Un solido blocco di materia architettonica si accomoda a colpo sordo nel mio campo visivo, come un donnone ingombrante su una piccola poltroncina. Mh. E così questa è la Deutsche Oper Berlin. Mi piace? Aggrotto le sopracciglia e annuisco lentamente varcandone la soglia.
Il vociare della gente si mescola nella mia mente alla scala cromatica predominante, dal marroncino delle pareti lisce del guardaroba al giallo delle luci, che sfumano in un verde pisello forse solo immaginato.
Salgo le scale annusando con discrezione le donne che passano a tocchi di tacchi alti e involucri rossi, dislocate in modo quasi studiato nel grande spazio che si apre al primo piano. Ma George Baker mi prende il mento tra indice e pollice e volge il mio sguardo a sinistra, verso “Alunos –Discus”, il suo lavoro appeso alla parete: degli enormi semi di zucca. Mi mettono appetito.
Fila 11, laterale. Sono emozionata: è la prima volta che guardo un’Opera dal vivo. L’orchestra sotto al palco però l’ho già sperimentata, nel luglio del 2015. Piazza Maggiore, un film muto di Buster Keaton, l’odore del caldo estivo. Oggi invece siamo al 21 di aprile del 2017 – che di estivo, qui a Berlino, non ha proprio niente – e tra poco le tende in ritirata scioglieranno la prima scena de La Traviata di Giuseppe Verdi, riadattamento de La Dame aux camélias di Alexandre Dumas figlio.
Scivolo seduta nella stessa scia cromatica dell’entrata. Senape! Ecco il sunto, ciò che si otterrebbe strizzando insieme questi colori. Le mie papille gustative ricacciano il ricordo di un sapore pungente.
Sipario, applausi, colpi di tosse.
Una camera nera dal pavimento lucido, tre portoni giganteschi su ogni lato; sono sicura che se ne accarezzassi le ante le mie mani si ritrarrebbero sporche. Un letto bianco sta lì, al centro. Violetta giace immobile su lenzuola che cadono a strascico sul pavimento. Fanno da velo alla sposa che non sarà mai.
Gli archi dell’orchestra contornano delicatamente questa immagine per i primi minuti, o secondi, non lo so più. E poi – clap-clap! – Violetta si sveglia, c’è un gran movimento, gli ospiti arrivano, la signora s’agghinda: una vestaglia rossa per un corpo esile ruba la scena agli involucri in tacchi di prima, e l’occhio segue affamato Violetta e il sangue fluido che indossa con grazia.
Mi giro indietro a spiare la fila 12; un riverbero di luce arriva sulle facce di chi guarda e ascolta, mi sento spettatrice di due spettacoli diversi. Alfredo tira una “O” tanto a lungo che sospetto lo faccia solo per riavere la mia attenzione. Gliela accordo mentre con passo calmo si avvicina alle spalle di Violetta. Lui la ama, lei risponde al corteggiamento con fare civettuolo – “Non arduo troverete dimenticarmi allor”. Lui le afferra le braccia e quasi mi sento le sue mani addosso anch’io.
Non capisco più della metà dei dialoghi, butto un occhio ai sottotitoli; scarto il tedesco, scelgo l’inglese. Confronto tendendo l’orecchio per ascoltare meglio: minchia, che dizione perfetta che hanno.
Durante l’intervallo mi sgranchisco le gambe su e giù per le scale. Al secondo piano gli interni di camere d’albergo in disuso della fotografa Marsha Ginsberg mi inducono a una riflessione sul contrasto che vivo: spazi mortificati dal passaggio di un uomo di cui non conoscono più il volto e coppie di gambe a passeggio da un lato all’altro di una struttura che si crogiola nell’essere benvoluta. Mi affaccio verso il piano sottostante. Ma guarda, i semi di zucca si muovono!
Secondo quadro, secondo atto. La folle festa di Flora anima la scala cromatica anni ’60 col fuoco e con la pece: vesti spagnoleggianti affollano la scena, danzano raccolte, sono petali di una camelia purpurea. Parigi non è mai stata così bella con questi abiti tanto affini e tanto lontani dai canoni ottocenteschi: gonnone lunghe per tutte le dame, certo, ma la padrona di casa sfoggia uno stivalone sopra al ginocchio e un toppino di paillettes che la Columbia del The Rocky Horror seduta accanto a me – sono sicura – sta contemplando con invidia.
Alfredo è pazzamente geloso, e il suo colore è quello dei tavoli da gioco. Violetta non ha rimandi al suo nome, e su un divanetto verde posa come traslazione umana della somma che Alfredo vincerà a un Barone (che, evidentemente, non sa barare). Ma in fondo poco importa, ché in quel “Amo un altro” c’è talmente tanta carne che quasi percepisco il pubblico assumere un’espressione alla Yao Ming nel bofonchiare un: “Bitch, please!”.
Il seguito è un turbine di ricadute sentimentali, tornano i fiori; alle camelie si sostituisce, nella mia immaginazione, una metaforica margherita da spulciare in onore dell’omonima protagonista a cui La Traviata si ispira.
Ma non c’è più tempo per il m’ama-non m’ama, ché a Violetta restano poche ore di vita. Impazza il Carnevale nelle strade, e tre emaciate maschere veneziane, sotto flash di luci agghiaccianti, sembrano l’esplicitazione del presagio di morte.
La mia mente, lo ammetto, è a un bivio, e la sento percorrere entrambe le strade; da un lato si apre il file “youtube – Un’estate al mare – Conte Duval” e si palesa Proietti che esclama nei peggiori istanti di Violetta: “Che se dice a Rivombrosa?”.
Dall’altro il ricordo di un letto di ospedale in una casa un tempo confortante mi procura una fastidiosa fitta al cervelletto. Rivivo gli occhi assenti di zia Clara e mi chiedo, se potessi sceglierlo, come passerei le mie ultime ore di vita. Mi commuove l’idea che Violetta accolga la morte duettando con chi la corrisponde nell’amore che prova, e un po’ tremo quando con la forza che le resta reclama un dottore, ululando la composizione chimica della sua medicina: “Digli che Alfredo è ritornato”. Vuole vivere, ancora.
Mi vibrano pure le doppie punte, e mentre mi domando come faccia una tisica in punto di morte a lanciare certi acuti, Violetta s’accascia e il sipario va giù.
Mi alzo con un sospiro; ripenso al loro abbraccio, a quando il padre di lui li ha strappati con precaria lucidità. Ho un po’ di dolore anch’io; un tempo l’idea di dovermi separare dalla persona che amavo risucchiava la mia porzione di ossigeno e mi segmentava le budella. Ora che invece non ho più in testa un amore, ho in tasca Pessoa e lo sento, i dolori del corpo sono più forti dei dolori dei sentimenti che sovrastano, a loro volta, quelli della ragione. Quindi mi ricordo che umanamente siamo predisposti alla sopravvivenza individuale, anche quando restiamo legati all’altro: so che Alfredo se la caverà.
Però, per empatia, una pacca sulla spalla gliela do comunque prima di uscire dal teatro.
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