È da Béla Tarr che sento parlare per la prima volta di László Krasznahorkai, alla proiezione di Sátántangó alla Berlinale. Sono passati 25 anni da che il film ha vinto L’Orso d’Oro e per l’occasione è stato restaurato digitalmente. Un’amica mi ha invitato senza specificare il titolo del film e io ho accettato senza informarmi. Solo all’ingresso nel Kino Palast am Zoo scopro che proietteranno Sátántangó, durata complessiva sette ore e mezza. 450 minuti. La prima cosa che mi chiedo è come mi sfotteranno i miei amici, quando racconterò loro che sono andata a vedere un film ungherese di sette ore e mezzo in bianco e nero coi sottotitoli in inglese.
Alla fine della proiezione il regista sembra triste e deluso. Triste perché il film è stato girato 25 anni prima e nel frattempo sono cambiate diverse cose: è diventato vecchio, ha perso i capelli e tanti amici non ci sono più. Deluso perché dalla platea continuano ad arrivare domande sulle tecniche di regia, sui mezzi per girare un film così lungo, su fatti cari solo ai cinematografi, quando per lui l’essenziale sta da un’altra parte. Vorrebbe parlare del tempo, dell’universalità della miseria umana, delle domande eterne che sottendono all’esistenza di ciascuno. A un certo punto si indispettisce e risponde in malo modo ad uno studente di cinema: “Vai per strada, filma, fai quello che vuoi fare senza trovare scuse. Fallo col tuo maledetto telefono, se devi.”
L’atmosfera si alleggerisce quando qualcuno dal pubblico chiede a Tarr perché abbia voluto girare il film proprio su quel libro. Sátántangó è infatti basato sull’omonimo libro di Krasznahorkai. Il regista racconta che un suo amico, un editore alla casa editrice Magvető, gli aveva passato il manoscritto. Era il 1984 e il libro sarebbe stato pubblicato per la prima volta solo l’anno dopo. Il manoscritto al regista piace, parecchio, si fa dare il contatto dell’autore e gli telefona. Il suo obiettivo non è un adattamento, ma un lungometraggio, titolo: Sátántangó. La prima risposta dell’autore è un vaffanculo. Ha bevuto troppo la sera prima. Poi si riprende, ricontatta il regista e sua moglie Agnes Hranitzky, anche lei regista, e dice loro che i film non gli interessano. “Però”, li sfida, “se riuscite a convincermi che fare questo film è assolutamente necessario, allora vi aiuto volentieri”. I coniugi Tarr in qualche modo ce la fanno, ma il governo comunista ungherese vieta categoricamente la trasposizione cinematografica del testo. I tre decidono allora di sfogare la loro energia creativa su Perdizione (1987) e nel 1994 – una volta crollato il regime e archiviata la censura- Sátántangó viene prodotto e proiettato alla Berlinale.
La storia di Sátántangó – nella trasposizione cinematografica così come nel percorso editoriale del libro – racchiude tutta un’altra serie di meta-storie, aneddoti e attese. Innanzitutto, perché l’adattamento è stato categoricamente vietato, se il manoscritto è stato pubblicato? Il fatto che il libro sia stato pubblicato nel 1985 nell’Ungheria comunista è infatti alquanto anomalo. Uno dei personaggi del libro è un agente della polizia segreta: non una scelta conforme ai dettami artistici del regime. Krasznahorkai stesso ha ragionato a lungo sul perché il libro sia stato pubblicato allora, senza riuscire mai a raccapezzarsi. Il motivo che gli sembra più plausibile è che il direttore della casa editrice Magvető al tempo fosse un ex agente della polizia segreta, un alto ufficiale, e che volesse in qualche modo dimostrare il potere di cui disponeva. Del libro vennero comunque stampate solo 5000 copie, di modo da mantenerne limitata la circolazione.
Anche se il libro viene pubblicato nell’85, Krasznahorkai lo ha in realtà scritto tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80, all’età di più o meno 25 anni. Krasznahorkai vuole che quello sia il suo unico libro. Non vuole fare lo scrittore: vuole pubblicare un solo libro, un capolavoro. Quando ha in mano la prima copia di Sátántangó però, pensa che debba continuare a scrivere suo malgrado. Ha fallito, non è quello il capolavoro che si aspettava. Allora si mette a scrivere racconti brevi, anzi, un racconto breve. Uno e basta, un capolavoro. Ancora una volta insoddisfatto dal risultato, deve scriverne altri. Oggi, all’età di 65 anni, l’autore conta un numero cospicuo di pubblicazioni e la traduzione del suo ultimo romanzo, uscito l’anno scorso, è attualmente in corso. In inglese si chiamerà: Spadework for a Palace.
La traduzione in lingua inglese di Sátántangó arriva solo 27 anni dopo la pubblicazione del testo in lingua originale, nonostante questo avesse già la sua nutrita cerchia di ammiratori. È l’inizio degli anni ‘90 quando una casa editrice londinese contatta l’autore per una traduzione in lingua inglese dei suoi testi. Vogliono comprare i diritti per il suo ultimo libro, La melancolia della resistenza, uscito in Ungheria nel 1989. Krasznahorkai si mostra interessato, ma avanza delle richieste precise: vuole che sia George Szirtes – il poeta ungherese emigrato in Inghilterra all’età di otto anni – e nessun altro a fare la traduzione. O lui o niente. La richiesta non viene accolta con favore dalla casa editrice. Szirtes è uno scrittore e non un traduttore. È Krasznahorkai stesso a contattare il poeta allora. Szirtes accetta, ma ad una condizione: “Ci vorrà tempo”. “Dear George, we only have time”, gli risponde Krasznahorkai. Sarà solo grazie all’intervento della casa editrice statunitense New Directions – in particolare dell’editrice Barbara Epler, che si dimostra pronta ad aspettare tutto il tempo necessario – che i testi di Krasznahorkai troveranno spazio sul mercato letterario in lingua inglese. La traduzione di Sátántangó richiede infine dieci anni di lavoro. Il libro esce nel 2012 e nel 2013 vince il Best Translated Book Award.
È di Szirtes la definizione celeberrima della scrittura di Krasznahorkai: “Un lento flusso di lava narrativa, un vasto fiume nero di lettere”. Le frasi di Krasznahorkai trascinano secondo il traduttore in un labirinto di viuzze buie, come se si stesse errando per delle cantine. Basta vedere la prima frase del libro per capire che cosa intende:
“Una mattina di fine ottobre, non molto prima che sul terreno screpolato e salmastro a ovest dello stabilimento cominciassero a cadere le prime gocce delle interminabili e inesorabili piogge autunnali (il fetido mare di fango che si sarebbe creato avrebbe poi reso impraticabili i sentieri campestri e quindi irraggiungibile la città fino all’arrivo delle prime gelate), Futaki venne svegliato dai rintocchi di una campana.”
Che le frasi siano così lunghe è un’altra anomalia del libro. La tradizione letteraria ungherese vuole difatti frasi brevi, se non brevissime. È la cifra stilistica della letteratura classica ungherese. Soggetto verbo. Soggetto verbo complemento. Krasznahorkai però pensa che nessuno parli davvero così, che queste frasi corte siano artificiali. Secondo lui bisogna solo ascoltare la gente quando parla per rendersene conto. La gente non parla per soggetto verbo. La gente imbastisce gran discorsi. Soprattutto quando vuole dire qualcosa a cui tiene, quando vuole farsi capire, la gente fa discorsi lunghissimi. “…Nella vita di tutti i giorni – se sei in un bar e stai bevendo con qualcuno – un amico, un conoscente, una persona sconosciuta che parla, che racconta qualcosa – lui o lei vuole davvero raccontare questa cosa, perché abbiamo tutti solo una frase a disposizione e stiamo tutti cercando questa frase là dove abbiamo il potere di dire qualcosa, per una frase, in una vita noi abbiamo una sola frase e tutti in un bar, a scuola, all’università, per strada o dovunque cercano la loro propria frase, e quest’uomo o questa donna non sta cercando una pausa, questo tipo di frase artificiale, semplice da comprendere, no, lui o lei usa sempre queste combinazioni di parole molto, molto lunghe e fluide – tutto ciò è molto fragile, ma fluido, non puoi interromperlo…”
È lo stesso motivo per cui non va mai a capo, per cui le sue enormi frasi si inseguono senza lasciare spazio all’artificio dei paragrafi. Questa, più che una scelta stilistica, è una presa di posizione: “solo dio dovrebbe mettere il punto, perché le frasi non appartengono davvero a noi”, dice lui. È come se Krasznahorkai tentasse di eliminare la sua persona, di lasciare che la verità erompa dalla bocca dei personaggi nei suoi libri. “So that there was never anything to do but wait, wait for the truth to assemble itself”, dice la voce narrante nel libro: attendere la verità. Attendere che si formi, che arrivi, che ci investa in piena faccia. Lo scrittore, come un intermediario, attende con noi che la verità prenda forma nelle storie che i suoi personaggi raccontano attraverso di lui. La citazione di Kafka messa ad epigrafe del libro ruota essa stessa attorno all’attesa ed è, forse, una dichiarazione d’intenti: “In that case, I’ll miss the thing by waiting for it.” Attendere. Attendere perché non si può fare altro. Attendere con i poveracci, i miserabili, gli ultimi del romanzo. È questo che voleva fare Krasznahorkai.
Ciononostante, deve ribadirlo più e più volte. Quando ci si confronta con uno scrittore dell’Est Europa, nato in un paese sotto il controllo dell’URSS, si tende a voler trovare sempre la cifra politica del testo, la denuncia al regime, l’anelito di libertà dei personaggi. In quasi tutte le interviste rilasciate da Krasznahorkai arriva prima o poi la domanda se il libro sia davvero ambientato nell’Ungheria comunista degli anni ‘80. L’autore risponde sempre più o meno uguale: sì, è l’Ungheria verso la fine del regime comunista, ma quel libro vuole parlare del mondo, delle domande esistenziali che muovono chiunque. È un ritratto della condizione umana. Sátántangó muove dal desiderio di raccontare non la sua vita, non quella dell’Ungheria, ma quella dell’umanità intera.
Per la verità, Sátántangó nasce da un evento ben preciso. A 18 anni Krasznahorkai resta folgorato dal sonetto Archäischer Torso Apollos di Reiner Maria Rilke, in particolare dall’ultimo verso: “Du müsst dein Leben ändern.” Devi cambiare la tua vita. È lì che decide di “scendere nel sottosuolo della società”. Molla la facoltà di giurisprudenza, alla quale si era iscritto da poco, e inizia a fare una serie di lavoretti stagionali, muovendosi là dove c’è bisogno di forza lavoro, dormendo per strada o in accampamenti di fortuna. A un certo punto finisce in una fattoria a lavorare come guardiano notturno. Un mattino, dopo aver fatto il turno di guardia, sta per andarsene a dormire, quando altri lavoratori della fattoria gli chiedono di restare sveglio un altro po’, perché sta arrivando una persona per castrare i maiali e hanno bisogno di una mano. Stanno lì e attendono che arrivi quest’uomo, che Krasznahorkai scopre avere una pessima fama. Gli raccontano che è una persona molto cattiva, ma nessuno sa spiegare bene il perché. Poi arriva. È alto, ha un grosso naso, non dice una parola e indossa un cappotto molto lungo. Gli offrono un bicchiere di pálinka – era d’obbligo offrirlo a chiunque in Ungheria – dopodiché quest’uomo altissimo si siede e cominciano a lavorare. Krasznahorkai e gli altri devono tenere fermi i maialini. È un’esperienza orribile, di mattina presto, ancora prima che il sole sia sorto, con i maialini che soffrono da morire, strillano e guizzano, e Krasznahorkai che deve tenerli fermi con la forza. Il castratore sembra invece completamente insensibile, senz’anima, senza emozioni, fa una castrazione ed è subito pronto per la prossima. Quest’uomo si chiama Irimias. Irimias sarà anche il nome del personaggio più discusso di Sátántangó.
Tutto per l’autore è iniziato quella notte, quella notte che si stava facendo mattina, quando gli si forma una persona nella testa, una persona che parla. Il discorso di questa persona si trasforma in frasi. Altre frasi inseguono queste frasi e altri personaggi inseguono Irimias, personaggi che insistono per stare sulla carta insieme a quell’altro, che rivendicano il loro spazio, che hanno la loro frase da dire e che hanno bisogno di un sacco di pagine per riuscire anche solo a iniziarla. Il “lento flusso di lava narrativa, il vasto fiume nero di lettere” prende avvio da lì.
Questo gruppo scalcagnato di personaggi se ne sta in una ex cooperativa abbandonata, nel mezzo dell’Ungheria, al declino del regime comunista. Quando la cooperativa viene messa fuori servizio, la maggior parte delle persone fuggono. Gli unici che restano indietro sono i più poveri, i più pigri, i più ingenui. Sopravvivono cercando di fregarsi a vicenda ed ammazzandosi di pálinka nell’unico bar del paese, dove miriadi di ragni invisibili intrecciano ragnatele tra le gambe dei tavoli e ricoprono ogni superficie immobile. E piove, piove, piove. La stagione delle piogge su quel pezzo di terra dimenticato da dio inizia poco dopo le prime pagine del libro, dove Futaki – l’unico abitante della cooperativa che capisce qualcosa – si sveglia per i rintocchi di una campana. Campana peraltro surreale, poiché nelle vicinanze non ci sono chiese.
Tuttavia, dio non è assente del tutto in Sátántangó: una volta morto il dio della rivoluzione, una volta svelato il suo volto violento, dittatoriale e ingannevole, non resta che aspettare la venuta di un nuovo dio, uno che non voglia mentirci, che non voglia prometterci la salvezza terrena per poi abbandonarci in questo pantano di fango che la pioggia incessante non fa che aumentare. Una sorta di dio del genere a un certo punto arriva, o quantomeno gli abitanti della cooperativa ci vogliono credere. È quell’Irimias nato nella testa dell’autore la notte della castrazione dei maialini. Un po’ poeta maledetto, un po’ mistico illuminato e un po’ criminale meschino. Creduto morto (perché lui stesso ha fatto spargere la voce) torna dal cielo (dalla prigione in cui è stato per malefatte da criminale comune) per portare nuova speranza tra i nostri poveracci.
Ma la trama importa solo fino a un certo punto. Quello che importa davvero è il tempo. Il tempo di cui avrebbe voluto parlare Tarr alla fine della proiezione di Sátántangó. Il tempo che sembra correre come un matto e che in realtà è di una lentezza asfissiante, con queste frasi lunghissime e i punti che non arrivano e i paragrafi che non esistono e questo tempo che incedendo sembra inseguire qualcosa ma è in verità circolare e tutto ritorna nel suo eterno ripresentarsi dell’uguale. E in questa nostra lotta che è lo stare al mondo – che più che una lotta sembra un lento arrendersi al decadimento, alla pioggia che fa marcire il legno e alle ragnatele che prendono il sopravvento – non ci resta che scrivere tutto ciò che accade nella speranza che qualcosa resti, nell’illusione che la collezione degli avvenimenti in forma scritta possa sconfiggere l’oblio a cui siamo destinati.
Quello che Krasznahorkai sta cercando in ultima istanza di dirci, con quel suo flusso disperato di parole che non lasciano il tempo di respirare, è che la perdita più grave della nostra società è la perdita di una certa cultura di povertà – l’abilità di cantare canzoni meravigliose quando non abbiamo più niente, di ballare il tango per tutta la notte, non curandoci dei ragni e delle ragnatele del tempo. “Al giorno d’oggi ci sono solo persone che non hanno soldi. Tutti vogliono essere ricchi, tutti hanno un solo sogno, ma gente, abbiamo davvero un sogno – chiede l’autore – è davvero questo l’unico obiettivo in questa merda, avere molti più soldi?”. Ballate, ballate fino a svenire. Cantate canzoni meravigliose. Ai soldi per la cena ci pensiamo domani.
Linda Farata nasce nel 1994 a Milano. Studia filosofia e letteratura tra Milano, Berlino e Città del Messico. Lavora come editrice per la posterzine Lahar Berlin.
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