle situazioni dove si è costretti a sentirsi importanti ed unici, unicamente perché i primi a vedere qualcosa di nuovo. Le persone che mi circondano sembrano avere tutte una vita fantastica, un’energia irriducibile ed un’invidiabile spinta vitale. Quest’oggi persino mia moglie mi è apparsa più giovane del solito. Più frivola, se possiamo. Soprattutto con il vero protagonista di questa serata, che non sono di certo io.
È una tigre solitaria, dal muscolo vibrante,
che porta sulla pelle i segni dei graffi lasciati dalle proprie amanti
Alexei Dubrowsky è un artista ceco dal gusto sottile e dall’erotismo sconfinato, capace però di non superare mai quella linea che divide la poeticità dallo squallore moderno. È un Adone dai movimenti felini e dal “pelo” arruffato, capace di accendere l’incanto dell’estasi con il solo sguardo. Intimidatorio e rassicurante al tempo stesso. Osservarlo camminare dà l’impressione che, se tu fossi la sua “preda” prescelta, e lui avesse deciso di sacrificarti in onore del proprio desiderio, con tutta probabilità ci riuscirebbe, ed avendo il tuo unico, succube, consenso. È una tigre solitaria, dal muscolo vibrante, che porta sulla pelle i segni dei graffi lasciati dalle proprie amanti.
Cresciuto nelle fredde camerate di un povero orfanotrofio postbellico, orfano di padre e di madre ed ormai unico a portare il cognome Dubrowsky, dichiara che la sua arte “è il risultato di una vita passata a spiare sotto le gonne delle suore”.
L’opera principale di questa serata, vista dall’esterno, si presenta come un cubo di sei metri per sei, ma dalle forme poco definite, come un gigante, nascosto sotto ad un ammasso di teli dai toni orientali; una cascata di drappi, colorati e pesanti, che ricoprono ogni centimetro della struttura che nascondono. Le persone tutt’attorno hanno la possibilità di immergersi tra i tessuti, appoggiandosi come se fosse un enorme cuscino, nascondendosi tra le pieghe, facendo apparire il tutto come un tempio che ospita un orgiastica unione di corpi e tessuti, intrecciati in perfetta armonia. È imponente come un luogo di preghiera posto al centro della stanza principale, dove gli invitati spariscono uno dopo l’altro, in una strana processione di facce curiose. “Hai appena dieci minuti” ti informano i due ragazzi all’entrata, mentre sorridono tra loro come se già sapessero.
Ora torniamo all’interno. Alle miei mani ritrovate. Torniamo alla poesia che si nasconde in un’opera senza precedenti. Ora riesco a vedere quella luce, quella fievole luce che vibra attraverso l’ondeggiante oscurità, e che accarezza ogni cosa con il calore di una fiamma che brucia nella penombra.
I teli di seta nera nascondevano una stanza abitata da una piccola candela che vibrava solitaria, ormai disciolta, come se aspettasse da tempo l’arrivo di qualcuno da illuminare, un’ultima volta, prima di lasciarsi alle spalle delle storie che, lei sola, è riuscita a definire.
Guardandomi attorno non vedo nulla, se non la mia immagine e quella della candela disegnate su di uno strano specchio che riempie un’intera parete della stanza. Non riesco però a riconoscere altro se non la mia ombra, senza volto e senza colore, perché l’assenza di luce ha eliminato ogni caratteristica. Non riesco a cogliere quale significato possa avere tutto questo, quale sia il messaggio nascosto dall’artista. Forse si tratta di solitudine, quella che ti spoglia di ogni difesa e che ti fa sentire piccolo in un mondo lontano dal mondo.
Decido di avvicinarmi a quell’ombra riflessa, sfiorare quello specchio ed immaginarmi di essere un altro, di poter essere chi voglio. Di osservarmi con gli occhi di un estraneo. Magari essere Alexei, con i suoi capelli selvaggi e l’irresistibile sorriso. Alexei con le mani strette attorno al corpo di mia moglie, con un permissività a me negata.
Sento l’irrefrenabile desiderio di spogliarmi, di mostrarmi senza vergogna all’io che non sono. Mi guardo attorno ancora una volta, guardo la candela e ancora lo specchio. Ed incredibilmente io non sono più dove avrei dovuto essere. La mia figura riflessa ora è spostata verso quella candela, e si muove con movimenti che non mi appartengono.
Ancora non capisco cosa stia succedendo, ma mi rendo subito conto che anche l’ombra sta provando la mia stessa, folle, illusione. Si muove ondeggiante e incuriosita, ed io faccio lo stesso, ma con ritmi diversi. Lei inclina la testa, e anche io. Sul mio viso si scava il sorriso stupefatto che non ritrovavo da tempo, e forse, anche sul suo.
Lo specchio non è uno specchio, ma un telo elastico dalla trama fitta, simile alle calze che le donne indossano per conquistarci, ma più soffice. E la mano che sto sfiorando, non è la mia.
D’un tratto l’ombra si ingrandisce per poi restringersi e diventare più nitida, ma pur sempre ombra. Sto tremando dall’emozione mentre, inutilmente, cerco il trucco nascosto dietro questa proiezione. Alzo la mano per sfiorare quel nuovo me, ed ecco, che la magia diventa realtà. Lo specchio non è uno specchio, ma un telo elastico dalla trama fitta, simile alle calze che le donne indossano per conquistarci, ma più soffice. E la mano che sto sfiorando, non è la mia. Faccio un passo all’indietro per non offendere quella mano sconosciuta, ma serbando l’intimo desiderio di poterla toccare ancora una volta. Mentre guardando dalla parte opposta di quel velato tessuto, riesco ad intravedere appena il corpo di una donna, stupita quanto lo sono io, di questo nuovo, privato incontro.
Chi è quella donna senza volto che resta immobile dall’altra parte dello “specchio”?
Ci troviamo solamente a qualche centimetro di distanza, eppure non possiamo vederci. Ed in un istante rivivo il bruciante desiderio di potermi addormentare con la mano appoggiata al corpo di una donna ancora da conoscere, sentendomi dominato da un’attrazione primitiva, che credevo non possedere.
Riesco a sentire il suo profumo che mi scalda e che, unico nel suo genere, non avevo mai sentito prima d’ora. Posso anche respirare il suo respiro, controllato e pieno. Ma non posso vederla.
Il sangue mi scorre nelle vene senza sosta, spinto dal cuore che pompa all’impazzata.
Siamo sempre a pochi centimetri di distanza, quando, dopo qualche attimo d’ imbarazzata indecisione, le nostre mani decidono di farsi ambasciatrici di un’unione che sembra non esistere. Si sfiorano intimidite dietro a quel telo che le nasconde. Premono una sull’altra, prima dolcemente, poi con la forza di due amanti che non si incontrano da troppo tempo.
Non mi è possibile dire se la sua pelle sia liscia e morbida, o bianca o scura. Non posso sapere di che colore siano i suoi capelli o quanto profondi i suoi occhi. Non posso sapere se il naso abbia le caratteristiche che di solito ricerco in una donna. Ma posso sentire il suo corpo premere contro il mio, ed il seno, appena accennato, che, al pari delle cosce, mi sfiora in un’antica danza di corteggiamento.
Non posso sapere se dentro di sé nasconde il segreto della verginità o se quello della lussuria. Ma le sue labbra posso definirle, posso sentirle che, attraverso quel telo, sfiorano le mie in una morsa senza barriere, senza peccato e senza morale. Non sappiamo nulla di noi, ma conosciamo ogni cosa. Le mie mani sfiorano il suo corpo e le sue il mio, come due ragazzini che per la prima volta si conoscono, si scambiano carezze, nascosti dal peso delle coperte. Il suo seno preme contro il mio petto, mentre con le mani ci stringiamo senza esclusioni. Sento la temperatura del suo corpo innalzarsi ed il suo profumo esplodermi tutt’attorno. Ed il cuore le rimbomba con i suoni di un’intera tribù in festa che batte i piedi sulla terra bruciata sotto il sole africano. Le nostre braccia si incrociano sopra le nostre teste, come a trattenersi, per poi tornare nuovamente a cercarci, mentre le nostre labbra continuano a mordersi divise.
Vorrei poterla conoscere più a fondo. Sentire il suo vibrante sapore. Vorrei, ma non posso, perché la cecità che ci divide è invalicabile. Posso soltanto sentire il sapore salato e caldo, di una lacrima che timidamente le bagna le labbra. Una lacrima che le attraversa il viso per poi appoggiarsi sulle labbra, ed entrare nelle mie, in un’intima promessa d’amore.
Il tempo è scaduto. Le porte alle nostre spalle si riaprono, facendo esplodere la realtà all’interno della stanza. Le voci stridenti e la luce fredda delle lampade al neon, graffiano quell’aria ormai satura di noi. Sono nuovamente inerme nel vedere la sua mano che sparisce lentamente da quello “specchio”, cosi come la sua ombra. “È come essermi innamorato di un sogno che vedo inevitabilmente sparirmi davanti agli occhi. Come aver passato una vita intera con qualcuno che non esiste” sussurro tra me e me.
Uscendo dalla stanza provo un senso di vertigine ed ho l’impressione che gli stessi teli di seta nera, che prima mi cullavano, ora abbiano assunto il peso che prima non avevano, facendosi così difensori di una realtà imperfetta. Baluardi del mio sogno nascosto.
So di essere alla ricerca di una donna impossibile da trovare,
ma resto incastrato nel desiderio di poterla sfiorare
Appena fuori dalla porta, il tempo sembra muoversi con più rapidità, ma con meno poesia. Mi guardo attorno ma non trovo “nessuno”. Tutto è rimasto uguale, tutti sono uguali: Alexei e mia moglie. Il cameriere al bar. E le pose delle persone. Volto la testa in ogni direzione alla ricerca di quel gioiello perduto, trascinato lontano dalla tempesta di persone in movimento. Ma non riesco a vederla.
Chi è? Chi potrebbe essere?
So di essere alla ricerca di una donna impossibile da trovare, ma resto incastrato nel desiderio di poterla sfiorare ancora una volta.
Si dice che sia estremamente difficile ricordare il volto dei propri sogni, che lentamente spariscono, lasciando dietro di sé il solo ricordo di una sensazione. E cosi sarà anche per me. Non incontrerò mai più quella donna.
I sogni, tanto affascinanti e al tempo stesso tanto bugiardi. Mi chiedo se mai scoprirò un modo per rivivere quelle sensazioni, per salvarle dall’inevitabile declino della memoria.
Avviandomi solitari verso l’uscita, stringendo tra le mani un bicchiere di champagne, un pensiero mi consola. Sapere che il mio non è stato un sogno, ma la possibilità di rivivere l’amore per un’ombra, grazie ad uno specchio dalle labbra di seta.
Le voci attorno a me iniziano a stordirmi, a farmi barcollare. La vertigine si fa marea, e in un istante mi sento naufrago, più di quanto non lo fossi prima.
Per qualche secondo però, poco prima di andarmene, trovo la forza di sovrastare lo sguardo di Alexei che mi osserva, puntandolo saldamente negli occhi, senza alcuna esitazione, con la precisione di un cecchino che mira alla fronte del nemico. Ma senza premere il grilletto. Mentre, nello stesso momento, vengo seguito dallo sguardo accusatorio di mia moglie.
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