Lo scrittore giapponese Haruki Murakami scrisse una volta che “le ferrovie sono qualcosa di sorprendentemente silenzioso, quando non ci passa il treno”. La linea dismessa della sopraelevata S-Bahn di Siemensstadt, a Berlino, popolarmente conosciuta come Siemensbahn, dal vecchio nome del quartiere che attraversa, è uno di questi luoghi.
La Siemensbahn è oggi in uno stato di abbandono totale, identico da ormai quasi quattro decenni. Il tracciato di questa vecchia sopraelevata somiglia a un serpente di bosco pensile urbano. Lungo la scarpata, che si allunga a circa 20 metri di altezza, sono rimaste in piedi, chiuse al pubblico e con porte e finestre sprangate, anche le tre stazioni che servivano la linea: Wernewerk, Siemensstadt ed il capolinea di Saatwinkler Damm, preceduto, poco più a sud, da una stazione di scambio binari che fungeva anche da parcheggio provvisorio dei vagoni, Gartenfeld.
Le tre stazioni ed il piccolo scambio sono oggi dei veri e propri fantasmi, che emergono faticosamente agli occhi dell’esploratore che percorre il tracciato tra gli alberi cresciuti sui binari. Corrosi e decadenti monumenti all’architettura ferroviaria anni ’20 e ’30, con il loro plumbeo ferro inchiodato da grossi bulloni, le arcate di acciaio nero e cemento annerite dal tempo, gli ormai impercettibili motivi Art-Deco.
La linea abbandonata si snoda nell’area nord-occidentale di Berlino, oggi denominata Wilmersdorf, per oltre 3 chilometri e mezzo, tra il fiume Sprea e il canale artificiale di Berliner-Spandau, che a sua volta costeggia l’estremità occidentale e meridionale dell’aeroporto di Tegel. Il tracciato partiva originariamente, con un raccordo e una deviazione, dalla stazione di Jungfernheide, a sud del corso del fiume Sprea. Lo attraversava con un grande ponte in acciaio per poi addentrarsi in profondità nel quartiere, prima lungo un tratto sospeso su archi e palafitte di acciaio, e poi con una massicciata in terra appositamente realizzata, fino al capolinea.
L’area deve la sua nascita – e buona parte della sua esistenza – al grande conglomerato industriale Siemens, pioniere dello sviluppo dell’ingegneria elettrica, fondato originariamente da Werner Siemens e dal suo socio d’affari J. G. Halske a Berlino nel 1847. Nel 1897, la crescita esplosiva dell’azienda spinse i proprietari ad acquistare un’area di 210 ettari per la costruzione di nuovi e più grandi impianti produttivi nell’allora periferia nord-occidentale di Berlino, a metà strada tra l’elegante quartiere di Charlottenburg e lo storico sobborgo di Spandau, celebre per la sua cittadella settecentesca.
Quella che fino ad allora era una landa quasi disabitata di boschi e praterie, si trasformò in pochi anni in una enorme cittadella industriale. Allo scoppio della Grande Guerra, la neonata Siemensstadt vantava già dieci stabilimenti, che producevano dai cavi ai telegrafi, dalle dinamo per centrali termoelettriche fino agli autoveicoli, ed impiegava già circa 20.000 tra operai e dipendenti.
La necessità di una forza lavoro tanto vasta in una zona ancora piuttosto periferica, creò fin da subito notevoli problemi dal punto di vista logistico e dei trasporti. La Siemens iniziò dunque a caldeggiare presso le autorità locali il progetto di realizzazione di una linea di trasporto adeguata agli spostamenti dei suoi operai e alla commercializzazione dei suoi prodotti.
Nel 1905, l’azienda co-finanziò lo sviluppo di una nuova arteria ferroviaria, con la costruzione di una stazione apposita, Siemensstadt-Fürstenbrunn, e di un contiguo ponte stradale, per consentire ai lavoratori scesi dal treno di attraversare il fiume e raggiungere gli impianti. La rapida crescita della manodopera rese però anche questa prima linea insufficiente e, nel 1911, al treno fu così affiancato un tram, che collegava la cittadella direttamente al sobborgo di Spandau. Al tutto si aggiunse, nel 1914, una stazione merci interamente dedicata ai prodotti del conglomerato, lo scalo di Nonnendammallee.
Dopo la breve pausa legata alla crisi economica seguita alla sconfitta nella Grande Guerra e alle onerose condizioni del Trattato di Versailles, Siemensstadt tornò rapidamente ad attrarre un flusso enorme di lavoratori, ora ulteriormente gonfiato dalla migrazione da altre aree della Germania colpite dalla crisi post-bellica e dalla chiusura delle industrie militari. Alla vigilia della Grande Depressione, i cancelli delle fabbriche del conglomerato venivano varcati ogni giorno da 50.000 lavoratori. E fu proprio a metà degli anni ’20 che i profitti astronomici e l’afflusso di forza lavoro spinsero la dirigenza del conglomerato a varare un imponente piano di edilizia abitativa e di allargamento delle infrastrutture.
Tra il giugno 1927 ed il dicembre 1929, fu quindi costruita l’ambiziosa Siemensbahn.
I tempi di realizzazione della ferrovia furono eccezionalmente brevi. In soli due anni vennero edificati non solo una scarpata sopraelevata per i binari lunga 4 chilometri e mezzo, ma anche un tratto interamente sospeso su arcate-palafitte ed un apposito ponte ferroviario per permettere alla linea di inoltrarsi nel quartiere attraversando il fiume Sprea. Una velocità di esecuzione dei lavori che fu certamente agevolata dalla presenza dello stesso Carl Friedrich Von Siemens, figlio del co-fondatore Werner, nel consiglio di amministrazione delle Deutsche Reichbahn (le ferrovie tedesche).
Negli stessi anni Siemensstadt divenne uno degli esempi più eloquenti su scala europea della grandiosità architettonica del Modernismo dei “Roaring 20s” applicata alle aree industriali.
Tra il 1922 ed il 1931, Tra il 1922 ed il 1931, le necessità abitative della cittadella industriale spinsero le autorità comunali di Berlino a lanciare un grande piano di case popolari per i lavoratori impiegati nel conglomerato. Alla pianificazione urbanistica dei nuovi rioni parteciparono anche alcuni dei nomi più celebri dell’archi dell’era Weimar. Ma fu nella ricostruzione degli edifici amministrativi e industriali, commissionata direttamente dalla Siemens, che l’architettura locale toccò il picco della declinazione della Neue Sachlichkeit (Nuova Oggettività) tedesca nei mattoni e nel cemento.
La realizzazione delle Wernerwerk, alti caseggiati industriali alti anche nove piani e culminanti in uffici con torri a volte decorati con enormi orologi stilizzati e illuminati, fece di Siemensstadt l’area pioniera delle “fabbriche in verticale” su scala europea. Una grandiosità estetica asciutta e rettilinea, severa e inquietante, di facciate in mattoni rosso-scuro, tempestata di grandi finestre, all’epoca perfino bordate di luci bianche in un dichiarato omaggio alla “Metropolis” cinematografica immaginata dal regista Fritz Lang.
Oggi, il contrasto tra la ruggine della stazione di Wernewerk, la più meridionale delle tre, e la mastodontica severità dell’omonimo opificio prospiciente, salta subito all’occhio del visitatore, che trova i due edifici in rapida successione discendendo la trafficatissima Siemensdamm, a pochi minuti di cammino dalla vicina discesa della metropolitana.
Il corpo di fabbrica fa parte del tratto della ferrovia interamente sospeso, fino a quel che resta del guado sulla Sprea. Un’ardita sequenza di impressionanti arcate e palafitte di metallo oggi annerite dal tempo, affacciato direttamente sul parcheggio dell’edificio modernista. A livello della strada, a fianco della scritta che annuncia la stazione con le lettere mancanti, i vetri rotti del vecchio ingresso lasciano la possibilità anche al semplice passante di osservare una biglietteria dove il tempo si è fermato da 40 anni.
Raggiunti i binari e passato il primo shock visivo del vedere sparire i rettilinei in metallo attraverso alberi e cespugli, si raggiunge l’accesso al primo tratto sospeso della vecchia ferrovia, un fiume di ruggine e sassi sospeso pochi metri al di sopra dei veicoli rombanti. Duecento metri di metallo corroso, resti di cavi elettrici, mucchi di vecchie traversine in legno ammassate da una parte durante lo smantellamento dei binari e mai rimosse: sembra quasi tremino al fragore dei rumori in arrivo dalla strada sottostante.
Nel corpo di fabbrica della stazione si trovano il casottino del controllore, semidistrutto, le rampe delle scale di accesso murate e coperte interamente di graffiti, un quadrilatero metallico vuoto dove un tempo campeggiavano l’orario delle corse e le orbite vuote dei lampioni nella parte non coperta dalla decrepita tettoia: sono i tratti distintivi di questo rudere completamente aperto sul paesaggio circostante.
Viene naturale immaginarsi la massa di individui diretti al lavoro, visualizzarli in tute blu e vecchie casacche da impiegati con la macchina da scrivere sulla piattaforma della stazione. Fritz Lang e la sua Metropolis in effetti non necessitano di luci notturne per saltare alla mente davanti alle combinazioni del paesaggio. Una vena giugulare di acciaio che alimentava la vita produttiva senza sosta dei titani modernisti sullo sfondo, proprio come le mostruose fabbriche divoratrici di uomini del film, alimentate da giganteschi tapis-roulant e scale mobili.
Questa immaginazione, in questo luogo, si sposa però anche troppo bene con la Storia. I suoi mostri, quelli veri, intersecarono fin dal principio la vita del piccolo treno e ne decretarono drammaticamente continue morti e rinascite.
La Grande Depressione, scoppiata praticamente in contemporanea con lo sferragliare dei primi treni sulla ferrovia, non risparmiò infatti l’attività della Siemens, che vide un calo consistente delle attività e dell’occupazione, e anche l’interruzione dei lavori di realizzazione delle case popolari. Ma il colosso industriale fu anche uno dei primi a beneficiare della militarizzazione della grande industria tedesca che seguì l’ascesa al potere del regime nazista.
Tra il 1935 e l’inizio della catastrofe del secondo conflitto mondiale, le ciclopiche commesse militari di Hitler gonfiarono a dismisura l’occupazione nelle fabbriche del quartiere. Nel 1941 lavoravano negli impianti della cittadella circa 67.000 persone.
A parte i 15.000 lavoratori venuti a vivere nei rioni realizzati nel decennio precedente, tutto il resto della classe operaia di Siemensstadt raggiungeva le fabbriche spostandosi in massa sulla Siemensbahn o sulle due linee ferro-tramviarie minori. La piccola S-Bahn era un brulicare affollatissimo di esseri umani ad ogni ora del giorno. Negli orari di punta, i treni effettuavano fermate nelle stazioni della linea con una media di uno ogni cinque minuti, per far affluire e defluire questa massa stanca della working class berlinese. Ma la fortuna bellica di Siemensstadt e dei suoi treni ben presto si tramutò nella sua rovina.
Con la mobilitazione di massa, anche le fabbriche di Siemensstadt videro scemare il numero di operai, destinati ad indossare una divisa e a partire per i fronti di guerra. Anche la Siemens, come altri giganti industriali tedeschi, colmò ben presto i vuoti con il triste e noto escamotage delle braccia dei deportati nei Lager. Nei suoi impianti di Berlino affluirono così anche i condannati allo sterminio del vicino campo di concentramento di Sachsenhausen.
Nel 1943-45, per la sua ovvia importanza militare, il quartiere finì sotto la pioggia di bombe sganciate dalle aviazioni alleate, che danneggiarono gravemente gli impianti industriali, ma risparmiarono la ferrovia. Nell’aprile 1945, le superstiti truppe della Wehrmacht, in ritirata verso il centro di Berlino davanti all’avanzata sovietica, fecero saltare in aria il ponte sulla Sprea.
L’Armata Rossa si limitò a riattivare solo parzialmente la linea, costruendo un precario ponte ferroviario in legno, che tra il maggio e il luglio 1945 servì più che altro per caricare su dei vagoni merci i macchinari delle fabbriche. Pistoni, motori, laminatoi, sopravvissuti ai bombardamenti solo per essere saccheggiati delle fabbriche come bottino di guerra, prima che l’area venisse occupata dagli inglesi con la spartizione quadripartita della città.
Seguendo con l‘immaginazione l’arrivo di questi sfuggenti treni di spoliazione, si ritorna sui propri passi, e una volta attraversato nuovamente il cavalcavia, ci si inoltra nella parte della linea spontaneamente mutata in un giardino pensile. Un chilometro di binari divorati dal muschio e dall’umidità, con ancora i rotori di trasmissione della corrente elettrica attaccati, che perforano un bosco cresciuto sfondando a colpi di radici le traversine e i manufatti, eppure ancora non troppo fitto. Il tutto, circondato da abitazioni a schiera e case popolari cresciute con l’affaccio sulla massicciata: vivere accanto all’abbandono rende prima o poi indifferenti anche alla vista dei fantasmi. Ed è proprio come un fantasma che, tra i tronchi e i rami, emerge, dopo una curva, la seconda stazione: Siemensstadt. Coperta da entrambi i lati dagli alberi che hanno occupato il tracciato, la stazione è a sua volta un cavalcavia ferroviario stradale, anche se meno esteso della fermata più a sud. Sia la tettoia che il tracciato della linea sono molto meglio conservati.
Oltre ad una lunga serie di graffiti ed alle piante che spuntano dal selciato, colpiscono i grandi e spessi cerchi di metallo vuoti rimasti appesi al soffitto, all’interno dei quali un tempo gli orologi scandivano i minuti di attesa per il treno successivo.
Il secondo imponente opificio verticale della Siemens prospiciente è fronteggiato dall’antico palazzo amministrativo della azienda, costruito già ad inizio ‘900, il che suggerisce una fermata più “borghese”, frequentata dal personale di ufficio del conglomerato. Un’impressione ricalcata anche dall’inaccessibile edificio della biglietteria, una rotonda di mattoni rossi più rifinita di quella della precedente fermata, e relativamente separata dal resto della stazione.
Il ben riuscito restauro degli edifici, prati regolarmente tagliati e rifiniti, un elegante viale coperto quasi ad arco dai rami di enormi alberi, non risparmiano però nemmeno a questa stazione il ruolo di schizzo di ruggine in mezzo ad un mare di tempo che ha continuato a scorrere. In questo caso, i vegetali coprono la vista delle due imboccature della fermata, e sembrano quasi nascondano l’abbandono.
L’ultimo tratto della linea è il più lungo ed al tempo stesso il più impervio da penetrare. Il bosco spontaneo tra i suoi binari diviene qui una vera e propria foresta, del tutto analoga, per densità, alle lande alberate del Brandeburgo che circondano la capitale tedesca. Un muro, questa volta verde, ma assai meno consistente e impenetrabile di quello che invece segnò il destino del piccolo treno degli operai.
Le vicissitudini post-belliche della Siemensbahn furono infatti uno specchio degli sconvolgimenti che avrebbero portato alla divisione della Germania e poi anche di Berlino stessa.
La ricostruzione ed il boom economico post-bellico ancora una volta riportarono in auge il quartiere industriale, ma in forma più modesta che nel recente passato, a causa del crescente isolamento di Berlino Ovest dal resto della Germania Federale e dei conseguenti problemi di trasporto sia dei macchinari che dei suoi prodotti. Nel 1953 fu di nuovo la proprietà della Siemens a stimolare il ripristino della linea. Questa volta, reduce dai costi della de-monopolizzazione postbellica e ancora a corto di liquidi, l’ex conglomerato si limitò ad offrire l’acciaio per la ricostruzione del ponte sulla Sprea.
Ricostruito il guado in metallo e muratura, la linea tornò a pieno regime solo nel 1956. I lavoratori tornarono ad affollare le banchine delle tre stazioni e così fecero i treni nel parcheggio dello scambio di Gartenfeld. Ma questo nuovo idillio del piccolo treno con gli operai, le fabbriche moderniste sullo sfondo ed il boom economico post-bellico era destinato ad avere vita breve, preda ancora una volta delle cesure della Storia. Il problema principale della sfortunata linea non stava infatti nelle strutture, quanto nel chi ne era venuto in possesso chiavi in mano. Nel 1949, infatti, l’Amministrazione locale delle Deutsche Reichsbahn finì sotto il controllo statale della neonata Germania Orientale. Anche se il servizio ferroviario era gestito nella parte occidentale, la proprietà della ferrovia era di fatto della DDR, e così il destinatario dei fondi derivati dai biglietti per il suo mantenimento. Una situazione inizialmente tollerata da governo e cittadini di Berlino Ovest, ma che vide la propria fine il 13 agosto 1961.
La costruzione del Muro e la definitiva divisione della città, fecero esplodere la contraddizione. I cittadini e le autorità di Berlino Ovest lanciarono ben presto una campagna di boicottaggio generale contro tutte le tratte della S-Bahn rimaste ad occidente. Cartelli e graffiti con le scritte “Der S-Bahn Fahrer zahlt den Stacheldraht” (I passeggeri della S-Bahn pagano il filo spinato)”, “Keinen Pfennig mehr für Ulbricht” (Non un centesimo per Ulbricht) e “Trapos raus aus dem freien Berlin!” (I Vopos dei trasporti fuori dalla Berlino libera!) divennero una presenza quotidiana sui muri e davanti agli ingressi di tutte le stazioni della sopraelevata.
In una vistosa nemesi della propaganda del regime della SED, che voleva gli operai dell’Ovest simpatizzanti del socialismo reale d’oltre Cortina, i lavoratori di Siemensstadt aderirono in larga parte a queste iniziative. Per la piccola linea il boicottaggio si fece però ben presto istituzionalizzato. Con la zona industriale lontana dal centro cittadino, la linea appariva infatti troppo funzionale per essere del tutto ignorata dagli impiegati nella cittadella. E così, in soccorso dei boicottanti, arrivò ben presto il borgomastro Willy Brandt, che mise a disposizione dei pendolari una fitta rete di autobus della BVG, la neonata municipalizzata dei trasporti di Berlino Ovest.
Il boicottaggio proseguì per tutto il ventennio successivo alla costruzione del Muro, infliggendo gravi perdite finanziarie alla Reichbahn, costretta ad operare treni semi-vuoti soprattutto sulle tratte più periferiche. La Siemensbahn e le sue fermate, dal brulicare di tute blu e impiegati di pochi anni prima, divennero presto una malinconica sequenza di stazioni vuote e treni sempre più rari. Una desolazione documentata anche da un raro filmato amatoriale del 1974, pubblicato diversi anni fa sul web. In questa pellicola sfuocata d’altri tempi e priva di audio, la solitudine delle banchine delle stazioni si scontra nettamente con l’affollamento dei sottostanti parcheggi dei Wernewerk modernisti, affollati di Maggioloni Volkswagen. Un fermo-immagine preludio degli anni a venire.
Un secondo fermo immagine del filmato immortala, con un contrasto temporale davvero mozzafiato, la vastità della carreggiata dei binari che segna l’avvicinarsi della stazione di scambio di Stellwerk Gartenfeld, già vuota nella pellicola e oggi occupata da una vera e propria giungla.
La stazione di scambio è ormai un rudere alto come una casa di tre piani, che si sporge ad arco su uno dei binari, che qui raddoppiano da due a quattro. Al suo interno sono ancora incollate al pavimento le vecchie fodere di stoffa, che attutiscono lo scricchiolio delle scale quando si risalgono. Il vasto locale in cima, dove un tempo si regolavano gli scambi, è completamente derelitto, svuotato dei suoi macchinari, anche se nei piccoli uffici del personale affacciati sull’esterno sopravvivono le finestre e i termosifoni. Non è difficile immaginare che l’abbandono dei congegni manuali di scambio sia avvenuto assai prima della chiusura della linea, già sottoutilizzata dagli anni ’60 e sempre più vicina al suo ultimo atto.
La foresta pensile è talmente fitta che quando si raggiunge la piattaforma del capolinea di Saatwinkler Damm, è necessario avanzare di altri venti metri per scorgere la pensilina. Quest’ultima stazione porta in dote non solo le vestigia della ferrovia, ma anche quelle di un ahimè fallito recente tentativo di recupero. Per diversi anni il capolinea della Siemensbahn è stato utilizzato come un vasto negozio di piante. Parte della pensilina si presenta tutt’oggi chiusa verso l’esterno da una estesa copertura in plastica trasparente, che aveva mutato la banchina di attesa in una serra. Un’attività a sua volta chiusa, ma che ha lasciato il corpo principale della stazione sostanzialmente restaurato, così come la vecchia pensilina, sotto la quale è possibile riposarsi su una copia fedele delle vecchie panchine per i passeggeri della linea.
Osservandolo dal parcheggio dell’antistante zona residenziale, l’elegante ed integro tetto si staglia chiaramente in forma stilizzata tra gli alberi, siglando una degna e malinconica inquadratura finale del viaggio su questo surreale rudere lungo chilometri. E che rende particolarmente facile far viaggiare nuovamente l’immaginazione alla scena dell’ultima corsa del treno, che lasciò per sempre questa banchina il 16 Settembre 1980, pilotato da rabbiosi macchinisti in agitazione.
Nel 1977, la BVG annunciò infatti l’intenzione di espandere fino a Spandau la linea 7 della U-Bahn (metropolitana). Braccata dalla concorrenza, dal boicottaggio e a corto di fondi, nell’estate del 1980 la Reichbahn varò un piano di tagli a stipendi, orari delle corse e personale, al quale i ferrovieri della S-Bahn reagirono con la proclamazione di uno sciopero generale su tutta la rete. La Reichbahn colse la palla al balzo, e annunciò la chiusura con effetto immediato di quasi la metà delle tratte di Berlino Ovest, e delle sue stazioni. La Siemensbahn cadde per prima sotto la forbice, che falciò dalle mappe dei treni anche lo snodo di partenza di Jungfernheide. Poche settimane dopo, nell’Ottobre 1980, l’apertura della stazioni della metropolitana di Siemensdamm e Rohrdamm consegnò la sopraelevata all’oblio.
La presa di possesso della S-Bahn da parte della BVG, nel 1984, e la caduta del Muro cinque anni più tardi, diedero il via ad un graduale recupero delle linee della sopraelevata, ma il vecchio treno degli operai rimase tagliato fuori anche da questa rinascita. Nonostante la graduale riapertura della stazione di Jungfernheide, tra il 1997 ed il 2002, nella seconda metà degli anni ’90 l’intero tracciato della linea a sud della Sprea fu demolito, seguito nel 2005 anche da due delle tre campate dell’ormai arrugginito ponte sul fiume.
Lo spettacolo di abbandono che oggi predomina lungo il tracciato della Siemensbahn, si scontra clamorosamente con l’evoluzione del quartiere circostante. Dopo il declino delle attività industriali legate alla Siemens degli anni ’70 e ‘80, il quartiere ha vissuto la sua parte di rinascita post-Muro, con estesi lavori di restauro di case, parchi, scuole e naturalmente anche dei grandi ex edifici industriali della Siemens, oggi patrimonio dell’UNESCO per l’architettura e trasformati in uffici e centri di ricerca o sedi di altre istituzioni. In mezzo a tutto questo, giace il silenzioso, tetro e verde serpente della ferrovia fantasma, e con esso gli spettri delle sue fermate.
Nonostante la desolazione che la caratterizza, per la vecchia Siemensbahn non è però ancora stata detta l’ultima parola. Nel 2018, la Siemens ha infatti annunciato un elefantiaco piano di investimenti di 600 milioni di euro, destinato a trasformare la cittadella, entro la seconda metà del prossimo decennio, in un hub di ricerca e sviluppo tecnologico robotico e digitale di portata continentale: il Comune di Berlino si è attivato per supportare il piano mettendo allo studio la riattivazione della linea.
Nel Giugno 2019 è stato firmato un memorandum con la Deutsche Bahn che prevede l’avvio di uno studio di fattibilità ed una serie di sondaggi delle strutture della linea per verificarne le possibilità di riutilizzo. Oltre a necessitare l’ennesima ricostruzione del ponte sulla Sprea e del raccordo con Jungfernheide a sud del fiume, è infatti ancora del tutto ignoto quanto dei 3.5 chilometri della rimanente linea e delle stazioni possa essere recuperato. La DB, oltre a mantenere il condizionale sui costi e sulla praticabilità del progetto, ha per ora fissato la data ideale del ripristino per il 2025.
Non sarà, in ogni caso, un ritorno del vecchio treno brulicante di operai, ma un serpente di pendolari risucchiati da altre città e Paesi verso l’imbuto high-tech che ormai domina l’economia berlinese.
Le quattro decadi di orologio fermo hanno isolato – e per molti versi preservato – la vecchia Siemensbahn anche dai continui stravolgimenti della nostra epoca. La fine della Guerra Fredda ed il crollo del Muro, la globalizzazione e il boom dei Paesi emergenti, la crisi finanziaria del 2008 e i suoi ormai permanenti contraccolpi politici e sociali, con sullo sfondo l’onnipresente Terza Rivoluzione industriale di internet e della digitalizzazione dell’economia e delle esistenze, qui restano sommerse dagli alberi e dal muschio.
Federico Giamperoli, bolognese di nascita e formazione da scienziato politico, è approdato a Berlino dopo Corea del Sud e Scozia, dove l’aura di Glasgow gli ha infuso l’attrazione – tutta amatoriale – per l’abbandono post-industriale e la storia degli insediamenti urbani. Si ostina ad affidarsi ad un telefono per le foto. Urban explorer gli pare una descrizione di sé esagerata, anche se non nasconde a nessuno di volerlo essere. Ringrazia Valeria Toniello per averlo accompagnato nel suo viaggio alla scoperta di Siemensbahn.
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