Quando poi vedi DoubleTree e NH capisci che è diverso, che non è rimasto nulla di quell’estetica della macchina che faceva innamorare Le Corbusier.
Sei atterrato a Torino con venticinque minuti di anticipo, hai preso un bus che è partito non appena sei salito e hai passato la città da parte a parte, come un coltello affonda in un marron glacé. E ora ti senti onnipotente e guardi il monolite orizzontale steso davanti a te.
Il Lingotto ha il colore della pasta sfoglia e la sua pelle è trapassata da centinaia di finestre uguali che sembrano stampate con un rullo. L’hai visto solo in vecchie foto in bianco e nero: l’autodromo sul tetto con curve paraboliche e la sensuale rampa d’accesso elicoidale per le macchine. Cose che avevano mandato in sollucchero Le Corbusier, tanto pubblicarne le foto nel suo saggio Verso un’architettura, il Libro Cuore che, come te, generazioni di studenti di ingegneria e architettura si sono sciroppati. Sei arrivato, ti dici, devi solo entrare. E t’incammini.
E scopri che il Lingotto contiene un supermercato, un centro commerciale, un cinema, una sede del politecnico di Torino, una pinacoteca, un centro congressi e i due alberghi delle catene Hilton e NH e poi, solo alla fine, quando hai controllato cento volte Google Maps sullo smartphone e disperi di arrivare, vedi gli ingressi al Salone del libro.
Ma non sei ancora convinto, ti sembra di entrare in uno stadio, vedi masse convergenti – di tifosi, ti viene da dire –, colonne di scolaresche che entrano ed escono, biglietterie raggiungibili dopo lunghissime file a serpentina e una linea di addetti alla sicurezza che controllano gli zaini (Nadia Kuprina, un’artista russa che conoscerai più tardi, ti racconterà che le hanno fatto passare gli strumenti affilati per le sue incisioni, ma non la forchetta con cui avrebbe voluto mangiare il pranzo portato da casa).
Ora sei dentro. Ma dentro dove? Ti ritrovi in un corridoio perimetrale con i cessi da un lato e il Punto Hot Dog dall’altro. T’infili in un varco, aggiri il muro e t’accoglie lo stand gigantesco e vuoto dell’emirato di Sharjah. Gli unici libri esposti sono dei tomi massicci con immagini di calligrafia installati su leggii. Superi lo stand di Sharjah e poi quello delle Marche. L’occhio ti cade sui ritratti di insigni scrittori marchigiani appesi in alto, ma tu riconosci solo Leopardi. E poi finisci in un vasto spazio con decine di stand che vendono giochi da tavolo. Il Trono di spade, il Richiamo di Cthulhu, i cosplayer orgogliosi nelle loro armature di gommapiuma. Un’ansia che non ti aspettavi ti prende al cuore e alla gola e scappi nel padiglione successivo.
Almeno qui ci sono libri. Ma l’ansia non cala. Ogni persona intorno a te ha un compito, uno scopo: i visitatori visitano, gli espositori espongono. Tutti si muovono come se fossero parte di una grande coreografia. Meno che te. Uomini e donne in completi e tailleur discutono sottovoce in piccoli gruppi, gli occhi non si incontrano, ma vagano intorno come a rilevare eventuali pericoli, i lineamenti contratti pronti a scattare. Pensi che decidano i destini dell’editoria mondiale. Anche chi bighellona ciabattando con gli occhi a fessura o chi sfoglia i libri con aria incredula ti sembra un ingranaggio essenziale di un meccanismo vasto e meraviglioso. Da cui solo tu sei escluso.
Ti senti solo. Solo senza possibilità di redenzione. Un puntolino irrelato con la calca che lo circonda. L’unica cosa che riesci a fare è alzare gli occhi (chi non alza gli occhi al cielo quando non trova consolazione sulla terra?) e leggere i nomi delle case editrici sopra gli stand. Trovare il nome di una che conosci e che pubblica libri che hai letto e che ti sono piaciuti ha su di te l’effetto di una doccia di benzodiazepine.
Sfiori l’esaltazione quando, sopra uno stand, leggi La Gnocca. Ma poi guardi meglio e vedi che c’è scritto La Goccia.
Ci sono presentazioni di libri e incontri con gli autori, ma decidi di ascoltare le storie di tre libraie italiane all’estero e partecipi al convegno Ambasciatrici di cultura organizzato dall’ALI, Associazione Librai Italiani. Arrivi in anticipo, scegli il posto che più ti piace e leggi il programma: sono ospiti Silvia Chiarini della Hartlieb di Vienna, Cecilia Ricciarelli de Le Nuvole di Barcellona e Francesca Simoni della Piolalibri di Bruxelles; la moderazione è affidata ad Alessandro Zaccuri, responsabile della pagina culturale dell’Avvenire. Alla Piolalibri sei stato un paio di volte e ti dispiace che a Berlino, dove insieme a te vivono decine di migliaia dei tuoi connazionali, non ci sia un’importante libreria italiana. Ci sono due realtà che hanno alcuni titoli italiani in esposizione, ma l’offerta non copre la domanda. Un paio di anni fa, ad aprirne una ci avevano provato tre cuori pazzi, due romane e un milanese, ma purtroppo, anche con tutta la loro generosità, hanno dovuto chiudere.
Sei impaziente, non vedi l’ora di ascoltare le storie delle tre libraie, ma il convegno comincia solo dopo i saluti e i preamboli di vari presidenti, direttori, assessori e consulenti ministeriali. Volano parole come: canale strategico, bibliodiversità, assistenza al cliente, fatturato, professionalità. Quando è il turno del presidente dell’ALI, Paolo Ambrosini, la rassegnazione cede al terrore perché lo vedi impugnare un fascicolo di fogli stampati fitti, ma invece il suo discorso è magistrale e non ti perdi una parola.
La situazione delle librerie italiane è al limite del collasso: gli sconti selvaggi, che operano le grandi catene di distribuzione online e che sono applicati non solo alle novità, ma estesi a tutto il catalogo, hanno messo le librerie in ginocchio. E a lungo andare distruggeranno anche il libro, perché l’erosione dei prezzi riduce le risorse da investire nella qualità, a tutti i livelli. Negli ultimi vent’anni il margine di guadagno dei librai è sceso dal 25% al 15%, un calo di circa il 40%. Tra il 2012 e il 2016 più di duemila librerie in Italia hanno chiuso. E non perché la gente non legga e non compri libri, ma perché condurre una libreria in queste condizioni diventa un’attività in perdita. Tredici milioni di italiani non hanno una libreria sotto casa, né nel loro comune. Ambrosini non punta il dito solo contro le grandi catene di distribuzione online e gli editori che si adeguano ai voleri delle prime, ma soprattutto contro la politica, che a parole riconosce l’importanza della libreria, che è impresa sia culturale, sia commerciale, ma poi, quando si tratta di distribuire sovvenzioni, fa orecchie da mercante. In particolare, le misure intraprese dall’attuale governo sono assolutamente fallimentari.
Il rapporto dell’AIE, l’Associazione Italiana Editori, sullo stato dell’editoria italiana del 2018 (in attesa di quello di quest’anno) raffigura però una situazione differente e dice che “il basso indice di lettura costituisce il principale problema di crescita dell’editoria nazionale”. Secondo le stime dell’AIE, nel 2017 ha letto almeno un libro (in qualsiasi formato) appena il 64% degli italiani (la rilevazione quinquennale dell’ISTAT del 2016 riporta il 61%), mentre ha letto almeno un libro il 90% dei norvegesi, l’86% dei britannici, l’84% dei francesi e il 69% dei tedeschi, secondo Il libraio. I canali d’acquisto dei libri nel 2007 erano così distribuiti: librerie 79%, distribuzione online 3,5% e grande distribuzione organizzata (supermercati e centri commerciali) 17,5%, mentre nel 2017 erano i seguenti: librerie 71%, distribuzione online 21,5% e grande distribuzione organizzata 7,5%. Questi dati mostrano che la crescita della distribuzione online è avvenuta a spese della grande distribuzione organizzata, più che delle librerie.
Ci vai con i piedi di piombo nell’interpretazione dei dati forniti dall’AIE, pensi che più che essere in contraddizione, vadano integrati tra di loro: il fatto che le vendite in libreria tra il 2007 e il 2017 abbiano tenuto botta al boom di quelle online non esclude che tredici milioni di italiani non abbiano una libreria sotto casa, né nel loro comune. Evidentemente le duemila e passa librerie che hanno chiuso tra il 2012 e il 2016 erano piccole librerie di quartiere e di paese e la vendita si è concentrata nelle librerie di catena, a scapito delle piccole librerie a conduzione familiare, ma non hai dati che confermino il tuo ragionamento.
Comunque, considerare una libreria un’impresa culturale e commerciale ti sembra giustissimo ed è una definizione che calza a pennello anche a una casa editrice e ti riprometti di approfondire l’argomento parlando direttamente con gli editori. Ma non devi distrarti e riprendi ad ascoltare. Ambrosini cita le politiche di Spagna e Francia sugli sconti: non oltre il 5%. Ma non basta certo cambiare le regole sugli sconti per sanare il male delle librerie e infatti tra le ulteriori proposte dell’AIE c’è la necessità di un nuovo patto di filiera e di una revisione delle leggi sul modello franco-tedesco.
Durante il discorso di Ambrosini, l’attenzione del pubblico è rimasta concentrata su di lui e non ha mai dato segni di stanchezza. Lo stesso accade mentre parlano le libraie. Tutte e tre le città in cui lavorano, Vienna, Barcellona e Bruxelles, ospitano forti comunità italiane, ma i loro clienti sono soprattutto i molti locali che parlano italiano (o che lo capiscono facilmente, come i catalani).
Silvia Chiarini ha il fascino acqua e sapone della ragazza della porta accanto. È arrivata a Vienna rispondendo a un annuncio per lavorare in una gelateria, ha seguito il corso di formazione per librai e ora gestisce la sezione italiana (duemila titoli in esposizione) della Hartlieb, che è una libreria di lingua tedesca con una sezione anche di lingua francese. Grazie ai suoi buoni rapporti con l’istituto di cultura italiana a Vienna, che le offre patrocinio non solo morale, Silvia invita molti autori italiani a presentare i loro libri.
Situazione diversissima a Barcellona dove, racconta Cecilia, Le Nuvole è ignorata dalle istituzioni italiane locali. Cecilia, elegantissima nel suo abito color mostarda, caschetto biondo e occhi vigili di chi è pronta a difendere con gli artigli il proprio territorio, è arrivata in Catalogna da Parigi, dove ha fatto il dottorato. Le Nuvole è uno spazio polivalente e ospita anche corsi di italiano, corsi di scrittura creativa e piccole rappresentazioni teatrali.
Un caso a parte è la Piolalibri, che è una sorta di istituzione di per sé. Delle tre librerie è di gran lunga la più antica, è stata aperta nel 2007, come un incrocio tra una libreria e un’enoteca. Ospita molti concerti e da lei passano scrittori e personalità di primissimo livello. Francesca è una dei soci. Alta, i capelli colorati, le braccia tatuate, gli occhi accesi di entusiasmo visionario, non ti stupiresti di incontrarla in una Kneipe di Kreuzberg a Berlino.
Il moderatore Alessandro Zaccuri mette in luce ancora un altro aspetto del libro, che l’esperienza delle tre libraie esemplifica alla perfezione: il libro non è solo un oggetto ibrido con un lato culturale e uno commerciale, il libro è anche occasione di relazioni. Ed è qui che le tre libraie diventano ambasciatrici: Silvia, Cecilia e Francesca non esportano la cultura italiana perché fanno leggere libri di scrittori italiani, o almeno non solo, ma perché creano relazioni tra persone sulla base della cultura italiana. Parafrasando il titolo del saggio di Cesare Brandi sull’Agnello mistico di van Eyck, realizzano un ambiente italiano in uno spazio straniero.
Riprendi a vagare tra gli stand.
Ti piace fermarti a chiacchierare con gli editori veterocomunisti, li riconosci dai titoli dei loro libri, in cui sono sempre presenti parole come: resistenza, partigiano, (anti)fascismo, rivoluzione. Propongono libri di ricercatori indipendenti che hanno vissuto mesi in comunità marxiste-leniniste in America Latina e saggi che predicono l’imminente rovina del turbocapitalismo e del neoliberismo. È la tua piccola madeleine, che ti riporta agli anni Novanta, in cui frequentavi i centri sociali e ti piaceva ascoltare, come una radio, i tuoi amici compagni parlare di politica, tra un sorso di birra e un tiro di miccia (anche allora predicevano l’imminente rovina del capitalismo).
Alla fine del passaggio coperto tra Padiglione 3 e Oval cadi ingenuamente in agguato di una ragazza vestita di verde che lavora per qualche organizzazione non governativa. Ti si attacca come la rogna nonostante le dici cortesemente che non ti interessa. Alla fine riesci a liberartene e ti rifugi nell’Oval e non sai come ti trovi davanti a uno stand che pensi sia finito lì per sbaglio. È il Torchio di Porta Romana. A prima vista sembra uno di quei banchetti che vendono acquerelli economici a piazza Navona, ma poi ti avvicini e vedi che espone opere di Tullio Pericoli e Emanuele Luzzati. Sulle serigrafie di Luzzati per i libri di Gianni Rodari avete sognato tu da bambino e poi tua figlia. Luisa Landi, la titolare, ti illustra in dettaglio le opere di Pericoli, te le fa toccare, ti parla di acquaforte, di acquatinta, di puntasecca, ti fa sentire la ruvidezza della morsura sulla lastra di rame. Rimarresti ore a sentirla, a toccare le stampe, ad annusare le lastre di rame. E poi t’incanti a guardare delle tecniche miste, incisione su linoleum, acquarello e collage. Sono di Nadia Kuprina. E la signora Landi te la chiama e te la presenta. Ti fermi a parlare con lei, ti racconta i suoi studi di canto, e infatti nelle sue opere c’è spesso un ritaglio di pentagramma, su cui è scritta musica di accompagnamento all’incisione. L’universo di Nadia Kuprina è onirico, fiabesco, ma lucido, consapevole, i colori sono intensi, come il contrasto tra bianco e nero, ma senza violenza, né ansia, è tutto un sussurro, un delicato stormir di foglie, un leggero battito d’ali.
Lasci a malincuore l’angolo incantato del Torchio di Porta Romana e ti rituffi nella folla e ti lasci trasportare. Ora non ti senti più un estraneo, senti dentro di te di far parte, in qualche modo, di questo mondo.
Percorri i cardi e i decumani, le parallele e le traverse dei padiglioni. Aggiri le lunghe file di lettori che aspettano con pazienza il turno per farsi un selfie con i loro autori del cuore.
Sulla parete di uno stand è rappresentato un tale spiccicato a tuo fratello. Senza pensarci su tiri fuori lo smartphone e scatti una foto. Poi ti accorgi che un uomo e una donna dietro di te indicano un bambino paffuto di una decina d’anni appollaiato su uno sgabello. Non l’avevi visto. Ha l’aria di rimpiangere la lezione di matematica. Ti affretti a dire che non hai fatto la foto al bambino, ci manca solo che ti prendano per pedofilo, ma che la foto l’hai fatta all’immagine del tale spiccicato a tuo fratello. Figurati se questi ci credono, pensi. E ti prepari al peggio. Ma i due, che capisci essere i genitori del bambino, non hanno pensato a niente di tutto questo e continuano a indicarti il bambino. E ti accorgi che accanto a lui c’è un tavolino con alcuni libri con un drago sulla copertina. E finalmente ci arrivi: il bambino è l’autore di quei libri! Negli occhi dei genitori c’è così tanta ammirazione e orgoglio e gioia per il loro pargolo, che ti sentiresti un infame a non scambiare due parole con lui. La conversazione che ti esce, però, è tutta sbilenca e alla fine gli dici in bocca al lupo e lui ti molla un grazie sconsolato, ma tanto i genitori sono così immersi nell’ammirazione, nell’orgoglio e nella gioia, da non accorgersi di niente.
Lo zaino comincia a pesare. Hai comprato un libro qui e uno là che ora si fanno sentire sulla schiena.
Ti torna in mente che, come una libreria, una casa editrice può essere considerata un’impresa sia culturale, sia commerciale e ne parli con una vecchia conoscenza, Martino Ferrario, direttore editoriale di Casasirio, e una nuova, Luca Giangrandi, responsabile commerciale di Quodlibet. Casasirio e Quodlibet sono due case editrici molto diverse, la prima ha visto la luce appena qualche anno fa, la seconda ha scollinato il traguardo del quarto di secolo. Da lettore apprezzi l’accurata selezione dei libri che pubblicano e l’amore con cui li fanno. Quodlibet è un editore “di catalogo”, cioè fondato sulla solita base del suo catalogo e che non insegue il pubblico lanciando una novità dopo l’altra, e non dubiti che anche Casasirio lo diventerà.
Per Martino l’aspetto culturale e quello commerciale non sono né in competizione, né in contraddizione, sono paritetici: Casasirio non pubblica per arrivare a fine mese, ma arriva a fine mese per pubblicare il mese successivo. Guadagnare significa avere più risorse da investire sul libro (ti tornano in mente le parole di Paolo Ambrosini): la vera sfida è il prezzo del libro. Il libro, quando è svenduto, finisce per perdere anche il suo valore culturale (non a caso tra le proposte dell’ALI c’è anche l’introduzione di detrazioni fiscali per l’acquisto di libri per le famiglie).
Per Luca, invece, l’aspetto culturale del libro è di gran lunga il più importante. Rispetto a Martino, Luca parla come un produttore, ti viene da dire, è concentrato sulla qualità del prodotto, sul potenziamento del catalogo ed è più aperto alle possibilità che offrono le grandi catene di distribuzione. Senti dietro le sue parole proprio la forza del catalogo di Quodlibet, che permette strategie a lungo termine e il piacere di far bene i libri, che invece è un dovere, non solo culturale, per Casasirio che è giovane e non ha ancora spalle robuste.
Si parla anche della casa editrice Altaforte, ma con inerzia, quasi controvoglia. La rappresentazione della vicenda come una vittoria dell’antifascismo lascia scettici: grande esposizione mediatica per tutti, in primis per Salvini, ma anche per la pletora di scrittori e intellettuali antifascisti e un bel bonus per Altaforte, il cui libro è al momento in cima alle classifiche di vendita di Amazon, Mondadori e Feltrinelli.
Esci a prendere una boccata d’aria.
Alla tua destra il passaggio coperto che dall’Oval riporta al Padiglione 3. Vedi la ragazza vestita di verde, ora non tende agguati, ma si accende una sigaretta con occhi assenti.
Nello spiazzo intorno a te la gente fuma, chiacchera al telefono. I bambini scesi dai passeggini fanno piccoli passi incerti. L’aria del pomeriggio è tiepida, molle.
L’immagine di copertina è © Salone del Libro 2019
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