Immaginate un lungo viaggio in nave, il porto, l’attracco, il ticchettio dei tacchi a spillo sul ponte, il vento, i bagagli, la folla. Diouana aveva incontrato Anne-Marie quando viveva a Dakar e, alla ricerca di un lavoro, aveva accettato di tornare con lei in Francia dove avrebbe dovuto prendersi cura dei bambini di Anne-Marie e Robert. Ma in Costa Azzurra le cose iniziano ad andare diversamente, la realtà è un’altra. Qui diventa da subito la domestica di casa a tutti gli effetti, dedicando i suoi lunghi giorni alle faccende di casa, a cucinare per la coppia e i loro ospiti, a lavare i piatti e a sistemare le stanze; senza smettere però di sognare la città e il mare, un paio di scarpe nuove e una foto da mandare a Dakar. Molto presto infatti comincia a interrogarsi sulle restrizioni che la coppia francese le impone e a sentire sempre di più l’infelicità e la desolazione della sua nuova vita. La Francia sarebbe stata la porta d’ingresso per la “bella vita” e invece si è ridotta alla cucina, al soggiorno, al bagno e alla stanza da letto, dove non ci sono più amici, famiglia, interessi o passioni. E così, giorno dopo giorno, Diouana continua a farsi domande sulla sua identità e sulle sue nuove aspettative di vita, respingendo gli ordini di Anne-Marie e la sua condizione in modo composto e paziente. Alla fine, però, riprendendosi la propria vita.
Diouana è la protagonista di Black Girl un film franco-senegalese del 1966 diretto da Ousmane Sembène, da molti considerato il padre del cinema africano. La nomina di padre del cinema africano l’acquista specialmente grazie al suo cortometraggio “Borom Sarret” del 1969, che rappresenta una perfetta sintesi tra diverse tecniche narrative e una aperta denuncia alla rappresentazione del mondo Africano che fino ad allora si era vista sugli schermi. Quando nel 2015 esce il documentario “Sembène!”, il regista Samba Gadjigo in un’intervista ci tiene a sottolineare l’influenza degli studi postcoloniali sul lavoro di Sembène e la capacità di quest’ultimo nel donare – sia attraverso i suoi film che i suoi scritti – un’immagine nuova alla cultura africana, un’immagine indipendente, alternativa, umanizzata. È un’immagine però che non si esaurisce tra i piaceri sensoriali della cultura visiva, ma che fa un uso consapevole dell’arte come mezzo di comunicazione, educazione, informazione e infine di rivalsa. È con Black Girl e poi Borom Sarret, ma anche Xala (1975) o il più recente Moolaadé (2004), che Sembène inizia e continua il suo percorso cinematografico basato principalmente sulla differenza culturale e storica tra il cinema sociale e quello orientato verso il profitto, come potrebbe esserlo il cinema Europeo, o meglio ancora Statunitense.
Come afferma il regista Med Hondo nel suo saggio “What is cinema for us?” del 1979, il cinema africano si sviluppa come necessità di liberare se stesso dai limiti culturali ed economici che gli vengono imposti dall’esterno e che finiscono per categorizzarlo grossolanamente come un prodotto esotico e sporadico. Ma se ci lasciamo alle spalle questa mentalità mediocre e cominciamo a scavare più a fondo, risulta evidente che di registi come Sembène, che creano, trasformano e arricchiscono l’immagine umanizzata della cultura africana, ne è pieno il continente: tra gli altri, Haile Gerima, Oumarou Ganda, Cheick Oumar Sissoko, Ababacar Samb-Makharam, Djibril Diop Mambéty.
Questi registi, continua Hondo, sanno perfettamente che il cinema non cambierà la loro posizione politica, ma sanno anche che nonostante tutto è il cinema il mezzo più efficace verso la solidarietà e l’uguaglianza, verso la dignità e la giustizia. Il cinema è il mezzo più diretto non solo per educare ma, in particolare, per affermare la loro indipendenza artistica e creativa.
Eppure malgrado questa sentita disuguaglianza culturale e politica tra le due tradizioni cinematografiche, il cinema Africano non cerca una chiusura netta o un perfetto distacco con l’esterno, propone anzi l’indipendenza attraverso la collaborazione e lo scambio. Il cinema Africano è spesso definito come un insieme di diverse tradizioni artistiche e correnti estetiche, specialmente straniere, e risulta quindi naturale trovare tracce, ad esempio, del neorealismo italiano o della Nouvelle Vague francese. Inoltre, queste influenze straniere vengono riviste alla luce della cultura africana con il risultato di un cinema ricco di storie di vita quotidiana, di miti, di racconti, di metafore e di analogie, e di riferimenti politici, culturali e sociali di ogni tipo. La tradizione orale e popolare, e dunque la memoria collettiva, viene posta al centro della produzione cinematografica in modo tale da poter riflettere la realtà africana così com’è, attraverso i suoi simboli, i rituali e il folklore locale.
Kaddu Beykat (1975), ad esempio, è il primo lungometraggio della regista Senegalese Safi Faye, nonché primo film africano ad opera di una regista donna. Il film racconta, a mo’ di diario, la storia di Ngor e Columba, una giovane coppia prossima alle nozze. Attraverso la ciclicità e la quotidianità del villaggio in cui vivono e l’esperienza lavorativa a Dakar di Ngor, Faye sposta spesso l’attenzione verso il contrasto tra il piccolo paesino e la corrotta e prospera città.
Black Goddess (1978) di Ola Balogun, invece, vede il protagonista interrogarsi sulla storia dei suoi antenati, più precisamente sulla loro condizione di schiavitù, la loro sofferenza e resistenza. Girato in Brasile, il film si sposta continuamente tra il XIX secolo e gli anni settanta, e vanta una colonna sonora Afro-Jazz composta dal batterista Remi Kabaka. Black Goddess si rifà al cinema della tradizione nigeriana, molto noto per la sua vicinanza con le vecchie tecniche teatrali degli Yoruba, incorporando così storie di magia e superstizioni, fiabe, musiche e passi di danza.
Se inizialmente il cinema africano si distingue maggiormente per la sua natura didattica producendo film apertamente politici, a partire dagli anni ottanta in poi, questa schiettezza si inizia a rendere conto di potere e dovere far leva su una più ampia ricchezza culturale e artistica. Negli anni la coscienza politica non si affievolisce, anzi viene riportata ora con maggiore coscienza e consapevolezza di obiettivi: più indipendenza e meno costrizioni economiche e artistiche. La necessità di rivalsa e lo scontro con il tardo colonialismo dei primi film comincia a intrecciarsi con una diversità in termini di storie, pensieri politici e aspetti estetici che dà inizio a un’epoca di grandi sperimentazioni e innovazioni. Questa diversità comporta importanti cambiamenti nella struttura del film mediante tecniche più sofisticate, sia per quanto riguarda le riprese che la narrazione stessa, la rappresentazione dei personaggi, i dialoghi o le tematiche affrontate. Nwachukwu Frank Ukadike, studioso e professore di cinema africano, indica Yeelen, un film di Souleyman Cissé del 1987, come perfetto esempio di questa innovazione stilistica. Il film – Ukadike scrive – rinuncia completamente alle convenzionalità Hollywoodiane, rinunciando ad attori professionisti, alla continuità visiva nel montaggio e alla successione temporale tra gli eventi che compongono la storia.
Se si volesse fare una lista di autori del cinema africano tra gli anni ottanta e novanta si dovrebbero includere anche tutti quei film girati da registi di origini africane ma nati e cresciuti all’estero, e ancora tutti quei registi di tutto il mondo, dalla Francia all’America Latina, che si impegnano a contribuire alla creazione di una immagine umanizzata. Daughters of the Dust, ad esempio, un film di Julie Dash del 1991, si è fatto conoscere per essere stato il primo film distribuito al cinema diretto da una regista afroamericana. Continuando fino ai giorni nostri, includere delle produzioni come Democrats (2014), un documentario della regista danese Camilla Nielsson sulla situazione politica in Zimbabwe dopo le elezioni del 2008, oppure Benvenuto a Marly-Gomont (2016) del francese Julien Rimbaldi che racconta la vita del medico Seyolo Zantoko e della sua famiglia in un piccolo paesino della Francia.
Ma torniamo adesso indietro fino al 1966, su quella barca in Costa Azzurra. Non solo per continuare a raccontarvi di Diouana, ma per spiegare nello specifico come la componente politica si affianchi in modo naturale a quella artistica, andando a creare quella che qualche riga più in su abbiamo definito come “immagine umanizzata”. La storia viene raccontata dal punto di vista di Diouana ed è attraverso il suo sguardo che il regista rappresenta anni e secoli di dominazione e colonizzazione. Il suo sguardo, così come i suoi pensieri più intimi e le sue azioni, riescono infatti a raccontare e ad esprimere, da un punto di vista interno alla cultura africana, questioni politiche, storiche, sociali e culturali più ampie. Così come la caricatura del personaggio di Diouana, il simbolismo della maschera, i diversi riferimenti culturali e le scene registrate in Africa, ad esempio, raccontano il contesto Africano e la città di Dakar. Il caos, le strade e le piazze affollatissime, i paesaggi, la quotidianità delle persone e i loro atteggiamenti. Ma senza dover ricorrere a filtri esterni, senza rappresentazioni distorte o stereotipate. L’atmosfera tesa e depressa nella quale la protagonista principale sembra essere rinchiusa e i comportamenti contrastanti della coppia francese – spesso interessati alla tristezza di Diouana, ma allo stesso tempo completamente indifferenti – aiutano a connettere la prospettiva personale con quella collettiva, la sofferenza di Diouana con quella di un popolo intero.
Queste questioni più ampie, siano esse politiche o culturali, interessano Diouana stessa quanto il pubblico. Fino alla fine Diouana racconta la storia dal suo punto di vista, spostandosi con la mente tra gli avvenimenti presenti in Francia e i suoi ricordi, rendendo le problematiche sul razzismo e sulla schiavitù più vive e direttamente più vicine al pubblico. La rappresentazione delle sue azioni, dei suoi pensieri e sentimenti contribuiscono a renderla una figura ambivalente: se è vero che è rappresentata come una donna forte che fino alla fine mantiene la sua dignità, fierezza e coraggio, dimostrando una forte consapevolezza di cosa e chi la circonda, rimane ad ogni modo incapace, o forse riluttante, a reagire attivamente alla sua condizione mentale e fisica, mettendo da parte i sentimenti di umiliazione, frustrazione e alienazione.
Se si prendono in considerazione anche gli altri protagonisti, la coppia francese e i loro amici, è giusto sottolineare come le attenzioni verso la figura di Diouana contribuiscano a dare una visione ambivalente e contrastante del colonialismo e degli stereotipi sulla cultura africana, che prevalgono nella coscienza del mondo occidentale. Le continue e nervose richieste di Anne-Marie, e il fatto che uno degli ospiti voglia dare un bacio a una donna di colore perché mai gli è capitato di farlo prima d’ora, e ancora l’enfasi nel commentare quanto saporito fosse il riso africano, sicuramente pongono questi personaggi dalla parte del colonialismo. Attraverso i comportamenti e i modi di fare nei confronti di Diouana si concretizza la percezione che l’altro è fonte non solo di divertimento, ciò che è diverso, bizzarro, esotico, sconosciuto, ma anche di sfruttamento. Un oggetto dal quale ricavare mille risorse.
In termini strettamente cinematografici, gli aspetti stilistici e tecnici – molto diversi dal cinema classico e tradizionale – rendono Black Girl una rappresentazione unica. La prevalenza del bianco e nero, in particolare, sottolinea gli aspetti razziali analizzati nel film e la differenza tra gli attori africani e quelli francesi. Ulteriori scelte stilistiche come i suoni, la luce, i dialoghi e i movimenti della camera richiamano l’estetica della Nouvelle Vague francese, specialmente in termini di semplicità, schiettezza e intensità dei pensieri. Questi elementi vengono spesso utilizzati per enfatizzare la pressione delle condizioni di Diouana e per sottolineare la serietà della riflessione psicologica della protagonista. Il modo in cui la storia viene rappresentata e il coinvolgimento degli attori con gli eventi, aggiunge dei significati più profondi e contrastanti sul colonialismo, il razzismo, l’identità nazionale e la schiavitù. La sequenza delle immagini, ad esempio, gioca spesso sull’inaspettato, relazionando delle immagini non necessariamente collegate tra di loro, come dimostra la sequenza dopo la morte di Diouana. Immaginate una vasca da bagno piena di sangue, un coltello che cade, il corpo senza vita di Diouana, una valigia pronta e una maschera africana sopra. E poi il mare, il caldo, la crema solare sulle schiene bianche, le signore a prendere il sole, i bambini che giocano.
Segui Fiamma Mozzetta su Twitter
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin