La techno, i club, i beat inarrestabili. Balli che durano una notte intera, forse due, forse una settimana. L’intermittenza delle luci stroboscopiche ci trasporta in un mondo irreale e ideale, in una dimensione ovattata, in ruscello onirico in cui si resta a galla anche senza saper nuotare. Addio, strofe e ritornelli. La musica è ora un fiume preannunciato da intro avvolgenti che ci prendono la mano per catapultarci nel vortice della percezione. È un viaggio introspettivo e rituale che libera il corpo dalle tensioni quotidiane, travolgendolo in una danza sinuosa.
Noi, figli degli anni ‘80, siamo stati i primi testimoni della sottocultura rave, nelle sue varianti legali e, spesso, illegali. Siamo stati cullati dall’umile estro degli anni ‘90, un decennio spaccato in due. Da un lato le sonorità fangose di Nirvana e Alice in Chains, dall’altro i Prodigy, i Daft Punk, la Factory di Manchester. Siamo cresciuti in un’epoca in cui il virtuosismo dei chitarristi conviveva pacificamente con la semplice e meccanica pressione di un pulsante. Questa disforia ci ha permesso di accettare, seppur con iniziale rassegnazione, melodie ipnotiche, minimali e ripetitive, che riprendono i minutaggi dilatati dal progressive e voltano le spalle alla concisa essenza del grunge e del punk. E se questi generi avessero una radice comune? Se il rock a un certo punto avesse deciso di abbracciare nuovi stati di coscienza, servendosi di strumenti appena sfornati dai centri sperimentali? Chissà su quali lidi sarebbe approdata la musica “popolare” se non fossero esistiti i Kraftwerk, i Can, i Faust, i Tangerine Dream, gli Ash Ra Tempel, i Neu!.
C’è stata una pagina molto buia nella storia dell’Europa. Soprattutto in quella della Germania. C’è stato un momento in cui nulla era rimasto intatto, al di là dei cumuli di macerie sommersi dal vuoto pneumatico e congiunti dalla devastazione. Era il momento di ripartire da zero, o forse da ciò che era rimasto in sospeso: l’avanguardia. L’unica flebile fiamma che rischiarava il cielo del dopoguerra proveniva dal mondo anglosassone ed era incarnata dal tanto sospirato sogno americano. Tutto intorno, la vergogna. I nazisti erano stati scacciati, uccisi, messi al bando, perseguitati come loro stessi avevano fatto con le proprie vittime, ma di fatto erano ancora lì. Non più in veste di generali delle SS o di funzionari della Gestapo, ma di insegnanti, educatori, genitori, medici, infermieri, poliziotti, commessi. Il conflitto aveva lasciato in eredità una nazione contaminata dall’odio, ma non c’era tempo per fermarsi ad aspettare che i bambini crescessero e ripudiassero la dottrina genitoriale. Bisognava ricominciare, anche se gli hitleriani erano ancora lì ed esercitavano le proprie professioni come se nulla fosse accaduto. Forse solo con meno emancipazione.
Ci sono voluti circa vent’anni prima che qualche raggio di sole iniziasse a penetrare nei millimetrici interstizi di un sistema corrotto dal desiderio di distruzione, un arco di tempo propedeutico alle nuove generazioni per concretizzare la necessità di voltare pagina, senza smettere di camminare a testa alta. E per farlo hanno scelto il mezzo più dirompente che avevano a disposizione, la musica.
Negli anni ’60, il panorama musicale mainstream della Germania Ovest non sprizzava un briciolo di carisma. C’erano le canzoni provenienti da Stati Uniti e Gran Bretagna, la cui estetica aveva saputo imporsi con vigore capitalista prima ancora dello stesso capitalismo, e c’erano gli Schlager. Essendo apolitico, questo stile (nazional)popolare cantato in lingua tedesca aveva fatto breccia addirittura nel cuore di Joseph Goebbels, persuadendolo a investirvi enormi capitali e a imporlo come “genere di bandiera”.
In realtà, sullo sfondo c’era qualcos’altro che muoveva i primi passi nelle sue accezioni primordiali, la musica elettronica. Nel 1951 era infatti nato lo Studio für elektronische Musik della Westdeutscher Rundfunk di Colonia (Studio per la musica elettronica della radio della Germania Ovest, ndt), luogo che ha dato i natali alla musica concreta e, in termini artistici, a John Cage e Karlheinz Stockhausen. Gli strumenti di cui questi pionieri si facevano promotori erano però destinati a pochi e facoltosi eletti, poiché presupponevano conoscenze molto tecniche, necessarie persino all’emissione di un singolo suono. Le composizioni restavano pertanto accessibili esclusivamente a ricercatori e addetti ai lavori. I sintetizzatori modulari presentavano inoltre un enorme problema, ovvero erano così voluminosi da riempire un’intera stanza. Tale aspetto li rendeva praticamente impossibili da trasportare su qualsivoglia palco, incrementandone il carattere elitario.
Malgrado gli ostacoli logistici, questo era esattamente il tipo di rivoluzione che serviva alla Germania per rinascere dalle sue ceneri. Bisognava ricongiungere la Stunde Null al suo significato mediante un linguaggio inedito e sbalorditivo. Ed è proprio Stockhausen a smuovere le acque torbide, coltivando il seme del cambiamento in allievi diretti, come Holger Czukay, e proseliti indiretti, tra cui Ralf Hütter e Florian Schneider.
Anche la tradizione dei figli dei fiori viene in soccorso alla nuova gioventù teutonica, grazie all’intervento di Timothy Leary. Considerato da Richard Nixon “l’uomo più pericoloso del mondo”, lo psicologo lisergico si vede costretto a fuggire in Svizzera, dove però porta con sé gli insegnamenti d’oltreoceano. Qui entra a fare parte di una comunità di artisti e conosce personalità del calibro di H.R. Giger o Hartmut Henke, bassista degli Ash Ra Tempel. È proprio la collisione di tali menti ad accendere la miccia di quella che, in seguito, si affermerà con il nome di kosmische Musik, un cocktail di psichedelia, avanguardismo e nichilismo che tuttora continua ad ammaliare.
Il nome Krautrock è stato coniato da un giornalista del Melody Maker per definire, in senso goliardico e dispregiativo, uno stile di musica rock di matrice teutonica, ergo intrinsecamente sgraziato. Krautrock è però divenuto in seguito il termine ombrello ufficiale usato per raggruppare diversi stili, accomunati unicamente dalla provenienza geografica e dall’archetipica stravaganza.
Band come Can, Kraftwerk, Amon Düül, Ash Ra Tempel, Faust, Neu!, Popol Vuh e Tangerine Dream sono riuscite ad attingere da un calderone di fenomeni eterogenei, facendoli coesistere pacificamente in una poliedrica sinfonia. Riff infiniti, distorsioni, allucinazioni, grovigli di cavi, follia liturgica, malinconia e ripetizione. Questi sono gli ingredienti alla base del Krautrock, un movimento sbocciato allo Zodiak Club di Berlino, supportato dall’etichetta Ohr e portato in auge dalle celebri John Peel Sessions della BBC.
Al suo interno si stagliano diverse fazioni, riconoscibili da tendenze ben marcate. Ci sono gli Ash Ra Tempel e i Tangerine Dream, capostipiti della sognante kosmische Musik, ci sono gli incubi post-atomici dei Faust, i penetranti Can, i motorici Neu!. Ci sono i geniali Kraftwerk, che dirottano per sempre la storia della musica con la loro emblematica e seriosa autoironia, conducendoci fino al rigido cuore dell’elettronica.
È difficile immaginare quei quattro robot impettiti come i demiurghi delle interminabili serate nei club, così come è difficile riconoscerli nelle ballate di David Bowie e nella dance di Giorgio Moroder. Eppure sono lì, insieme a tutti gli altri innovatori che come loro hanno contribuito a seppellire la lacerazione per plasmare la realtà moderna.
KRAFTWERK, Quando la tecnica incontra la distopia
Album consigliato: “The Man Machine” – 1978
Come non risultare banali quando si parla dei Kraftwerk? Il quartetto di Düsseldorf si è ormai fatto spazio nei manuali di arte contemporanea, alla stregua di Roy Lichtenstein e Frida Kahlo. Non per niente nel 2013 sono si sono esibiti per un’intera settimana in occasione di una rassegna monografica alla Turbine Hall della TATE Modern di Londra. Gli album che hanno prodotto vengono celebrati all’unanimità come la materializzazione del genio assoluto. I grandi musicisti di oggi li osannano e li ritengono fonte di ispirazione. Ai Kraftwerk sono stati dedicati libri, documentari, tesi di dottorato. I loro nome compare in ogni dibattito sulla musica elettronica, genere di cui le nuove generazioni si nutrono con voracità.
Con un aspetto distinto, anti-anticonvenzionale (per i dettami fricchettoni dell’epoca) e conservativo, hanno saputo rivoluzionare per sempre i nostri ascolti sfruttando l’estetica del paradosso. Less is more è il principio che traina Ralf Hütter, Karl Bartos, Florian Schneider e Wolfgang Flür nel concepire “The Man-Machine” e “Autobahn”, alcuni tra i lavori che maggiormente stimoleranno la nascita del synth-pop e della techno. Non muovono nulla sul palco, solo la punta delle dita. Nessuno si scompone, non si poga, niente head-banging o stage diving. Niente di niente. Ma ci permettono di viaggiare in un futuro che è quasi già passato.
Dietro l’impenetrabile parete di ritmiche impeccabili si cela un sottile velo di malinconia che ingloba una feroce critica al sistema. La metropoli, l’autostrada, i robot, la calcolatrice, le radiazioni. Un mondo freddo e schematico, fatto di cemento, deteriorato, governato dalla tecnologia glaciale e dalla brutalità delle azioni umane. È così che se lo immaginano, e, forse, hanno ragione.
TANGERINE DREAM, Avventure cosmiche
Album consigliato: “Zeit” – 1972
Flauti esotici che richiamano i raduni woodstockiani, fraseggi dissonanti, sintetizzatori algidi, organi solenni, un’enigmatica cacofonia dal respiro sperimentale. Ecco come si presentano i Tangerine Dream al mondo, inaugurando la stagione della kosmische Musik. Il primo album della band capitanata da Edgar Froese, “Electronic Meditation”, mette nero su bianco ogni volontà e ci accoglie in una meditazione elettronica lunga quasi mezzo secolo.
I Tangerine Dream nascono a Berlino Ovest dall’unione del sopraccitato Froese, del prestigiatore dei synth Klaus Schulze e del visionario compositore Conrad Schnitzler. Tuttavia, il progetto non è concepito per rimanere statico, bensì per brillare di luce propria e proiettare la musica verso l’infinito. Klaus Schulze e Conrad Schnitzler abbandoneranno infatti molto presto i compagni per dedicarsi alle rispettive brillanti carriere, sebbene l’impulso iniziale dei Tangerine Dream rimarrà cristallizzato nei numerosi interpreti che li sostituiranno nei decenni a venire.
Se “Electronic Meditation” lascia ancora spazio ai virtuosismi del rock progressivo, a partire dall’evocativo “Alpha Centauri” le chitarre vengono abbandonate quasi del tutto, tagliando il cordone ombelicale con le strutture canoniche. L’astronave è pronta per decollare e disperdersi nella profonda oscurità della galassia. Tante sono le tappe che si susseguono in questa avventura cosmica, oltre trenta, durante le quali gli insegnamenti di Stockhausen continuano a fondersi con il ritmo integralista del cosmo.
KLAUS SCHULZE, Il re Mida della kosmische Musik
Album consigliato: “Irrlicht” – 1972
Tutto ciò che Klaus Schulze tocca diviene cosmico. Le composizioni classiche, gli organi da cattedrale, il jazz, la polifonia e persino la colonna sonora di un film pornografico. Definire Schulze un pioniere potrebbe sembrare riduttivo, vista la sua intrinseca capacità di modellarsi intorno allo scorrere del tempo e persino di anticipare le epoche di anni luce.
In seguito all’esordio con gli Psy Free, Klaus Schulze abbraccia la visionarietà inquieta della kosmische Musik, divenendone il vero e proprio emblema. Gli basta dare il la agli ancora esordienti Tangerine Dream e Ash Ra Tempel per marcarne perennemente a fuoco le decennali carriere, prima di tornare nel suo discreto bozzolo solitario. Collabora con Lisa Gerrard, voce celestiale dei Dead Can Dance, forma i Cosmic Jokers insieme al collega Manuel Göttsching, impreziosisce con la sua magistrale presenza il supergruppo Go, i Din a Testbild e addirittura un album degli Alphaville, quelli di “Big in Japan”.
Nella sua discografia da solista si contano oltre venti album da studio, numerosissime antologie e il suo nome compare in accanto a quelli di importanti figure del panorama internazionale, tra cui Michael Shrieve e Bill Laswell.
I tessuti fatti di vorticosi intrecci elettronici da cui nascono le distopiche melodie di Schulze hanno indiscutibilmente ispirato grandi compositori come Jean Michelle Jarre, Vangelis e una sfilza infinita di artisti contemporanei.
Il sapore futurista dei sintetizzatori in “Irrlicht”, “Cyborg” e nei lavori successivi fa parte di un’impalcatura con delle fondamenta ben salde, che gli consentono di prescindere da voci o liriche per affermarsi nella galassia di nuovi stili in perpetua evoluzione e di altri che devono ancora venire.
ASH RA TEMPEL, Misticismo ancestrale
Album consigliato: “Schwingungen” – 1972
Ash sono le ceneri, Ra l’antico dio egizio del sole, Tempel è un tempio, un luogo di contemplazione: un nome che evoca epoche lontane, rituali esoterici e una connessione con il magico mondo dell’inconscio. I sacerdoti che abitano questo mistico santuario di sonorità ovattate e accoglienti come un grembo materno sono Manuel Göttsching e Hartmut Enke, scortati in maniera intermittente dal guru cosmico Klaus Schulze ed elevati a portatori ufficiali di psichedelia grazie al cameo di Timothy Leary in “Seven Up”.
L’omonimo disco d’esordio della band berlinese è composto da due soli lunghissimi brani introspettivi, intitolati “Amboss” e “Traummaschine”. L’incudine e la macchina dei sogni, questi i corrispettivi in italiano, occupano con la loro lenta vena malinconica rispettivamente le due facciate dell’LP e risentono apertamente dell’esperienza tangeriniana, sebbene tocchino corde più cupe e meno sognanti rispetto alle composizioni dei contemporanei colleghi. La virata Krautrock diviene chiaramente palpabile già nel secondo e più acclamato album, “Schwingungen”. Pubblicato a un solo anno di distanza dal primo, questo lavoro approfitta dell’assenza momentanea di Schulze per combinare l’animo dei Can con una buona dose di misticismo, dando vita all’emblematico sound degli Ash Ra Tempel che verrà consacrato in via definitiva dalla voce del celebre “psicologo dell’LSD” nel disco successivo. L’esperienza di Göttsching e dei suoi compagni proseguirà assumendo nuove forme, quelle dei Cosmic Jokers e degli Ashra, continuando a solcare il silenzio dello spazio-tempo con risonanze ancestrali.
FAUST, Un pugno in faccia all’armonia
Album consigliato: “Faust” – 1971
Faust, pugno. Un pugno in faccia all’armonia che spopola in radio e in TV negli anni ‘70. Con un’unica cifra espressiva, la band di Wümme ha saputo sintetizzare gli insegnamenti di Bertolt Brecht, la dirompenza dei Velvet Underground e il dettaglio nella ricerca di Stockhausen, facendoli convogliare in uno stridente art-rock contaminato dal cabaret e dall’elettronica. Nei loro brani si respira lo spirito della decostruzione, chiave di volta per riuscire a insabbiare definitivamente il passato. Sebbene per lo più sconosciuti al grande pubblico, al contrario dei più melodici Kraftwerk e Tangerine Dream, i Faust personificano con orgoglio l’emblema del Krautrock. Molti più artisti di quanti immaginiamo si sono abbeverati alla loro fonte: non c’è nulla nella no wave newyorkese o in alcuni dei principali esponenti della new wave di Manchester, come gli A Certain Ratio o i Durupti Column, che non rimandi ai Faust. Le loro dissacranti vibrazioni si respirano persino nelle chitarre dei Sonic Youth e nell’inquietudine dei Legendary Pink Dots.
La lastra di un pugno sulla copertina del primo album omonimo ci fornisce chiari indizi in merito agli obiettivi che avrebbero perseguito. Senza affidarsi a viaggi interdimensionali, si dichiarano decisi a penetrare fino al nucleo di ogni macabro tormento, per riportarlo poi alla luce. Werner “Zappi” Diermaier, Jean-Hervé Péron, Hans Joachim Irmler, Arnulf Meifert, Rudolf Sosna e Gunter Wüsthoff danno voce alla crudeltà umana, evocandola con una maestria ineguagliabile.
CAN, Il vintage rock che guarda al futuro
Album consigliato: “Tago Mago” – 1971
Il Krautrock si manifesta in tante accezioni, e una di queste è la visceralità dei Can. Come non essere spiazzati dai loro ritmi futuristi ossessivi, reiterati, senza inizio e senza fine? Ricordo la prima volta che li scoprii e, senza sapere chi fossero, ne rimasi ossessionata. Il convulso ritornello di “Paperhouse” compariva nella colonna sonora di un documentario dedicato ai Kraftwerk. Al tempo non esisteva Shazam, non avevo modo di sapere a chi appartenesse la voce androgina e penetrante che non intendeva schiodarsi dalla mia mente. Mi ci sono voluti circa due anni per scoprire che quell’urlo disperato apparteneva a Damo Suzuki, anima spirituale dei Can.
La leggenda narra che il cantante giapponese sia stato reclutato dai suoi compagni di avventure poco prima di un concerto, forse a Monaco, forse a Colonia. I Can avevano però già intrapreso il loro percorso intorno alla metà degli anni ’60, tra i banchi dell’accademia in cui Karlheinz Stockhausen in persona dispensava il suo sapere. È qui che Holger Czukay e il tastierista Irmin Schmidt ne assorbono gli insegnamenti, per poi sprigionarli in album destinati a divenire leggenda.
I Can rivolgono lo sguardo oltre l’orizzonte, dove a trionfare non è solo la psichedelia, ma anche un espressionismo preso in prestito dal jazz, un’accorata passione e uno spleen che non lascia scampo. Can, come ci suggerisce la copertina di “Ege Bamyasi”, è sì una lattina, ma è anche un verbo modale che denota le infinite possibilità a disposizione dell’arte, un monito per ricordarci che tutto è possibile.
NEU!, Il motore trainante del Krautrock
Album consigliato: “Neu!” – 1971
I Neu! sono la summa del Krautrock. Ritmi incalzanti, ossessività e materialismo urbano si uniscono nel motorik beat di questa suggestiva costola dei Kraftwerk, plasmando uno stile fuori dal comune. Allontanatisi per via di divergenze interne da Hütter e Schneider, il percussionista Klaus Dinger e il chitarrista Michael Rother partono all’esplorazione di nuovi territori, dove, nonostante l’indole rivoluzionaria, le liquide melodie non prescindono dai canoni estetici. Non disturbano, non scompongono, non destrutturano, ma permettono al flusso di scorrere costante come un ruscello fatato e intimo.
Sebbene il percorso dinamico dei Neu! sia scandito più dagli accordi di chitarra e meno dai sintetizzatori, il legame con i Kraftwerk è pressoché evidente. Tuttavia ciò non basta a conferire loro un’accezione prettamente “umana”: il martello pneumatico, l’alienazione fordiana e la serialità dell’industrializzazione emergono vigorosi nei loro brani. L’assenza di voce consente di concentrarsi esclusivamente sulla musica e conferisce agli album dei Neu! un respiro narrativo, la quale essenza diviene palpabile solo in seguito a un ascolto ininterrotto. Forse è per questo che vengono pubblicati come lavori omonimi, singoli mattoncini parte di un unico costrutto, distinguibili esclusivamente grazie all’anno di pubblicazione.
Neu! è un nome che sembra attingere dal marketing e ci sbatte in faccia la realtà del cambiamento. Con la loro visionarietà si sono spinti fino negli angoli più remoti dello spirito ultramoderno, precorrendo gli oscuri eredi del decennio successivo.
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