«Sono l’uomo di un sogno»
Roman von Ungern-Sternberg
Il barone generale von Ungern-Sternberg si erge sul promontorio che s’apre sulla valle dello Yol scrutando l’orizzonte verso l’immensa Madre Russia, ripetendo a se stesso le parole con le quali una vecchia sciamana, parecchi anni prima, gli aveva predetto gli alti fati: «Vedo il Dio della Guerra. Egli cavalca su un grigio cavallo sulle nostre steppe e sulle nostre montagne. Tu Dominerai su un grande territorio, o bianco Dio della Guerra. Vedo sangue, molto sangue, rosso sangue… non vedo più nulla. Il bianco Dio della Guerra è scomparso». Con questa visione egli assaporava le eterne distese del tempo in cui la sua vita e le sue gesta si incuneavano quale testimonianza delle leggi karmike eterne che scandiscono la ruota dei cicli cosmici, e vi scrutava al suo interno come osservasse svolgersi di fronte a lui, sul nastro ialino della mente su cui scivolano le visioni divine, il mandala stesso dell’Esistenza Unica e Molteplice del Dio Mahākāla, mahā (“grande”) e kāla (“nero”), di cui lui era la reincarnazione celeste in quanto avatar terrestre del grande Gengis Khan. Quindi si voltò verso i suoi attendenti e con un mezzo sorriso, più simile ad una smorfia o ad una ferita che sanguina, disse: «Se l’occasione vi si presenta, ricordate a tutti che ho avuto un destino tragico».
La sua sorte era a quel punto infatti già segnata e lui, che si circondava di indovini, lama e sciamani, lo sapeva bene, poiché i segni premonitori erano il suo alfabeto, e ci sono di quei segni che non ingannano. Il giorno prima, durante una cena a quattr’occhi, aveva offerto un impero a Corto Maltese, il quale, con il suo solito fare da «gentiluomo di ventura», sprezzante, l’aveva rifiutato. Gesto altamente pericoloso, poiché chiunque osava rifiutare qualcosa al «Barone sanguinario» solitamente si trovava, al meglio, a testa in giù, a penzoloni, come una gallina sgozzata. Invece, per una sua momentanea femminea debolezza di cui non riuscì a riconoscere la natura, aveva accettato quel rifiuto quasi con entusiasmo: «“no” è una bellissima parola» aveva commentato sollevando il calice per un brindisi, prima di far entrare lo sciamano, che al solito, di fronte al suo viso incavato, vedeva sangue, tanto sangue e la sua morte per annegamento nello stesso sangue da lui versato.
Probabilmente questo suo insolito gesto di magnanimità fu dovuto al fatto che Roman von Ungern-Sternberg incontrò l’eroe di Hugo Pratt nella Siberia devastata dalla guerra civile tra rossi e bianchi, in una fase in cui le cose cominciavano a volgere al peggio per lui, ma soprattutto per il suo progetto di rigenerazione dell’umanità, poiché a questo tendeva la sua guerra, spazzare via il bolscevismo e l’Occidente decadente con una «controrivoluzione ancora più terribile della rivoluzione stessa», che tuttavia non dovette godere dell’appoggio necessario da parte degli dèi, poiché il barone generale von Ungern-Sternberg fallì clamorosamente nel suo intento palingenetico e persino in quello più pragmatico politico-militare.
In ragione di questo suo fallimento totale, il nome di questo barone baltico, discendente da un’antica schiatta di cavalieri teutonici, poi generale russo ed infine diventato principe mongolo, sarebbe dovuto cadere nell’oblio della storia, spazzato via insieme alle polveri dei deserti dell’Asia centrale in cui le sue gesta s’erano perpetrate, ma si sa che la storia ha un gusto particolare per le aberrazioni, anzi ne è il suo campionario e almanacco, e va pazza per i grandi dementi. Inoltre, la sua fortuna fu dovuta all’incontro con un geologo polacco, Ferdynand Ossendowski, che dovendo fuggire dalla rivoluzione in corso e appassionato cultore di esoterismo, aveva scelto la via verso la Siberia, poi verso la Mongolia, principalmente per salvarsi la pelle ed al contempo per scoprire le radici di un sapere antico e occulto, quello dei saggi nascosti di Agartha, che tutto lasciava supporre si trovassero proprio tra gli altipiani e le steppe della Mongolia. Fu lui che raccontò in un suo lussureggiante romanzo d’avventura, Bestie, uomini e dèi, best-seller mondiale all’epoca della sua pubblicazione, assicurandogli fama imperitura del Barone Sanguinario, come venne presto ribattezzato von Ungern-Sternberg, che così ci viene presentato: «Testa piccola, ampie spalle, capelli biondi arruffati, baffi rossi ispidi, volto magro, emaciato come un’icona bizantina, fronte grande, sporgente sopra gli occhi d’acciaio pieni di vita, che fissano attorno a sé come quelli di un animale dal fondo di una caverna».
Nato il 29 dicembre 1885 nella ridente città di Graz, nelle sue conversazioni con Ossendowski traccerà una sua genealogia ricordando un antenato che partecipò alla terza crociata con Riccardo Cuor di Leone ed inoltre, all’inizio del diciottesimo secolo, «un famoso barone Wilhelm Ungern soprannominato “fratello di Satana” perché alchimista». Ma a discapito degli antenati, fieri difensori della Cristianità o suoi eretici oppugnatori, egli ben presto abbandonò la sua originaria fede luterana per convertirsi al buddismo tantrico che diventerà il suo sigillo esistenziale e la ragione principale della sua battaglia: «Tutta la mia vita l’ho passata a far la guerra e a studiare il buddismo» dirà, «Mio nonno ci portò il buddismo dall’India, e mio padre ed io lo accettammo e lo professammo».
Il motivo che lo spinse ad entrare in guerra fu infatti quello di «risvegliare i discendenti di Gengis Khan e unificare tutti i popoli di stirpe mongola, unica forza capace di far retrocedere la storia, e sollevare una difesa militare e morale di fronte all’influenza corruttrice dell’Occidente in preda alla follia della rivoluzione portatrice d’immoralità spirituale e fisica», scriverà in uno degli ultimi messaggi alle sue truppe, e per questo in Transbaikalia, in piena guerra civile russa, tenterà di formare l’Ordine Militare Buddista per combattere fino all’ultimo sangue la «depravazione rivoluzionaria». Costituirà un regno, a Urga, la «Lhassa del nord», l’attuale Ulan Bator, che conquistò con una dura lotta contro i Cinesi, autoproclamandosi imperatore d’un impero che tuttavia durò appena cinque mesi, tempo che gli fu sufficiente per farvi costruire la prima centrale elettrica e installare il telegrafo ed il telefono. Da là infatti contava di propagare l’insegnamento del Dio Mahākāla e della sua paredra Kālī al mondo intero, facendo fruttare a suo favore ed in favore delle forze del bene che lui incarnava, quella diabolica invenzione proveniente dall’Occidente. A questo fine si era fatto costruire anche una stanza-tempio dove campeggiavano sulle pareti i santi sūtra, al centro un altare con la statua del Buddha accompagnato alla sua destra da quella di Avalokiteśvara il bodhisattva della compassione ed alla sua sinistra quella di Chakrasamvara la forma terribile di Śiva, mentre lui, Ungern, coi suoi abiti da principe mongolo e i paramenti da sacerdote lamaita, si era fatto circondare da tre sciamani per le connessioni celesti e da un esperto telegrafista, per la trasposizione delle visioni mistiche in impulsi elettrici.
In ragione della sua assoluta dedizione alla propria causa, che per lui era tuttavia la causa universale, non solo dell’umanità, ma del Tempo in quanto evoluzione cosmica per un ritorno allo Yuga della Luca e soprattutto per la fuoriuscita dalla decadenza del Kali Yuga, l’Epoca Oscura, in cui si era prepotentemente entrati con l’irrompere della rivoluzione bolscevica, instaurò un regime di terrore assoluto che al confronto qualsiasi altra dittatura è una festa di oratorio, poiché se pure nelle più machiavelliche dittature ci si è sempre dovuti attenere a qualche ragione di ordine, gerarchia o ad un abbozzato disegno politico, nel suo caso ci si muoveva nel puro arbitrario, chiunque essendo passibile di sciagura, poiché gli ordini il Barone li prendeva direttamente dalle Voci che in lui erano la testimonianza delle volontà e della parola del Cielo. Cosicché persino in piena guerra civile, dove non manca, da una parte e dall’altra, un vastissimo campionario di atrocità, con lui le esazioni, le esecuzioni e le torture raggiungevano raffinatezze insuperate, l’assassinio diventava opera d’arte, poiché si era fatto affiancare da un boia cinese – nazione che si era brillantemente specializzata in torture, tanto da diventarne espressione proverbiale –, boia cinese che con lui condivideva inoltre la visione mistica di un mondo rigenerato dalla Spada d’Oro del Buddha di Fuoco, dove ad esempio il supplizio del ratto rinchiuso in una gabbia attaccata al ventre, il quale per liberarsi deve divorare le viscere del malcapitato, era di certo la più dolce e meno repellente delle torture, rispetto alle altre che sembravano ispirate da quell’universo di martiri immaginato dall’Octave Mirbeau del Giardino dei Supplizi, romanzo che il barone aveva probabilmente potuto leggere in francese.
Anche se c’è da dire che l’immaginazione di Ungern era fertile già di suo e per semplici mancanze di disciplina, ad esempio perché il saluto militare non era di suo gradimento, la divisa un poco sgualcita o qualsiasi suo altro capriccio, poteva condannare i suoi più alti ufficiali a rimanere per giorni in cima ai tetti o sugli alberi: «Un giorno, tutto lo stato maggiore della divisione si è ritrovato sui rami, postura molto poco confortevole poiché i rami si conficcavano nel didietro e il vento li faceva dondolare mentre i soldati di sotto erano costretti a guardarli ed ingiuriarli su pena di essere frustati a loro volta da un’altra truppa, la quale si trovava sotto tiro di Ungern stesso», raccontò uno dei testimoni delle gesta del Barone Sanguinario, il quale per escogitare punizioni, come fossero marchingegni, aveva una fantasia non meno fervida di quella di Rube Goldberg, con tuttavia in più un’anima ed una mente corrosa da forme acute di schizofrenia e psicosi allucinatorie o macabre malinconie che al contempo lo avvicinano a figure come quelle di Aguirre Furore di Dio, di Kurtz del Cuore di Tenebra di Conrad o ancora di un Ivan il Terribile (di cui portava sempre con sé i suoi carteggi con Andrej Kurbskij) e degno certamente di rientrare in un’agiografia svetoniana accanto a Tiberio e Caligola.
Poiché a dispetto di altri generali sanguinari, ciò che lo differenziava maggiormente era il motivo della sua guerra, le ragioni che accendevano i suoi furori. Non lottava come gli altri generali dell’esercito bianco, come Koltchak, Denikine o Wrangel, in nome di un ideale politico, i quali certo avevano la consapevolezza di condurre una guerra, ma una guerra che andava combattuta secondo le regole, nel rispetto dei suoi codici, per Ungern, era invece una questione metafisica, egli non voleva come loro una Russia liberale e pro-occidentale e neppure un ritorno dello zar, nonostante si proclamasse «l’ultimo dei monarchici». A lui la sorte della Santa Russia già corrotta dalla decadenza occidentale importava poco, suo era il sogno apocalittico di una rigenerazione del mondo per mezzo dell’ondata nomade che avrebbe dovuto avanzare travolgendo tutto al suo passaggio, come il Gengis Khan di cui si rivendicava reincarnazione, o di Attila sovrano degli Unni, come se egli rispondesse, in una visione parallela, seppur di segno politico opposto, a quella dell’avanzare degli Sciti cantati da un poema di Alexandr Blok: «Voi – milioni. Noi – nugoli agguerriti. / Fateci guerra, o ardimentosi! / Sì, noi – gli asiatici! Sì, noi – gli Sciti, / Con gli occhi a mandorla e bramosi! »
Così nel 1917, allo scoppio della Rivoluzione russa, Ungern, già spiritato fino al midollo, entra tra i ranghi comandati dall’atamano Grigori Semenoff, il quale con l’aiuto dei Giapponesi mirava a fare della Mongolia uno stato indipendente ed in previsione aveva creato, nei territori conquistati, il “Governo provvisorio del territorio della Transbaikalia”. Ungern si era da subito fatto notare per il suo coraggio e la sua fervida dedizione e per questo venne dapprima nominato colonnello e ben presto innalzato al rango di generale. Ungern quindi si installa nella città di Dauria ed organizza le sue truppe nella Asiatskaja konaja divisija, la “Divisione di Cavalleria Asiatica” composta da russi, cosacchi, buriati, mongoli e tibetani che dal ’18 fino al ’21 lottarono su tutti i fronti contro i bolscevichi, al comando della quale, nell’ottobre del ’19, conquisterà la capitale Urga, liberando il Buddha Vivente, Bogdo Gegen, terza dignità della gerarchia religiosa del buddismo lamaita, dopo lo stesso Dalai Lama e il Panchem Lama.
Divenne allora principe mongolo incoronato con cerimonia religiosa e il suo potere non era più di questa terra ma era santo, benedetto dal latte e dal sangue di una capra munta e sgozzata per l’invocazione della Potenza. Fu proprio allora anche, nel corso della cerimonia di investitura, che volle chiarire le sue intenzioni di fronte alle sue truppe riunite, di fronte ai più alti dignitari del clero buddista e di fronte agli dèi stessi che erano stati convitati espressamente per la sua incoronazione a grande Khan: «Non sono un avventuriero o un mercenario», disse «Sono l’uomo di un sogno, e non si cambia sogno più di quanto non si cambi pelle. Gli dèi comandano di proteggere l’evoluzione dell’umanità e di lottare contro la rivoluzione: sono infatti sicuro, ed il tempo me ne darà ragione, che l’evoluzione conduce alla Divinità, mentre la rivoluzione alla bestialità. Questa guerra contro i rossi e la decadenza che spira come un vento putrido da occidente, è solo una tappa dell’eterna lotta fisica e metafisica tra la Luce e la Tenebra, tra la grandezza e l’immensità dello Spirito e la pesantezza e la ristrettezza della Materia. La Grande Sapienza Unica, che tutti gli esoterismi della terra hanno da sempre professato, ha parlato di un’epoca in cui gli spiriti del bene e gli spiriti del male sarebbero dovuti entrare in una guerra all’ultimo sangue, un’epoca in cui al demonio sarebbe dato governare l’universo poiché più grande risulti poi la gioia della liberazione, un’epoca in cui la Maledizione Sconosciuta, conquistando il mondo, distruggerà ogni civiltà, ogni moralità e distruggerà i popolo. La sua arma è la rivoluzione, la quale, per perpetrare la sua opera di devastazione si avvale della forza brutale e distruttrice che sostituisce lo spirito dell’intelligenza creatrice che eleva gli uomini al rango di dèi, rendendoli invece simili a bestie aizzando, al posto della luce del cuore e della mente, le tenebre delle passioni vili e degli istinti belluini. Io sono giunto per indicare nuovamente all’uomo la via che la Maledizione Sconosciuta vuole cancellare, la via che fu del Buddha, del Cristo, dell’apostolo Giovanni, dei primi martiri, di Dante, Leonardo da Vinci, Goethe, Dostojevski. Poiché la Maledizione ha fatto indietreggiare l’evoluzione della mente verso la luce, sbarrando la strada al cammino verso il Dio sovrano che siede sul trono dell’Invisibile, poiché la rivoluzione è come la peste, e l’Europa si è sbagliata e con lei Mosca, disseminando carestie, distruzione e la morte della civiltà, della gloria, dell’onore, morte delle nazioni e dei popoli. Il Grande Spirito mi ha posto sulla soglia della via del Karma che non conosce né collera né perdono, ma regola i conti dell’universo come un mulino muove la macina che trita il tempo, perché allontanassi l’umanità da questa cupa follia di orrore e distruzione, riportandola sui placidi sentieri della Verità Suprema».
Ma il suo piano palingenetico era a dir poco sproporzionato nei suoi intenti rispetto alle possibilità militari a sua disposizione, tuttavia la sua esaltazione non gli permetteva di riflettere con sufficiente lucidità sulla piena conseguenza delle sue azzardate strategie, così, quando viene a sapere che numerose truppe degli eserciti bianchi agonizzano in Siberia, immediatamente parte dar loro manforte, incitando le proprie armate al grido di: «Se l’umanità impazzita e corrotta vuole ostinarsi a combattere l’elemento divino che ha dentro di sé, a far scorrere il sangue e ribellarsi al progresso morale, lo Stato Asiatico deve opporsi e farla finita: deve stabilire sui continenti una pace sicura e durevole, poiché questa è la volontà degli dèi che in me prende voce e corpo, e se si deve sollevare l’Asia tutta intera per riportare la Pace di Dio sulla terra, ebbene le nostre spade sono levate al cielo, il nostro grido di guerra profonde alato dai nostri petti! Noi vogliamo avere la coscienza di aver lottato per la grande idea, liberando la Mongolia!».
«Il cavaliere errante si trasforma in bandito, il sognatore in boia e il mistico in dottrinario», annota Leonid Juzefovich, autore dell’unica vera biografia su Ungern, «questo pazzo del deserto che ci guarda coi suoi occhi fuori dalle orbite da mostro dal fondo delle brume d’oriente» cavalca per le steppe e Ungern sembra quasi che viva per spandere la sua fama e la sua gloria funesta, tanto che le genti mongole, ancora a distanza di anni, interrogate dallo storico russo, lo ricordavano con un misto di ammirazione e di orrore, comunque fieri di questo combattente per la causa della Mogolia e del Buddha. Si parlava di un amuleto che lo rendeva invulnerabile e gli garantiva la rinascita nel Nirvana, alcuni assicuravano persino che Mao Zedong fosse suo fratello: «Nelle steppe mongole e transbaikaliane il suo nome non fu mai dimenticato e lo spettro del barone pazzo buddista e propagatore del panmongolismo non poteva esimersi dal resuscitare nell’atmosfera irrazionale un’aura arcana che il suo personaggio quasi sovrannaturale esalava». Molti lama, tra i più rispettati, lo avevano dichiarato Mahākāla reincarnato e i pastori nomadi lo chiamavano «il mangiatore di uomini», che è uno dei titoli del Mahākāla, divinità sempre rappresentata con una collana di teste mozzate e un cranio in mano, seguito da sciacalli a da altre bestie che si nutrono di carogne; i Mongoli infatti non inumano i cadaveri, li lasciano come pasto sacrificale alle bestie delle steppe, di modo che sia più facile per il morto la reincarnazione successiva, cosicché lo scheletro è il simbolo della nuova vita. Nessuno raccoglie le ossa che si trovavano così disseminate attorno a Daorie anche all’epoca in cui Ungern ne aveva fatto il suo quartier generale in Transbaikalia: «Al calar della notte su tutte le colline si sentivano ululare i lupi e i cani randagi. I lupi erano così poco feroci che nei giorni senza esecuzioni, dunque senza cibo, si avvicinavano fino alle caserme» e Ungern adorava galoppare a briglia sciolta nelle steppe in mezzo alle ossa ed ai corpi divorati a metà. Si raccontava anche che andasse nella foresta ad incontrare un gufo che adorava, poiché il gufo è il porta parola del dio Mahākāla, dio che per non voler attendere il Nirvana, è condannato a combattere eternamente coloro che si oppongono alla propagazione del buddismo, che causano dei torti ai lama o si oppongono ai riti sacri, e per questa sua manifestazione metafisica Ungern ricevette persino il sostegno del Dalai-lama dell’epoca, che da Lhassa gli inviò come rinforzo 700 cavalieri tibetani della sua guardia personale.
Le leggende ovviamente prosperarono, c’era infatti sufficiente materiale per alimentarle, ma era soprattutto la sua implacabile crudeltà volutamente e spregiudicatamente rivendicata ad infiammare la fantasia: «Noi non combattiamo un partito politico ma una setta la cui missione è distruggere tutta la cultura. Perché non avrei il diritto di sbarazzare il mondo da coloro che uccidono l’anima del popolo?», spiegò a Ossendowski. Quando poi, alla fine della primavera del 1921, Ungern e la divisione asiatica abbandonarono Urga per andare a guerreggiare contro l’Armata Rossa in Siberia in sostegno agli eserciti bianchi in difficoltà, il suo furore tuttavia non fu sufficiente e forse gli dèi avevano disertato il suo campo, ma il fatto è che nel corso di una campagna mal organizzata, tra scaramucce e imboscate, le sconfitte si susseguirono le une alle altre. Già i suoi soldati mongoli storcevano il naso all’idea di andare a combattere al di là della frontiera e persino i suoi uomini più fedeli non gli prestavano più gran credito mentre gli ufficiali iniziarono a complottare per ucciderlo. Ungern riuscì a sventare un tentativo di assassinio, ma in circostanze che non sono mai state chiarite, dove certamente un ruolo preponderante lo giocò il tradimento di Semenoff, e decise di prendere la via del Tibet per chiedere la protezione del Dalai-lama in persona, ma venne catturato, per puro caso, da una pattuglia dell’Armata Rossa che stentò a riconoscerlo, non pensando che un essere la cui fama, persino presso i ranghi del nemico, era ormai ammantata dalla leggenda – a tal punto che in molti credevano si trattasse di un personaggio di pura fantasia –, potesse finire tra loro grinfie.
Una volta catturato, la macchina della propaganda si mise immediatamente in moto: questo grande generale bianco arrestato in Siberia doveva essere giudicato rispettando tutte le norme e le forme, sarebbe dovuto essere un processo esemplare, poiché i bolscevichi vorranno dimostrare che il loro apparato statale, quel marchingegno burocratico che diventerà poi l’orologeria totalitaria stalinista, era già perfettamente funzionale e funzionante.
Lo si trasferisce così, con una scorta in paramenti, al quartier generale dell’Armata Rossa, mentre a lui viene vietato l’abito principesco e gli si concede unicamente la possibilità di sfoggiare la croce di guerra al petto. Ad un certo punto si dovette guadare un fiume, e avendo lui le mani legate, un ufficiale rosso se lo carica sulle spalle e gli lancia indispettito: «È l’ultima volta, barone, che farai piegare la schiena alla classe operaia». Dopo gli interrogatori, di cui non resta traccia negli archivi di Stato Sovietici, Ungern viene trasferito a Novonikolaievsk (oggi Novosibirsk) per il suo processo davanti al tribunale straordinario della Siberia. Quando il procuratore gli chiederà perché egli detesti il comunismo, sprezzante e visionario Ungern risponderà col suo solito accento sibillino: «L’Internazionale ha fatto la sua apparizione a Babilonia tremila anni fa», facendo diretto riferimento alla Torre di Babele simbolo di ogni confusione ed alla biblica città «madre di ogni fornicazione e di tutti i terrori della terra», a quella Babilonia la Grande, Grande Meterice che guida il corteo dei demoni nell’Apocalisse giovannea. Ovviamente il suo modo di intendere la rivoluzione bolscevica come degenerazione nemica degli dèi e degli uomini, frutto degli spiriti del male, non poteva che condurlo alla fucilazione immediata, che venne eseguita attorno al 20 settembre del 1921 da un plotone di esecuzione nei pressi del bosco vicino alla città, che gli sparò alle spalle, come si suole fare coi traditori, uccidendolo all’età di 36 anni. Per lui si pregò per un mese intero in tutti i monasteri buddisti.
Testi consultati:
Hugo Pratt, Corto Maltese – Corte Sconta detta Arcana, Lizard, Roma, 2000
Leonid Juzefovic, Il barone Ungern. Vita del Khan delle steppe, Ed. Mediterranee, Roma, 2018
Ferdinand A. Ossendowski, Bestie, uomini, dèi. Il mistero del re del mondo, Ed. Mediterranee, Roma, 2000
Vladimir Pozner, Le mors aux dents, Acted Sud, Paris, 2009
Federico Mosso, Il Club degli Insonni, GOG, Roma, 2018 (pp. 332-357)
Robert de Goulaine, Les seigneurs de la mort, La Table Ronde, Paris, 2006
Jean Mabire, L’heritier blanc de Gengis Khan, Veilleur de Prose, Paris, 1997
L’immagine di copertina è un frame estratto dal video pubblicato su youtube “FERROGALLICO – UNGERN KHAN. IL DIO DELLA GUERRA“
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