C’è un video, pubblicato sull’account facebook ufficiale di Matteo Salvini il 13 agosto 2018, alle ore 21.01, che spiega meglio di tante analisi il difficile momento che attraversa oggi l’Italia. Per due minuti e sette secondi scorre sullo schermo una carrellata delle adunate pubbliche presenziate dal ministro dell’Interno da giugno alle prime due settimane di agosto 2018. Accompagnato da una musica potente, gagliarda, il leggendario Matteo si muove fra gementi ali di folla, stringe mani a destra e a sinistra, prende in braccio bambini, arringa dai palchi le moltitudini di genti accorse da ogni angolo di Vicenza, Treviso, Fiumicino, Ivrea, Marina di Pietrasanta, Arcore, Oppeano Veronese, per chiudere con Lesina, in provincia di Foggia. Intorno è uno sventolare roboante di bandiere della Lega, il partito di cui Salvini è segretario, e di cartelli con lo slogan, oggi più che mai alla ribalta, “Salvini Premier”. Partire da questo video è importante per invertire, almeno in questa fase, la riflessione su ciò che sta accadendo in Italia, ed invertirla cercando di comprendere chi sono tutte quelle persone che dal Piemonte alla Sicilia sono rimaste impigliate nella rete del discorso populista salviniano. È un passaggio, questo, che diventa inscindibile dal tentativo di studio approfondito del caso, a partire da un concetto decisivo: non è il Paese ad essersi avvicinato a Salvini, ma Salvini ad aver interpretato in maniera straordinariamente efficace i bisogni, gli umori e le tendenze della popolazione italiana, trascinandola pian piano, quasi senza che ce ne si accorgesse, nel baratro del fascismo. Sull’importanza di quest’ultima parola, “fascismo”, si tornerà più avanti, soprattutto per provare ad affrontare un tema sinora poco dibattuto, ma centrale, che riguarda la necessità di inquadrare il salvinismo non dentro la cornice dell’estrema destra, di cui condivide solo parzialmente la base ideologica, quanto, appunto, nel fascismo, di cui ricalca invece, in maniera molto fedele, toni, modi e progressione in termini di consensi.
Ci sono alcuni dati che vanno, innanzitutto, segnalati, ovviamente al netto del Covid-19, che modificherà tanti equilibri.
L’Italia ha ad oggi un prodotto interno lordo del 10% inferiore rispetto a quello precedente la crisi economica europea esplosa nel 2008, anno in cui il nostro paese raggiunse il massimo PIL della sua storia, a quota 2.391 migliaia di miliardi di dollari, secondo i dati della Banca Mondiale (oggi siamo a 1.937, nona economia del mondo: dieci anni fa eravamo al settimo posto, siamo stati scavalcati da India e Brasile, mentre Canada, Corea del Sud e Russia preparano il sorpasso). All’inizio del ’90 il PIL italiano valeva quanto quello britannico, mentre oggi gli è inferiore addirittura del 26%.
Il tasso generale di disoccupazione in Italia, secondo dati Istat – Eurostat, naviga intorno all’11%, (oltre il 20% se si considera soltanto il Sud) superato solo da Spagna (15.9%), e Grecia (20.2%), e di gran lunga più alto rispetto alle percentuali di nazioni come Polonia (3.7%), Ungheria (3.6%) e Repubblica Ceca (2.4%).
Sempre in tema di disoccupazione, quella giovanile in Italia è al 34%, al 58% nel Meridione. Ancora, si calcola che quasi 7 milioni di under 35 italiani, il 67% del totale, vivano al momento in casa con i propri genitori, contro la media europea del 48%. Sono invece 2 milioni gli italiani fra i 18 e i 35 anni che nel corso dell’ultimo decennio si sono trasferiti all’estero in maniera definitiva per cercare, con successo, lavoro.
Interessante anche il calo del potere d’acquisto dei salari italiani, con una recessione, dal 2010 al 2017, del 4,3%. Illuminanti, per chiudere il cerchio intorno al fondamento sociale dell’elettore medio italiano oggi, alcune rilevazioni sulla popolazione in Italia: nel 2017 sono morti 664.000 italiani e ne sono nati 464.000, 100.000 dei quali da coppie miste, dunque con almeno uno dei due genitori di nazionalità straniera. La curva della popolazione italiana è in crollo verticale, se si considera che secondo l’ultimo rilevamento, appena sopra menzionato, il saldo naturale è di -200.000 persone. Si tratta di un dato che ha assunto proporzioni molto pesanti negli ultimi quindici anni: si è passati da un saldo di +15.000 del 2004, al -95.000 del 2014, sino alla quota -200mila di fine 2017. Di questo passo è evidente come, per tenere in piedi il sistema pensionistico italiano, sarà decisivo integrare nel tessuto sociale e lavorativo molti più stranieri, oppure quadruplicare il numero di figli per famiglia.
A proposito di stranieri, secondo l’Istat gli stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2017 sono 5.046.994 e rappresentano l’8,3% della popolazione residente totale. Di questi, la metà proviene da un paese dell’Unione Europea, mentre il resto è suddiviso fra Africa (20%), Asia (20%) e America (7%). Rispetto ai grandi paesi UE, l’Italia è in coda nella proporzione fra popolazione complessiva e cittadini stranieri residenti: Francia, Germania, Spagna, Olanda, Regno Unito, Svezia, Norvegia, Danimarca, Austria, Belgio, Irlanda, Grecia, Islanda, Slovenia, si attestano su percentuali di residenti stranieri comprese fra il 12 e il 20%, senza contare che diversi dei paesi citati (su tutti, Francia, Germania, Spagna, Regno Unito e Irlanda, per citare i più grandi) rilasciano la cittadinanza secondo il principio dello Ius soli, seppur condizionato, il che, palesemente, aumenta ancora di più il distacco con l’Italia in questo senso. Agli stranieri regolarmente residenti in Italia si aggiungono, secondo i dati del ministero dell’Interno, circa 200.000 richiedenti asilo, detenuti od ospitati (dipende dai punti di vista) in strutture di accoglienza.
Un’ultima rilevazione, davvero opportuna. Sempre secondo le statistiche rilasciate dal Viminale, rapine, furti, omicidi e violenze sono calati, nel triennio 2014-2017 (cioè quello nel quale l’Italia ha raggiunto il picco storico di sbarchi di migranti) rispettivamente del 25,3%, del 20,4%, del 17,5% e del 23,4%.
Tutta questa sequenza di numeri statistici è fondamentale per partire, nell’analisi del salvinismo, da un assunto incontrovertibile: non esiste alcuna relazione fra gli sbarchi in Italia di migranti e il crollo strutturale di una nazione che ha, evidentemente, delle difficoltà radicali nell’alimentare la crescita necessaria per un corretto funzionamento del modello economico capitalista, e con esso dello Stato.
La questione occupazionale italiana arriva da molto lontano, senza alcun dubbio slegata persino alla crisi del 2008. Senza voler approfondire in maniera troppo precisa il punto (qui si parla d’altro), è chiaro a tutti come il nostro sia un paese che non ha mai avuto il coraggio di sradicare una serie di sicurezze e privilegi nel mondo del lavoro, individuali e di categoria, che rendono impraticabile qualsiasi progetto di sviluppo complessivo e bloccano il settore dell’impiego.
Per quanto riguarda l’andamento del Prodotto Interno Lordo, per comprendere quanto siano insulsi gli attacchi alla comunità europea e alla moneta unica, e grotteschi i tentativi di scaricare le colpe del disastro economico italiano agli sbarchi di profughi, basta dare un’occhiata alla progressione del PIL dal 2002 al 2008: in sei anni di Euro l’Italia è passata da 1.162 migliaia di miliardi di dollari a 2.391 migliaia di miliardi di dollari, più che raddoppiando il suo fatturato annuale. E se è riuscita a rimanere a galla dopo la crisi economica è soprattutto grazie al lavoro della Banca Centrale Europea, che ha implementato, con Mario Draghi alla guida, il piano di acquisto dei titoli di Stato comunitari tramite il sistema del quantitative easing, per tenere sotto controllo i mercati. Rispetto al rapporto tra Italia ed Europa, vale qui la pena, per dovere di cronaca, correggere una dichiarazione di Luigi Di Maio, il quale, nonostante ricopra le cariche di vicepresidente del Consiglio, ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali e ministro dello Sviluppo Economico, oltre a non sapere parlare l’inglese, non è capace nemmeno di leggere i bilanci. A differenza di quanto da lui dichiarato nel tentativo disperato di sembrare più cattivo di Matteo Salvini (difficile…), l’Italia non versa all’Europa 20 miliardi di euro l’anno, ma 12. Di questi, 9,8 miliardi rientrano nel nostro paese sotto forma di contributi comunitari. A Di Maio consiglio di visitare la pagina a seguire, realizzata dal Parlamento Europeo, nella quale vengono presentate, analiticamente, nazione per nazione (in inglese, ma è abbastanza intuitivo, Di Maio è un ragazzo sveglio e dovrebbe farcela, Salvini non credo) in maniera dinamica e dettagliata, entrate ed uscite nel bilancio comunitario: http://www.europarl.europa.eu/external/html/budgetataglance/default_en.html#italy
Le cifre sono aggiornate al 2016, ma cambiano di molto poco rispetto a quelle del 2017.
La domanda, visto quanto appena spiegato (e solo per approfondire parzialmente due delle statistiche citate, quelle relative a PIL e occupazione) è dunque un’altra, e molto più spinosa e complessa: perché oltre 10 milioni di italiani, su 43 milioni di aventi diritto al voto, si sono fatti convincere che l’Europa sia il nemico da sconfiggere? Per quale ragione quasi un terzo di elettori pensa sia possibile che un paese di 62 milioni di abitanti, con la nona economia del mondo, possa essere messo in ginocchio da 500.000 disperati sbarcati sul suo suolo in un arco di tempo complessivo di sette anni (è questo il numero, 500.000, dei migranti arrivati in Italia dal 2011 ad oggi, secondo l’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite, oltre la metà dei quali peraltro non è più nel nostro paese, perché ricollocato in altro stato UE o rimpatriato). Com’è possibile che individui adulti e dotati di un’intelligenza nella media ritengano che queste 500.000 persone siano responsabili del crollo dell’occupazione italiana, del calo decennale del PIL, della recessione dei salari e del loro potere d’acquisto, del fenomeno dei trentenni che non vanno via da casa, dell’emergenza sicurezza (che peraltro secondo i dati emessi dallo stesso ministero dell’Interno e sopra menzionati non esiste), della pasta scotta al ristorante, del wi-fi che non funziona in metropolitana e di chissà quante altre cose, visto che sono sempre loro, questi diabolici e fantomatici migranti, a tenere in mano le sorti di un intero paese, a determinarne successi e fallimenti? Se anche fosse vero, se davvero venisse dimostrato che 500.000 persone arrivate nel corso di sette anni sono la causa di tutti i mali dello Stato Italiano, sarebbe forse, allora, il caso di farsi delle domande su quanto solide siano le basi su cui l’Italia è poggiata.
Pare invece più accettabile affermare che è un insulto alla ragione sostenere posizioni politiche di questo genere pretendendo di affiancarle ad analisi strutturali degne di questo nome. Più giusto, e più naturale, è confinare il consenso salvinista dentro il limite filosofico dell’ignoranza, intesa nel senso più puro e meno offensivo del termine (ma per questo anche più pericoloso), quell’alveo del “colui che non sa, che non conosce”, facilmente fomentato da informazioni parziali, da un indottrinamento che, benevolmente giustificatorio di ogni fallimento, trasforma la frustrazione verso se stessi, l’incapacità di raggiungere le proprie ambizioni, in odio, in rabbia, in accusa nei confronti del più debole. Rabbiosi, pieni di odio, vendicativi, un po’ falliti: questi sono gli elettori di Matteo Salvini.
Succede, di solito, quando si è bambini. Di fronte a una sconfitta, a un errore, è difficile, da piccoli, trovare la maturità di ammettere di aver sbagliato, mentre è invece ben più semplice puntare il dito contro il fratello più giovane: “l’ha rotta lui, la lampada a cui teneva tanto il papà”. Ecco, in questo paese di fratelli prepotenti che è diventato l’Italia, Matteo Salvini è il più bullo della famiglia.
È a partire da questo punto che bisogna tornare a un passaggio menzionato in apertura di testo: non è la popolazione ad essersi avvicinata a Salvini, ma il contrario. Appare indiscutibile, a fronte di un’indagine accurata del comportamento pubblico di Salvini, che le posizioni da lui espresse non seguono una logica ancorata a una solida base di ideologia politica, ma un orientamento che, sul fronte delle idee, ha caratteristiche di fluidità, di adattamento, di trasformazione. Salvini ritiene che la linea della fermezza contro l’immigrazione sia quella che paga di più, e la porta avanti a prescindere persino da quelle che potrebbero essere le sue opinioni individuali. Questo sprint verso la conquista del titolo di ministro più malvagio d’Europa è determinato da un elemento essenziale: attaccare l’Unione Europea sulla questione dei migranti rimette in discussione tutti i meccanismi di adesione comunitaria e soddisfa quindi, in un colpo solo, sia le istanze di chi ritiene che Bruxelles sia la causa di tutti i nostri mali, che di quanti ritengono siano invece questi sporchi migranti la peggiore delle nostre sventure. Inoltre, battere sulle posizioni antimigratorie permette di tenere all’angolo la già sparutissima opposizione, che, preoccupata dalle conseguenze della linea umanitaria e solidale, evidentemente in minoranza e perdente, resta in disparte. In più, ed anche questo ha un ruolo sostanziale nella definizione del futuro politico del continente, l’Europa ha deciso di fare del caso italiano il simbolo dei limiti che si possono e non si possono superare, con tutte le dinamiche a seguire che potranno scaturirne. In questo senso, si ha la netta impressione che da Bruxelles si stia giocando una partita decisiva sul futuro comunitario, coscienti che assecondare la linea italiana di respingimento significherebbe la disintegrazione del progetto UE, ma dall’altro lato incapaci di trovare la quadra sulla fondamentale riforma della convenzione di Dublino, necessaria da un lato per reimpostare equamente i parametri di redistribuzione degli arrivi secondo percentuali che includano tutti i paesi aderenti all’Unione, dall’altro per contenere i movimenti populisti. Il rischio più immediato in questo momento (e molto dipenderà anche dall’esito delle elezioni in Bavaria del prossimo ottobre e dal risultato che CDU e CSU porteranno a casa) è quello di una sospensione definitiva di Schengen, una prospettiva ormai sempre più concreta, di fatto già praticata su numerosi confini intereuropei, e che cancellerebbe uno dei capisaldi dell’Unione, la libera circolazione di beni e persone.
Proprio in virtù di quanto si diceva poco sopra, e cioè a dire della carenza ideologica del discorso politico salviniano, ben rispecchiata dalla medesima mediocrità di cui, a specchio, è contraddistinto il suo elettorato, è scorretto definire l’operato di Matteo Salvini come di estrema destra. Non è infatti una piattaforma programmatica netta e ben consolidata, ciò che costituisce l’elemento di continuità nei meccanismi di raccolta del consenso della Lega e del suo segretario. Piuttosto, sono la coerenza e la costanza nelle modalità di ricerca di quel consenso, del tutto slegato dalla ripetizione piena di un impianto teorico di cui il partito di Salvini è, peraltro, sprovvisto, e prono invece alla capacità di interpretare e fomentare, oltre ogni limite plausibile e superando, in ambizione, persino il già rimpianto Silvio Berlusconi, la frustrazione popolare. È su questo sentimento di insoddisfazione, di disillusione, di mancato appagamento, che si regge l’architettura del proselitismo salviniano, in grado di proporre un populismo carezzevole, che rassicura i perdenti e imbonisce i furbi. Ed è qui che, nella riflessione sul salvinismo, vi è la necessità di imporre un punto fermo: nei modi, nei toni, negli approcci, Matteo Salvini è un fascista, le cui posizioni sono contaminate, quando utile, da passaggi politici di estrema destra. Ma è nel fascismo, appunto, e nella sua ricerca del potere ad ogni costo, che si cristallizzano metodi di comunicazione e propaganda che prescindono dalla natura dei concetti e sfidano ogni limite imposto dallo Stato sociale e di diritto (sia dunque esso il limite giudiziario o quello della dignità umana). L’impronta è quella del caudillo di modesta fattura, che si rimette sempre al popolo, il suo unico referente, dimenticando da un lato la suddivisione democratica dei poteri, dall’altro i due terzi di cittadini italiani che non lo hanno mai votato. D’altronde, «Il Duce ha sempre ragione».
Salvini, proprio come Mussolini, deve «vendere un prodotto di massa: la propria figura di capo e di Duce. Egli guarda agli italiani in modo assolutamente nuovo: li vede come consumatori, e precisamente come consumatori politici» (Ceserani G.P., Storia della pubblicità in Italia, Bari, Laterza, 1988). Per questo motivo, il suo sterminato pubblico di followers facebook, che ha da poco superato i tre milioni, viene considerato un vero e proprio target, del quale vengono studiate le preferenze, le aspettative, al fine di costruire una tensione naturale verso il “prodotto del salvinismo”. A metà del 2015 Salvini sfruttò l’ondata di populismo scoppiata in Europa e la delusione degli italiani per il governo Renzi raccogliendo 400.000 followers facebook in meno di sei mesi. Da quel momento ad oggi la progressione è stata inarrestabile, con la pubblicazione anche di dieci post al giorno e un numero di seguaci balzato a 1 milione 900 mila persone nel gennaio del 2017, e che dall’inizio del 2018 ha conquistato, in appena sette mesi, 1 milione di nuovi followers, una crescita talmente esponenziale che anche i professionisti del settore faticano a spiegare in maniera analitica. Per capire la portata della questione, basta pensare che oggi Matteo Salvini è il politico più seguito d’Europa: la sua pagina facebook ha 500.000 mi piace in più di quella di Angela Merkel.
Pur senza addentrarci in maniera troppo specifica nell’indagine delle tecniche di comunicazione con cui Salvini e la sua squadra gestiscono i loro account social ufficiali (per chi fosse interessato ad un approfondimento settoriale consiglio questo pezzo, https://www.wired.it/attualita/politica/2018/02/15/matteo-salvini-strategia-social-network/) vale però la pena sottolineare tre aspetti decisivi, fra essi collegati, del rapporto fra il segretario leghista e il suo popolo di ammiratori, soprattutto per congiungerci ad alcune riflessioni proposte in precedenza all’interno di questo pezzo. Per primo, l’utilizzo nella comunicazione dei sentimenti negativi, protagonisti assoluti di gran parte delle pubblicazioni del ministro dell’Interno e in grado di fomentare un pubblico molto più propenso alla diffusione della propaganda e alla difesa di quella stessa propaganda. Attraverso la produzione insistita di contenuti che veicolano emozioni negative nei suoi followers, Matteo Salvini ha trovato la chiave di volta per controllare, in maniera perfetta, gli umori e le tendenze del target elettorale di riferimento. In secondo luogo, il paternalismo, tramite cui, con ammirevole equilibrio, il vicepresidente del Consiglio rassicura i suoi lettori, subito dopo averli traumatizzati. Sovente, nei suoi messaggi, Salvini scrive frasi del tipo “prima come padre, poi come ministro”, “ per i miei e per i vostri figli”, con l’obiettivo, raggiunto, di confortare il suo gruppo, riportando il livello della discussione all’interno del mondo familiare, dunque in un ambito semplice, chiuso, sicuro. Infine, la dottrina degli slogan. Dalle ruspe alla felpe con i nomi delle città, dal “prima gli italiani” al recentissimo “io ci sono e non mollo”, Matteo Salvini è riuscito a configurare la più classica delle dinamiche di fidelizzazione, in cui lui, illuminato contro tutti, con il solo sostegno della sua gente virtuale, si batte per un ideale giusto. Come per il fascismo, a veicolare i messaggi della propaganda sono valori particolarmente simbolici, che si fondano su una comune origine identitaria: la patria, la religione, la tradizione, la storia.
Così come Benito Mussolini è stato definito, sempre dal già citato Ceserani, “copywriter del fascismo”, allo stesso modo Matteo Salvini è indubbiamente il “copywriter del populismo”, rivisitato in salsa salvinista. Si scrive qui copywriting non a caso, riferendosi precisamente alla prototipica della lingua pubblicitaria, con testi formali molto brevi e dotati, sul piano linguistico, di forte valore retorico e pragmatico, per amplificare gli effetti della comunicazione. A questo, si aggiunge la riflessione sull’utilizzo dei campi semantici, ripresi da aree di stereotipi funzionali alla tipologia di comunicazione. Nel caso della pubblicità, i campi semantici più frequenti sono quelli della felicità, della forza, della bellezza, della vittoria. Per Mussolini trovavamo, insieme al nuovo, alla vittoria, anche la grandezza, il magnetismo. Con Salvini a questi campi semantici si aggiunge la paura, una paura nella quale riveste grande valenza, come per il fascismo, l’utilizzo del “noi inclusivo”, che crea un effetto di condivisione fra tutti i sostenitori e il loro leader.
La mia speranza, di certo molto personale, è che queste persone raccolgano più potere possibile, e abbattano ogni cosa, senza lasciare più nulla, trascinando l’Italia lì dove si merita, nell’Ottavo cerchio dell’Inferno dantesco, la nona bolgia, che raccoglie i seminatori di discordia, coloro che agirono per dividere gli uomini e ora vengono orrendamente divisi nel corpo, feriti e mutilati con la spada da un diavolo.
Segui Mauro Mondello su Yanez
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin