Questa favola calcistica ha per eroe un esterno sinistro, che con un rigore ha portato sul tetto del mondo un’intera nazione. Scordatevi le urla di Caressa e Bergomi, l’Olympiastadion e l’estate del 2006: non stiamo parlando del nostro Fabio Grosso. Anche se l’Italia c’entra eccome con la nostra storia.
Il nostro eroe, infatti, ama la Penisola, la sua cucina in particolare, e dalle parti di Milano (sponda nerazzurra) se lo ricordano bene in molti.
Se Grosso ha dipinto di azzurro il cielo di Berlino, sedici anni prima Andreas Brehme ha colorato con il tricolore nero, giallo e rosso il firmamento italiano, in una calda e magica notte romana. È stato suo infatti il calcio di rigore, concesso a sette minuti dal novantesimo minuto, che ha permesso all’ultima Germania Ovest della storia, guidata in panchina da Franz Beckenbauer, di rompere la diga argentina e consegnare a capitan Lothar Matthäus la terza coppa del mondo tedesca: «Un miliardo di persone guardava quella partita. Dovevo scegliere se essere un tonto o essere un eroe: ho preferito la seconda».
Andreas Brehme non è un eroe estemporaneo, una meteora, un idolo per una notte. No, Andreas Brehme, nel 1990, è uno dei migliori esterni in circolazione. Protagonista in patria con le maglie del Kaiserslautern e del Bayern Monaco, diventa, nel 1988 e sino al 1992, una colonna dell’Inter di Trapattoni, che vince scudetto e coppa Uefa. Molti lo ricordano per il suo potente mancino, ma il rigore con cui batte il portiere argentino Sergio Goycochea, nella finale di Italia ’90, lo calcia con il destro: «Lo conosco da vent’anni e ancora non so se sia destrorso o mancino» dirà di lui il suo ct, Franz Beckenbauer.
Questa storia ha 24 eroi, e comincia il 10 giugno 1990 a Milano, davanti a 75mila persone datesi appuntamento in un San Siro fresco di terzo anello. Inizia come finisce: con una vittoria della Germania Ovest, a sette mesi dalla caduta del muro, e a quattro dalla definitiva unione delle due Germanie. Nasce da questa avventura uno dei mantra storici sulla nazionale tedesca: «Il calcio è un gioco semplice – dice con perfetta sintesi anglosassone Gary Lineker – 22 uomini rincorrono un pallone per 90 minuti, e alla fine la Germania vince».
«Notti magiche, inseguendo un gol» canta la coppia Bennato-Nannini, in quella canzone incisa su uno degli ultimi 45 giri della storia, il cui videoclip è oggi un cimelio del trash italiano. Ventotto anni quella canzone diventa la colonna sonora dell’euforia azzurra, una melodia che percorre l’estate dalle Alpi al Mar Ionio. In verità il gol la Germania Ovest non deve nemmeno inseguirlo molto: ne arrivano quattro il 10 giugno, all’esordio contro la Jugoslavia, in un match vintage che a leggerlo oggi negli almanacchi fa commuovere i nostalgici (che poi anche gli almanacchi stessi sono materiale per chi vive di ricordi). Le reti sono di tre giocatori simbolo di quella nazionale: Matthäus (doppietta), Klinsmann e Völler.
Sul primo, capitan Lothar, si potrebbero scrivere libri lunghi come i Fratelli Karamazov. Stiamo parlando di un calciatore capace di segnare 53 gol in 153 partite con l’Inter, ma di giocare anche da libero, davanti al portiere. Un centrocampista eclettico, potente ma con piede educato, definito da Maradona, memore anche della marcatura a uomo nella finale di Messico 1986, «il miglior avversario che ho avuto in tutta la carriera». Un’investitura niente male, con buona pace di Baresi, Maldini e Scirea. Uno dei migliori tuttocampisti di sempre, che alla fine del 1990 la rivista France Football premierà con il pallone d’oro.
In effetti però anche gli altri due, Klinsmann e Völler, hanno diritto almeno a un paragrafo a parte.
Tra Jürgen Klinsmann e il gol è amore a prima vista, un colpo di fulmine che diventa presto neverending story. A otto anni segna sedici gol in una sola partita con il Tb Gingen, una piccola squadra nel villaggio di Gingen der Fils, sud della Germania. A ventuno ne fa cinque al Fortuna Dusseldorf con la maglia dello Stoccarda: uno al volo di destro, uno di sinistro, uno di testa, due al termine di travolgenti azioni personali. A 39 anni segna cinque gol in otto partite con i californiani dell’Orange County Blue Star, giocando sotto mentite spoglie, con il nome di Jay Goppingen (dal nome della cittadina del Baden-Württemberg in cui era nato il 30 luglio 1964).
Giocatore e personaggio istrionico, ambizioso e gran lavoratore (si era allenato con un coach speciale sullo sprint fino a fare i 100 metri in 11 secondi tondi), venerato come una rockstar o sopportato con fastidio, cambia spesso casacca e gira mezza Europa. Lo amano i suoi tifosi, lo insultano i suoi rivali: per certi aspetti ricorda Zlatan Ibrahimovic.
Dopo il mondiale statunitense del ’94, in cui segna cinque gol, il suo peregrinare (Stoccarda, Inter, Monaco) lo porta a Londra, zona White Hart Lane. Considerato ormai in fase calante e inviso oltremanica soprattutto per le sue simulazioni (una, poco tempo prima, aveva costretto Costacurta a guardare da casa il 4-0 al Barcellona nella finale di Champions del ’94), al Tottenham non lo accolgono bene.
Andrew Anthony, editorialista sportivo del Guardian, pubblica un articolo dai toni non troppo benevoli. Il titolo “Why I hate Jürgen Klinsmann” non lascia spazio a interpretazioni. La “pantegana bionda”, come l’avevano soprannominato scherzosamente a Mai dire gol, risponde alla sua maniera: gol di testa all’esordio nel 4-2 allo Sheffield Wednesday e festeggiamenti con plateale tuffo a pesce, seguito a ruota da tutti i compagni. L’esultanza a mo’ di Tania Cagnotto diventa il suo marchio di fabbrica in Inghilterra: la fa altre 28 volte in stagione, diventando l’idolo dei tifosi Spurs. A fine anno viene eletto miglior calciatore dell’anno dalla Football writers’ association. Al Guardian sono costretti a fare pubblica abiura: escono con un pezzo “Why I love Jürgen Klinsmann”.
Capite le scarse ambizioni dei londinesi, il centravanti tedesco saluta dopo solo un anno. Sedotti e abbandonati i tifosi biancoblu, che lo riaccoglieranno poi per un’altra parentesi nel ’98, Klinsmann torna in patria, al Bayern Monaco, non prima di aver lasciato un suo ricordo immortale sulle sponde del Tamigi: la statua di cera che il Madame Tussauds gli dedica, completando la sua metamorfosi in icona pop-calcistica.
In Baviera, a 33 anni suonati, vince un campionato (l’unico della sua carriera) e una coppa Uefa (la seconda dopo quella alzata con l’Inter nel ’91), sollevata da protagonista assoluto con 15 gol in 12 partite. A fine annata, nel ’96, per non farsi mancare nulla, alza da capitano nel cielo di Wembley la coppa di campione d’Europa con la sua Germania. Il passaggio della fascia con il predecessore Lothar Matthäus non è però stato indolore: i rapporti tra i due campioni iridati sono tutt’altro che idilliaci.
All’alba di Euro ’96, torneo vinto dalla Germania con il golden gol di Bierhoff in finale, Matthäus accusa Klinsmann di aver complottato per escluderlo dalla nazionale, anche se il ct Berti Vogts definisce la decisione di affidare la fascia a Jürgen «la sua migliore idea» e parla di un Klinsmann «straordinario per tutto il torneo». La stagione successiva, Matthäus scommette con il general manager del Bayern 5mila sterline sul fatto che Klinsmann non arriverà a 15 gol, mentre i tabloid in Germania parlano male del centravanti e una tv ne mette in discussione l’orientamento sessuale. A fine anno quindi Klinsmann, dopo aver segnato esattamente 15 reti, fa le valigie e torna a Londra, lasciandosi pacificamente con il Bayern: «Forse non sono il giocatore adatto a giocare in un’atmosfera da Hollywood, e il Bayern lo chiamano Fc Hollywood. L’ambiente non è positivo per mia moglie e mio figlio». L’uscita di scena è una cassanesca scalciata ai tabelloni pubblicitari dopo che Giovanni Trapattoni, con cui comunque conserva buoni rapporti, lo sostituisce con un primavera alla terz’ultima di campionato.
Bizze a parte, Klinsmann era un attaccante forte e un gran lottatore, terminale offensivo perfetto per una nazionale non spettacolare, ma terribilmente solida come quella campione del mondo del 1990. A Italia ’90 i tedeschi, dopo aver rischiato di non qualificarsi (come successo per esempio alla Francia, in ricostruzione dopo Platini), arrivano da due finali mondiali consecutive, entrambe perse, e da un Europeo casalingo abbandonato in semifinale contro l’Olanda di Van Basten, poi vittoriosa in nell’unico grande successo della sua storia.
E proprio i tulipani sono il primo grande ostacolo che si presenta davanti a Matthäus e compagni nella competizione italiana. La Germania ha vinto agevolmente il girone: 5-1 ai malcapitati Emirati Arabi Uniti e 1-1 contro la Colombia dopo l’esordio contro la Jugoslavia. Germania-Olanda si gioca il 24 giugno 1990 alle 21 nello stadio milanese di San Siro: l’arbitro è Juan Carlos Loustau, argentino di Temperley.
Non potrebbe esserci teatro migliore della Scala del calcio per mettere in scena quello che di fatto possiamo considerare un derby tra l’Inter dei tedeschi e il Milan degli olandesi. L’arancione olandese prende il posto del rossonero, mentre la maglia nerazzurra diventa quella bianca solcata a zigzag in orizzontale dalla striscia nera, rossa e gialla della Germania Ovest. Si sfidano due idee di calcio diverse: la concretezza d’acciaio dell’Inter di Brehme, Matthäus e Klinsmann; il calcio totale del Milan sacchiano dei tre tulipani Rijkaard, Gullit e Van Basten. A due anni dalla semifinale persa in casa, la Germania si prende la sua rivincita. “L’Inter fa la differenza” titola la Gazzetta il giorno dopo, visto che le reti della vittoria saranno proprio di Brehme e Klinsmann. Inutile il rigore trasformato da Ronald Koeman a un minuto dal termine, che fissa il punteggio sul 2-1 finale. Al dilà del risultato, quella partita verrà ricordata soprattutto per quanto accade al 20esimo del primo tempo, protagonisti, in negativo, Rudi Völler, attaccante della Roma, e soprattutto Rijkaard. Quel giorno a San Siro i due non si distinguono per il loro sconfinato talento, e nemmeno per i capelli lunghi al vento con baffetto, che fa tendenza.
Sullo 0-0, il centrocampista orange stende Völler e viene ammonito. Non contento, nel seguente battibecco recapita uno sputo al biondone tedesco, reo, a suo dire di lasciarsi cadere troppo facilmente. Le proteste del teutonico non vengono ascoltate (nemmeno Biscardi aveva iniziato a parlare di moviola in campo a inizio anni ’90), e anzi l’argentino Loustau mostra il giallo pure a lui.
Sulla punizione che segue, calciata in area, Völler si scontra con Van Breukelen. Si scatena una rissa, e il direttore di gara coglie la palla al balzo per cacciare sotto la doccia i nervosissimi Rijkaard e Völler, che continueranno a beccarsi anche nel tunnel di San Siro. La doppia espulsione viene pagata dall’Olanda, che complice anche un Van Basten non al top, deve dire nuovamente addio al sogno di alzare al cielo la coppa del Mondo.
E pensare che, come detto, quella Germania ha rischiato di non essere al mondiale. Gli uomini di Franz Beckenbauer, sedutosi sulla panchina della Germania dopo Euro ’84 e capace di raggiungere la finale anche nel 1986 (persa contro l’Argentina), arrivano alle spalle proprio dell’Olanda nel gruppo 4 di qualificazione a Italia ’90, ed accedono alla fase finale solo come migliore seconda, evitando la fine dell’illustre esclusa, che subisce invece la Francia.
Quando l’8 luglio 2018 Matthäus alza la coppa tutta d’oro, disegnata dall’italiano Silvio Gazzaniga (la stessa usata dal 1974 in poi, dopo che il Brasile vince per la terza volta la Coppa Rimet), Beckenbauer diventa il secondo giocatore dopo Mario Zagallo ad aver vinto il mondiale sia da calciatore (in casa proprio nel ’74) che da allenatore, raggiunto poi quest’anno anche da Didier Deschamps. Con quella finale, inoltre, la Germania spezza una maledizione: mai prima del 1990 una squadra europea aveva battuto una sudamericana in una finale dei mondiali (era 5-0 per l’America Latina).
Ma come gioca la Germania Ovest campione del mondo di Kaiser Franz? A tre dietro: davanti al portiere Bodo Illgner ci sono un libero (solitamente Augenthaler) e due stopper (Buchwald e Kohler). Un 3-5-2, a volte 4-2-1-3, che in fase di non possesso diventa sistematicamente 5-3-2, con la doppia B sulle fasce Brehme-Berthold, brava ad abbassarsi e a salire a seconda delle situazioni. A centrocampo agiscono due mezzali classiche, con compiti di contenimento e di incursione (Häßler e Littbarksi), e il tuttocampista Matthäus, che ha in mano le chiavi della squadra. Davanti spazio ai due centravanti Klinsmann e Völler (non ci siamo dimenticati di lui, tranquilli). Il gioco tedesco, fatto di passaggi semplici, mira ad allargarsi sulle corsie, per poi verticalizzare sugli attaccanti. Quando la palla ce l’hanno gli avversari, il pressing è asfissiante sin dalla metà campo, mentre i due centrali marcano a uomo le punte, impedendo all’altra squadra di usare come via di fuga dalla marcatura il lancio lungo.
Una tattica che fa giocare male gli avversari, non permette loro di sviluppare la manovra, finendo per innervosirli (in finale, l’Argentina finirà in nove). Un cholismo anni ’90, una Germania brutta, sporca e cattiva, come l’Italia di Conte a Euro 2016, con la differenza che davanti, da noi, giocavano Eder e Pellè, mentre Beckenbauer può schierare Klinsmann e Völler.
“Vola, tedesco vola, la curva s’innamora” cantano i tifosi giallorossi della Roma, prima all’Olimpico (ma non dalla curva Sud, in ristrutturazione), poi dagli spalti del Flaminio, e poi di nuovo dall’Olimpico, diventato ufficialmente suo l’estate precedente, quando ha vinto il mondiale con la Germania. Rudi Völler arriva nella capitale nella stagione 1987-88 e ci rimane fino al 1992, quando, con l’arrivo di Boskov in panchina, viene ceduto al Marsiglia, dove vince subito la Coppa dei Campioni. Dalle parti di Roma lo amano molto questo tedescone alto e sorridente, e lui ricambia («Roma e la città di Roma saranno per me sempre un posto speciale», dirà alla cerimonia di ingresso nella hall of fame della Lupa).
Ne parlano tutti bene, dal presidente Viola, che lo acquista dal Werder Brema (dov’era stato capocannoniere della Bundesliga) e lo convince a restare dopo una prima annata non convincente, ai suoi compagni di squadra. «Uomo vero, non ti nasconde nulla e non ti volta le spalle» parole e musica di Bruno Conti. «Era il primo della fila a tutti gli allenamenti, professionista e campione dentro e fuori dal campo. Fortuna che gioca con me, altrimenti non saprei come fermarlo» gli fa eco Pluto Aldair.
Si danna l’anima, e alla fine segna anche gol importanti. Decide un derby, una finale di Coppa Italia, una semifinale di Coppa Uefa (poi persa in finale contro l’Inter).
Ama talmente tanto Roma che torna all’ombra del Colosseo quando a sorpresa Cesare Prandelli lascia la panchina a pochi giorni dall’inizio del campionato. La sua avventura dura poco: esordio con vittoria contro la Fiorentina, poi due sconfitte e un pareggio, con conseguenti dimissioni, giusto in tempo per non rovinare un rapporto perfetto. Qualche anno prima “Tante Kathe” (la zia Kathy, come l’ha soprannominato scherzosamente il compagno di nazionale Thomas Berthold, dopo l’ingrigirsi dei suoi lunghi capelli), si ritrova quasi per caso su una panchina altrettanto bollente, quella della sua nazionale tedesca. Il suo contratto da traghettatore viene prolungato a causa del coinvolgimento in uno scandalo di droga dell’allora allenatore Christoph Daum, scelto dalla federazione per allenare la Germania al Mondiale del 2002. E così in Corea e Giappone ci va Rudi, e fa tutt’altro che una brutta figura, visto che solo la doppietta del mezzalunato Ronaldo gli porta via la coppa che dodici anni prima aveva alzato in Italia, da giocatore.
Ecco, l’Italia. Ancora non abbiamo parlato bene di cosa sia l’Italia ai mondiali del 1990. Uno straordinario momento di passione, e di illusione, in cui si pensa tutto sia possibile. «Sembrava che tutti avessero almeno una bandiera italiana» ricorda Federico Buffa. La maledetta sconfitta di Napoli ai rigori, in semifinale contro l’Argentina, segna la fine di un sogno, che sarebbe diventato incubo poco dopo con lo scoppiare di Tangentopoli.
Nella strada per il mondiale invece, tutto deve apparire perfetto, con il rassicurante ottimismo del “poltronissimo” Franco Carraro (in quegli anni prima presidente Coni, in seguito commissario straordinario Figc, poi sindaco di Roma, ma anche ministro del turismo e dello spettacolo) e dell’uomo della Ferrari, Luca Cordero di Montezemolo, mattatori di quel mondiale assegnatoci dalla Fifa nel 1984, che all’unisono proclamano: «Vogliamo realizzare un sogno, per fare del mondiale una vetrina dell’Italia tecnologica e industriale, proiettata verso il Duemila».
Ancora quattro anni fa, nel bilancio di previsione del governo, un capitolo di spesa parla di “mutui accesi per la costruzione di stadi in occasione dei mondiali di Italia ‘90”, con 61 milioni di euro in ballo. Nonostante i grandi proclami, il “comitatone” di organizzazione non è una macchina perfetta: le opere edilizie previste, a cominciare dagli stadi nuovi o riammodernati (con la legge 65 del 1987), costano l’84% in più dell’iniziale preventivo, e spesso non vengono terminate. Cattedrali e “astronavi” come il Delle Alpi o il San Nicola sono progetti poco lungimiranti e non pensati per le esigenze di squadre e città che li accolgono. Si aggiungano i settecento feriti e ventiquattro morti sul lavoro, ed ecco che il conto da pagare per i mondiali di Italia ’90 diventa terribilmente salato.
Per ravvivare il patriottismo, e favorire il made in Italy, Carraro e Montezemolo riescono ad aggiungere ai grandi sponsor internazionali (Coca Cola, Fuji Film, Canon e Gilette) la categoria “fornitori ufficiali”, nella quale possono rientrare solo aziende italiane. Ecco quindi che Olivetti, Fiat, Alitalia, Stet, Ferrovia dello Stato, Bnl e Ina supportano il comitato con sessantaquattro miliardi, consentendogli di non contrarre debiti per far partire la macchina Italia ’90.
La grande novità di quel mondiale è un utilizzo importante della tecnologia. I giornalisti accreditati possono consultare una banca dati della Coppa del Mondo (in cinque lingue) grazie a una partnership tra Seat e Olivetti: oltre duemila partite in un database con statistiche su squadre e giocatori. Gli stessi cronisti possono usare internet in sala stampa per consultare la posta elettronica e altre informazioni importanti, con i tecnici Seat e Olivetti pronti ad assisterli 24 ore su 24. Inoltre, la Rai mette a punto il sistema Hdtv, che permette di vedere le partite in alta definizione in otto sale cinematografiche. 11 telecamere e 4 replay rendono la visione da casa comunque più che piacevole.
Peccato che a tutto questo spiegamento di forze non si accompagni un grande spettacolo sul campo: mai una Coppa del mondo Fifa ha avuto una media gol tanto bassa, e se le notti magiche esaltano gli azzurri, in generale Italia ’90 viene ricordato come un mondiale abbastanza noioso. Emblema di questa tendenza è la finale, definita all’unanimità come la più brutta di sempre. Per arrivarci, la nazionale di Beckenbauer, dopo aver fatto fuori l’Olanda, sconfigge la Cecoslovacchia con un rigore di Matthäus e la solita prova di gran solidità. Nel frattempo, all’Argentina servono i calci di rigore per aver ragione della Jugoslavia, l’Italia batte 1-0 l’Eire con gol del mitico Totò Schillaci e l’Inghilterra, con uno spettacolare 3-2 ai supplementari, scrive la parola fine sulla favola più emozionante di Italia ’90, quella del Camerun.
Trascinati dallo straordinario 38enne Roger Milla, il cui balletto sulla bandierina farà storia, i “leoni indomabili” passano il girone dopo aver sconfitto i campioni in carica dell’Argentina nel match inaugurale di San Siro. Agli ottavi, ancora una rete del centravanti-leader è decisiva per eliminare la Colombia ai supplementari (2-1) e permettere per la prima volta nella storia l’accesso di una squadra africana tra le migliori otto del mondo (la eguaglieranno il Senegal nel 2002 e il Ghana nel 2010). Il calcio africano, fino a quel momento catalogato esclusivamente come folklore, viene finalmente preso sul serio.
Tutte le fiabe però finiscono, e un crudele rigore di Gary Lineker ai supplementari, nel caldo di un San Paolo di Napoli gremito da 50.000 spettatori, fa prevalere i tre leoni sui leoni indomabili.
Ci pensa la Deutsche Fußballnationalmannschaft a vendicare il Camerun, in una semifinale che è una classica del calcio mondiale.
Germania Ovest – Inghilterra si disputa a Torino davanti a 63mila persone, il 4 luglio 1990 alle ore 20, day after dello psicodramma italiano: il giorno prima la nostra nazionale ha perso 4-3 ai rigori contro l’Argentina di Maradona, in una partita strana, ricordata anche per il tifo di alcuni napoletani che, invece che supportare gli azzurri, inneggiano al Pibe de Oro.
Allo stadio delle Alpi la partita la sblocca, al minuto 60, una punizione mancina di Brehme, sempre lui, aiutato dalla deviazione di Parker. Gli risponde all’ottantesimo il gol del solito Gary Lineker: si va ai supplementari. Un palo per parte di Waddle e Buchwald lasciano il risultato sull’1-1, e sono necessari i calci di rigore per decidere chi affronterà, a Roma, l’Argentina, nella finale di Italia ’90.
Per i teutonici non sbaglia nessuno: Breheme, Matthäus, Riedle e Thon fanno secco il portiere inglese, Peter Shilton. Al quarto tiro britannico dagli undici metri, Bodo Illgner neutralizza invece la conclusione di Stuart Pearce, roccioso difensore del Nottingham Forest. Per Matthäus e compagni è finale: quattro anni dopo, sarà ancora Argentina – Germania Ovest.
Della finale abbiamo già detto: una partita noiosa, in cui il pubblico dell’Olimpico si schiera con la Germania, fischiando per la prima volta un inno nazionale (quello argentino). I tifosi italiani sono ancora scottati dall’eliminazione ai calci di rigore patita contro Maradona, che risponde ai fischi con un emblematico “hijos de puta”, sillabato proprio quando la telecamera lo inquadra, in diretta intercontinentale.
La partita è brutta perché la gioca una sola squadra, senza nemmeno scoprirsi troppo. L’Argentina, campione del mondo quattro anni prima, pensa solo a difendersi. Beckenbauer infatti imbriglia Maradona e Dezotti, centravanti della Cremonese, con la marcatura a uomo di Buchwald e Kohler. L’albiceleste, conscia di essere inferiore, cerca in tutti i modi di trascinare la partita ai calci di rigore, che gli avevano sorriso sia ai quarti che in semifinale (agli ottavi aveva eliminato il Brasile con un gol al minuto ‘80 di Caniggia, dopo aver subito per tutta la partita).
Il piano tattico degli uomini di coach Bilardo inizia a scricchiolare al 65esimo, quando un’entrata killer di Monzon su Klinsmann lascia in dieci l’Argentina e consente al roccioso difensore di guadagnarsi il titolo di primo giocatore espulso in una finale mondiale (a 20 minuti dal suo ingresso in campo). Lo imiterà, a tre minuti dal termine, il numero 9 Gustavo Dezotti, con l’Argentina che uscirà dal campo in lacrime e in nove uomini.
All’85esimo minuto arriva l’episodio decisivo della finale, con cui gli uomini di Beckenbauer che riescono ad abbattere il muro argentino, come poco tempo prima avevano fatto in patria i mauerspechte con il muro di Berlino. C’è un contatto in area tra Sensini e Völler, e per l’arbitro, il trentanovenne messicano Edgardo Codesal Mendez, non ci sono dubbi: è calcio di rigore. Un penaly in verità molto dubbio, ma che decide la partita. Dal dischetto, con gli occhi di tutto il mondo puntati addosso, si presenta Andreas Brehme, che non trema e con un preciso destro rasoterra a incrociare fa secco Goycochea, che intuisce, ma non può arrivarci.
La tardelliana esultanza del laterale sinistro tedesco viene interrotta dai compagni, che lo sommergono in un abbraccio iridato.
Pochi minuti dopo, Lothar Matthäus alza al cielo la terza coppa del mondo per la Germania Ovest, prima che nel 2014 i teutonici vincano il primo titolo della Germania unita.
Italia 90’ finisce così, alle undici di sera di una calda notte romana, con i tedeschi in festa.
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