Segui le orme di uno sconosciuto, imparerai cose che non avevi mai saputo di non sapere
Pocahontas (ca. 1595 – 1617)
Era il 1995 e probabilmente ebbi anche la sorte di vederlo al cinema. La solita combo Disney & McDonald’s che ha segnato gran parte della mia infanzia. A rendermi veramente felice, l’apice della giornata, era poter scartare l’imperdibile gadget del film appena uscito, incluso nell’Happy Meal: quella volta trovai un giochino di plastica raffigurante Nonna Salice. Eravamo bambini, pura fantasia, e in fondo non chiedevamo tanto: solo che i nostri sogni venissero nutriti da un po’ di sana magia. “Tutto intorno a te sono spiriti, bambina mia. Vivono nella terra, nell’acqua, nel cielo. Se ascolti, ti guideranno.“
Probabilmente non è neanche uno dei più ricordati o acclamati classici d’animazione, ma c’è una particolarità, a ben vedere, che distingue quello ispirato a Pocahontas dagli altri cartoni: non scoppia nessuna guerra. Il bene e il male sono presenti sia in uno schieramento che nell’altro; si confrontano, ma non arrivano a scontrarsi. C’è un momento epico, un sacrificio eroico, ma la battaglia in sé non si compie. Nella realtà lo scontro tra coloni e indigeni – in tutti i paesi dove avvenne questo tipo di genocidio – fu tutt’altro che pacifico, D’altronde è sicuramente vero che le forme dell’invasione culturale, sociale e politica assunsero varie vesti, in un processo lungo e tortuoso.
Jared Diamond, scienziato biologo, antropologo e geografo americano, nel suo ‘Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni’, inquadra nel dettaglio quello che fu l’immane scontro di civiltà che si produsse: due visioni del mondo, due percorsi evolutivi distinti che collisero allora per dare vita a quella che divenne nel tempo la lunga marcia per l’occidentalizzazione e omologazione dell’intero pianeta.
Pocahontas – nomignolo che significa letteralmente “piccola svergognata, giocosa” – nella versione italiana del film canta al suo John Smith: “Tu credi che ogni cosa ti appartenga, la terra e ogni paese dove vai“, e sicuramente riassume bene lo spirito del conquistatore; quella filosofia dell’uomo moderno, padrone delle scienze e del mondo, che ancora non ci abbandona. La sua fu la storia esemplare di un matrimonio misto, in cui il bianco di turno prende in sposa la figlia del capo tribù. Modalità più o meno aggressiva di fondere due mondi. Ma così avvenne ovunque, anche qui alle Canarie, dove mi trovo e vivo.
Spesso, per le stradine scoscese del nord dell’arcipelago, tra l’abbondante vegetazione esotica, appare uno scorcio di architettura coloniale spagnola e sembra improvvisamente di trovarsi in Sud America. Un tempo anche nel sud dell’isola le acque dalle sorgenti scorrevano ricche nelle valli calcaree fino al mare, tempestate qui e lì di insediamenti umani. Oggi, dopo la costruzione di campi da golf, di hotel, di centri commerciali e delle miriadi di ville con piscina, a ricordare quei tempi sono solo i nomi dei calanchi. Quello che ironicamente ancora si chiama Barranco del Agua (Gola dell’Acqua), scorre tra lo Sheraton Resort & Spa e l’Hotel Riu Palace Tenerife.
Quella che sto per raccontare è la piccola vicenda dimenticata di un Guanche – in lingua aborigena uomo di Tenerife – di nome Alonzo Diaz Cherfe.
Di supposta origine berbera, i popoli Guanche vivevano di pastorizia e di agricoltura di sussistenza, abitando prevalentemente in grotte naturali o piccole capanne. Non conoscevano metalli e vivevano, diremmo noi, come all’età della pietra. Eppure la loro ricchissima tradizione culturale e manifatturiera e i culti religiosi complessi, hanno fatto intravedere in questo arcipelago dalle sette mistiche isole, i resti di quella mitica Atlantide perduta nel tempo.
Oggi alle Canarie, per quanti monumenti, musei e statue siano proposti, quello del passato pre-spagnolo resta comunque un tema tabù. Qualche isolano porta nomi derivati da quelle stirpi – come Yeray, “il forte”, dal nome di un principe aborigeno – in onore di qualche nonna che vantava origini Guanche, ma poco di più. Forse, quando nel 1909 avvenne l’ultima eruzione vulcanica, qualche donna sapeva ancora pregare la Madre Terra e gli Dei primitivi dell’isola, ma probabilmente già solo nella lingua dei conquistadores.
“Pastore della valle di Santiago, difensore del suo onore e della sua razza di fronte al furto di 200 capre effettuato a suo discapito dall’intenditore Alonso Fernandèz de Lugo, aiutò ad integrare con dignità il popolo Guanche ai conquistatori”
Recita così la targa posta a ricordo, sul basamento in bronzo che raffigura a grandezza naturale il nostro eroico Guanche, situata nella piazzetta antistante la chiesa di Santiago del Teide. Sembra in qualche modo la struggente storia del film neorealistico ‘Non c’è pace tra gli ulivi’, ma qui il protagonista non è un pastore qualunque.
Nobile indigeno, figlio del capo amministrativo dell’unico territorio ancora concesso in proprietà agli aborigeni dopo il trattato detto de Los Realejos del 1496, Cherfe si era visto sottrarre il bestiame niente meno che dal preposto spagnolo alle isole canarie, governatore di Tenerife e di San Miguel de La Palma.
Dopo anni di lotte, non vedendosi restituire il maltolto, decise di giocare la sua ultima carta: imbarcarsi fino alla penisola spagnola per chiedere intercessione direttamente alla reale Corona di Don Fernando il Cattolico. Per capire perché un evento del genere meriti tanto riconoscimento, c’è da immaginarsi il contesto. Siamo agli inizi del sedicesimo secolo, a pochi anni dall’arrivo dei primi coloni. Un Guanche, vestito di una pelle di capra e poco più, compie un viaggio inimmaginabile e al tempo non poco pericoloso, per andare ad incontrare il re di una delle monarchie più potenti del mondo.
L’immagine ha qualcosa che ricorda San Francesco nel suo presentarsi al Papa, o la forza dell’uomo fermo davanti ai carri armati in piazza Tienanmen. Una storia di sopruso politico, mafioso, criminoso, e del coraggio che spinge a combatterlo, costi quel che costi, per principio, finché non si ha più nulla da perdere. Un legal thriller americano o il ‘Io, Daniel Blake’ di Ken Loach. La dignità di tutto un popolo sulle spalle di un solo uomo di fronte all’impellicciato Re di Spagna, giudice chiamato a dare un parere sulla delicata vicenda e a ristabilire la dovuta giustizia.
A passare alla storia fu il verdetto: il 29 Aprile 1509 la Corona intimò al potente Alonso Fernandez de Lugo di indennizzare il Guanche con 40.000 maravedìs in cambio delle sue 200 capre, aggiungendo: “Non è bello che un conquistatore compia certe chorizadas!” derivato da chorizo, tipico insaccato iberico – si potrebbe tradurre con salsicciate.
Fernandez, piuttosto che incorrere in un rovinoso caso giudiziario che avrebbe lenito non poco la sua immagine, preferì quindi trattare e scendere a patti, devolvendo tutto il dovuto. Ma la storia resta e la figura di Cherfe rimane nota come “el Guanche valiente“. Basta immaginare il peso che ebbe il rientro vittorioso dell’eroe alla sua terra, lo sguardo che i due dovettero scambiarsi e quello che significò.
Un uomo si era fatto valere di fronte al potere. Certo aveva dovuto accettare l’autorità spagnola e le sue regole, ricorrendo a quella stessa burocrazia che lo aveva privato dell’autonomia sulle sue terre. Eppure resta solo un tassello, per quanto piccolo, di quello che fu l’altalenante gioco di parti che si ebbe ai tempi, nella lunga e delicata fase di transizione che seguì le conquiste coloniali. Tra torture, stupri e ogni altra possibile barbarità che la guerra si porta dietro, lascia intravedere uno scorcio di luce e di umanità
Forse questa storia è ben misera cosa se si pensa a quello che resta di quella cultura e di quei popoli, ma certo insegna la forza, oggi passata di moda, di provarci, almeno, a lottare. E ricorda, soprattutto, l’importanza di conoscere i propri diritti di fronte a chi ci governa. Perché è lo stato che è fatto per il popolo, e non viceversa. Dunque, che la disobbedienza civile abbia inizio.
“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza” (Art. 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani)
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