Quattro minuti (Vier Minuten)
Germania, 2006
Regia di Chris Kraus
Tre cose sono necessarie per un buon pianista: la testa, il cuore e le dita.”
W.A. Mozart
Il cinema tedesco in un breve lasso di tempo che va da metà anni 2000, fino al 2015, ci ha illuso di una sua rinascita vigorosa, schietta, al passo con i tempi. Uno sguardo al passato, ma con ritmi e metodi moderni, alla sudcoreana, per intenderci. Purtroppo, il pubblico tedesco, come spesso ricordava anche Herzog è però “televiso”: prevalentemente tende a volersi rilassare davanti all tv, con storie lineari. serie diluite. I cosiddetti krimi, con le figure bonarie dei poliziotti, molto noti alle generazioni degli anni ’50,’60 e ’70, rimangono ancora lì, rassicuranti e leali, perfetti compagni contro l’incubo della Stasi.
Quattro minuti, dunque. Pochi, ma sufficienti. Dentro ci sta dentro tutto quello che hai dentro. Senza mai abbassare di un soffio la carica di tensione, di nervosismo. Solo quattro minuti, che libereranno le catene delle due protagoniste di questo film del 2006, ambientato in un carcere femminile del Brandeburgo, nella Germania orientale. Un inizio ed una fine speculari tra loro, un camion azzurro entra in un carcere tedesco, trasporta un pianoforte a coda bellissimo, nero. In cabina due uomini abbastanza imbruttiti dalla vita e una donna anziana, Traude (Monica Bleibtreu) che si fa strada su una strana musica avvolgente, finché, con gesto fermo e severo, non cambia stazione alla radio, per ritrovare una più rassicurante musica classica. La stessa anziana donna non sa quello che le aspetta: insegnare ad una giovane psicopatica, Jenny (Hannah Herzsprung), ragazza incattivita, aggressiva e autolesionista, a suonare il piano. O meglio, educare e “perfezionare” la giovane a suonare il pianoforte con delle lezioni private, in modo da farla partecipare a un importante concorso.
Ho ripensato al romanzo di Thomas Bernhardt, “Il Soccombente”, al suo descrivere il rapporto diabolico, esaltante e tormentato, che può emergere tra il pianoforte e chi lo suona. Le due donne, l’assassina e l’insegnante di musica, sono ovviamente agli antipodi, si incontrano ed è subito in scena lo scontro fra due sofferenze opposte. Una, la bambina ribelle, esprime una violenza cieca, mentre l’altra funge, in modo anche fin troppo marcato, da genitore normativo. Si assiste quindi ad una lotta felina fra due modi di sopravvivere, tragici, ma epici, una lotta anche tutta interiore fra l’arroccamento e un filo di speranza, tenue, sempre precario, ma volto allo scoprirsi, al (ri)conoscersi autenticamente: ma bisogna arrivare a raccontarsi spudoratamente, per essere davvero visti.
Due solitudini, in Quattro minuti, si incontrano, e cominciano il cammino, ciascuna con il suo obiettivo. Si annusano e si combattono, non sono mai fianco a fianco, nemmeno se si siedono vicine, di fronte alla tastiera; lottano per sé stesse e a nessuna importa nulla dell’altra, almeno all’inizio. È questa la condizione umana, quando la sofferenza ti isola, quando nessuno si avvicina; è questo l’esito psicopatologico dell’odio e della violenza subita senza scampo, senza solidarietà, senza rimedio. Da sempre è un’operazione delicata, che rischia la banalità, puntare a una poetica che vede nell’affermazione della personalità artistica o sportiva la via per il riscatto morale ed esistenziale di figure variamente reiette, disastrate o solitarie. Nel caso di questo film abbiamo però un esempio che funziona bene, anche se il regista, Chris Kraus, forse per mancanza di tormento, forse per sopito fervore, accusa, in alcuni momenti, una pesantezza di tocco, una mancanza di spessore drammatico, che per fortuna viene mascherato dalla grandissima prova delle due attrici.
Così come Giuda che si uccide, perché non crede di avere più nessuna possibilità di redenzione e non può arrivare a dirsi in tempo: “io non sono solo quello, non sono solo un traditore, lo sono stato è vero, ma sono anche altro, guardatemi, aiutatemi a trovare il buono dentro di me”, anche l’anziana insegnante rivelerà alla ragazza il suo passato, quando saprà scendere da quel piedistallo monumentale su cui si era issata, ben lontana dai pericoli emotivi. Si sorrideranno, alla fine, si verranno incontro: la ribelle potrà finalmente fare un inchino e adattarsi un po’, ma senza perdere nulla della sua libertà, né di sé stessa.
La dura insegnante potrà finalmente lasciarsi andare, a modo suo, e forse, chissà, cominciare anche a comprendere quell’orribile “musica dei negri”.
Alla fine il concerto finale, quattro minuti, solo quattro.
Si è lì sul palco, con Jenny, davanti, finalmente, a quel pianoforte, il totem nero che rappresenta il buio, la gabbia che va scassata, utilizzata per lo strumento meraviglioso quale è, ma senza timore, con sano e virtuoso flusso mentale. Il vero blocco nero, da prendere a bastonate è il controllo, l’ordine, il manicheismo, l’armonia falsa e distruttiva delle sbarre del carcere, la difficoltà maledetta nel chiedere aiuto. Scucire i fili che ti tengono le labbra serrate. Fuori, tutto accade adesso.
È più di una redenzione, più di una riabilitazione: è la liberazione, finalmente la libera espressione della propria natura, con tutti i suoi crismi. Liberazione dalla grande bugia, odiosa convenzione che abbiamo normalizzato, dimenticandoci che nei sogni lasciamo, tutti, correre la nostra pazzia, i nostri desideri e le paure.
Quattro minuti è un film di libertà, un film di verità. Si esce dalla palude, come Atréju ne La Storia infinita. Le idee e gli obbiettivi sono come le stelle: non vengono spente nemmeno dai temporali più cattivi.
REDAZIONE
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