Foto di Elettra Dotti
I primi ricordi che mi legano a Radio Popolare risalgono all’incirca alla prima metà degli anni ’90: nel pieno dell’esplosione del grunge, mentre Tangentopoli si consumava in processi trasmessi in tivù e si tiravano monetine a Bettino Craxi, si vedevano di nascosto le puntate di Twin Peaks e a scuola si provavano a organizzare le autogestioni. In maniera assolutamente disordinata e scriteriata si cominciavano a costruire e strutturare le prime scelte, idealistiche e, ebbene sì, politiche: un bildungsroman incerto e arruffato a cui, nell’età del grande accumulo di stimoli che è quella degli ultimi anni di liceo, contribuiva potenzialmente tutto e il suo contrario. Potevano dare una mano le pagine satiriche di Cuore come le videocassette dei film-capolavoro che uscivano con l’Unità, i comici di Smemoranda (Albanese, Aldo Giovanni e Giacomo, Paolo Rossi) o di Avanzi in seconda serata la domenica su Rai Tre con ospiti Nirvana e Sonic Youth, ma anche, e soprattutto, una radio completamente diversa dalle altre che occupavano, e tutt’ora occupano, l’etere. Una radio che, in compagnia solo di alcuni programmi della notte di Radio Due (e dei videoclip della mai troppo compianta Videomusic), ti permetteva di scoprire suoni altri e nuovi, come i Massive Attack e Tricky prima che diventassero famosi, o l’hip-hop francese prima che film-pietre miliari come “L’Odio” lo facessero conoscere al mondo (per non parlare di tutta quella galassia del rock alternativo italiano che di lì a poco sarebbe uscita dalle cantine: Afterhours, Marlene Kuntz, Casino Royale, Massimo Volume e compagnia). Ma anche una radio che raccontava ciò che succedeva in Italia e nel mondo con un taglio diverso dall’informazione standard, parlando, con linguaggio schietto e profondità, di fatti piccoli e grandi che altrove non trovavi spiegati, e insieme di realtà, temi, diritti, ingiustizie e lotte. Con una prospettiva che, indubitabilmente e senza ambiguità, era ed è, convintamente, di sinistra. Ma una sinistra ampia, inclusiva (avremmo capito poi), fresca, aperta, non dogmatica né ottusamente tetragona, e pronta a dar voce a tutte le parti che la compongono. E allora a questa radio perdonavi certe ingenuità che magari non sentivi su Radio Deejay, i brani che bruscamente venivano tagliati, le pubblicità locali che nemmeno Telelombardia nel 1985, gli sbalzi di volume, le imbarazzanti e imprevedibili decine di secondi di misterioso silenzio tra un programma e l’altro. Perché in realtà questa radio, Radio Popolare appunto, non solo era (ed è) qualcosa di diverso a livello di medium e di informazione, ma si rivelava un importante tassello nella formazione di una propria idea e di una propria visione (del mondo? Sì, o per lo meno del mondo come provavamo a disegnarcelo noi). Qualcosa che, per chi vive o ha vissuto nell’area milanese (e lombarda, e dell’Italia settentrionale ma anche dell’Italia tutta, grazie alle radio “consorelle” che costituivano il Popolare Network), è quasi naturalmente diventato un riferimento abituale e conosciuto anche da chi poi non lo ascoltava. E poi era una radio in cui il pubblico partecipava, diceva la sua, non si limitava a chiamare per fare una richiesta come sulle altre radio ma si incazzava, si lamentava o si commuoveva. E così imparavi anche ad ascoltare punti di vista che altrimenti non avresti mai sentito, e poi a decidere se si confacevano alla tua idea del mondo oppure no, e se aggiungevano o meno qualcosa ai tuoi interessi o a quelle che potevano diventare le tue lotte.
Poi, negli anni, il mio rapporto con Radio Popolare è continuato e si è evoluto: ho continuato ad ascoltarla, ovviamente con maggiore o minore fedeltà alla linea a seconda degli anni e delle tematiche, l’ho frequentata fisicamente, per via delle mie attività musicali, ho conosciuto molti di quelli che ci lavorano, diventando uno di loro, e anche adesso che sono a Berlino, grazie allo streaming e ai podcast, la seguo. Ricordo le ore di diretta nella notte della mattanza alla scuola Diaz, durante il G8 di Genova, o più di recente durante gli attentati al Bataclan, le tante trasmissioni di approfondimento culturale, gli artisti conosciuti grazie alle conduzioni musicali, l’importante lavoro sul campo per testimoniare avvenimenti e snodi politici, ma anche il dar voce ai fermenti della creatività più underground, e insomma, al netto di una più che naturale variabilità di convergenza con ciò che si diceva, posso dire senza dubbio che Radio Popolare è una splendida quarantenne con cui ho condiviso più di qualche tratto di strada.
Già, quarantenne, perché Radio Popolare e io siamo coetanei: ha cominciato a trasmettere nel 1976, nel pieno dell’incredibile periodo anarchico delle radio libere, sotto la guida di Piero Scaramucci, raccontando per tutto questo tempo ciò che succedeva nella sterminata galassia della sinistra italiana, e ovviamente nel resto del mondo, perché l’attenzione a ciò che succede fuori da casa nostra è sempre stata un elemento caratteristico, nella sua carta d’identità.
Proprio per questo sguardo, diremmo, internazionalista, ha senso che a Yanez, dove abbiamo piedi sparsi tra Berlino, l’Italia e il mondo, si sia deciso di fare un ritratto di Radio Popolare. Non ripercorrendone la storia, che si può trovare facilmente, per chi sia interessato, ma toccando con mano il suo presente, attraverso una polifonia di voci fatta da chi la radio la costruisce ogni giorno, in diversi settori del palinsesto ma anche della parte più manageriale, componente meno “esposta” ma nevralgica per permettere la sopravvivenza di questa fonte di informazione. Toccarne con mano il presente, dicevamo, e provare a immaginarne il futuro, le difficoltà e le sfide, attraverso il racconto di una giornata passata in redazione e negli studi di via Ollearo (zona Ghisolfa, nord di Milano), lasciando che la polifonia di cui sopra esprimesse impressioni e vedute, alcune più vicine tra loro e altre meno, ma tutte, nella diversità e, anzi, proprio in virtù della diversità, concorrenti a individuare un fil (ovviamente) rouge che non è nient’altro che un tentativo di risposta alla domanda “Cos’è oggi una radio come Radio Popolare?”.
Michele Migone è il direttore di Radio Popolare da quasi tre anni, ma bazzica l’ambiente dal 1989. Con lui si entra subito nel vivo: “Mi considero molto fortunato, a essere qui. Sperimento ogni giorno un vero e proprio stile di vita di Radio Popolare nel modo di lavorare e, davvero, di vivere, che ci accomuna tutti, sia noi storici giornalisti che chi è più giovane. Uno stile di vita che ci permette di continuare a intercettare, dopo tutti questi anni, una modernità che forse altri media, vuoi per le dimensioni, vuoi per come sono strutturati, fanno più fatica a cogliere. Se oggi, ad esempio, un concetto come quello della sharing economy è sulla bocca di tutti, io posso dirti tranquillamente che in radio lo studiamo e lo viviamo da tantissimo tempo”.
Ma non tutto, naturalmente, è facile: “Un mezzo di comunicazione come il nostro non sconta solo le difficoltà attuali del medium radio e del crollo degli introiti pubblicitari, ma ancora di più quelle del nostro essere quasi un unicum nel panorama internazionale: ovvero una radio che si basa su un canone volontario dato dalle sottoscrizioni dei nostri abbonati. Che sono con noi e ci seguono in virtù della nostra riconosciuta indipendenza e della nostra onestà intellettuale, e che proprio per questo sanno che la crisi economica ha toccato anche noi, costringendoci a un patto di solidarietà e al taglio degli stipendi per i nostri lavoratori, ma che giustamente esigono che indipendenza e onestà intellettuale non vengano mai meno in ciò che trasmettiamo”.
Una caratteristica di Radio Pop è sempre stata quella di essere molto partecipata dai suoi ascoltatori: i suoi “microfoni aperti” hanno fatto scuola. Come si concilia il “dare la voce alla gente” con le spinte populiste che, spesso, oggi la vox populi esprime?
“Il microfono aperto è diventato un po’ come i social, in effetti: uno sfogatoio che non pone punti di vista ma solo critiche ed emotività anche aggressiva. Per questo, da un po’ di tempo, tendiamo a ridurne gli spazi, e soprattutto a usarlo non per sentire pareri, quanto più per raccontare esperienze e storie legate ai temi di cui parliamo: in questo modo la gente si racconta e tende a rendere questo strumento più vero, creando così empatia in chi ascolta e anche un senso di comunità con i racconti personali. Dopodiché è chiaro che, siccome l’anno prossimo ci saranno le elezioni, torneremo a fare microfoni aperti più “politici”: lì si vedrà in che modo il microfono aperto fa da specchio dei tempi”.
Come si coniugano, oggi, quella onestà intellettuale e indipendenza di cui si parlava, con grandi temi di carattere politico?
“Ti faccio un esempio concreto: lo scorso 4 dicembre, in occasione del referendum costituzionale, scegliemmo, dopo un dibattito interno molto acceso e differenziato, di non schierarci ufficialmente, dando ovviamente voce a entrambi gli schieramenti. Abbiamo scontentato tutti, e questo è segno che, probabilmente, siamo efficaci nel non essere preda di questa o quella bandiera politica. Diverso discorso invece per temi più legati alla nostra “carta d’intentità”, il documento programmatico con i valori e gli ideali cui tutti ci atteniamo: tolleranza, antifascismo e integrazione, ad esempio, sono non solo paletti insormontabili e atti di resistenza, ma vere e proprie battaglie d’avanguardia che facciamo nostre. Per questo, nei mesi scorsi, ci siamo schierati decisamente a sostegno delle ONG, che stavano subendo attacchi fortissimi, e oggi siamo fortemente a sostegno dell’introduzione dello ius soli, al punto da essere stati non solo microfono ma anche voce coinvolta e attiva nell’organizzazione della grande manifestazione dello scorso 20 maggio, a Milano, quella delle centomila persone in piazza per i diritti degli immigrati”.
E qual è la più grande paura, per il direttore di Radio Popolare? Quale il suo sogno a occhi aperti? “La più grande paura è quella di non crederci più, in questo progetto, non solo io ma anche noi tutti. Un rischio che ad esempio le difficoltà economiche possono anche determinare. Il sogno, invece, se avessi molti mezzi a disposizione, sarebbe quello di puntare forte su un progetto di radio itinerante, proprio per continuare a far sentire e a raccontare le persone, sulla strada, nella vita di tutti i giorni. Tenere il passo del loro racconto, più di quanto i mezzi attuali ci permettano. E poi, parimenti, di tornare a fare inchieste”.
Claudio Agostoni è il direttore dei programmi, ma anche una delle voci più amate e conosciute dagli ascoltatori: anche lui da anni nella squadra, oggi è anche conduttore di “Onde Road”, seguitissima trasmissione dedicata ai viaggi e alla scoperta di luoghi più o meno insoliti, visti con sguardo e attenzioni personali. Sua la polaroid dello stato dell’arte di Radio Popolare: “Prima di tutto siamo, insieme a Radio 24 e, in parte, a Radio Capital, l’unica radio di informazione in Italia. Con la peculiarità di essere completamente indipendenti e una specificità quasi unica (la condividiamo con una radio argentina e una del Quebec), quella della sottoscrizione volontaria degli abbonati. Che sono all’incirca 15.000 e ci garantiscono un introito superiore al gettito pubblicitario. Totalmente autoprodotti sono anche i notiziari e gli approfondimenti tematici, che realizziamo internamente, con l’apporto eventuale di colleghi “esterni” che ci sono amici. Abbiamo 35 dipendenti assunti ufficialmente e poco più di una dozzina a contratto, e un gruppo di collaboratori e volontari che porta a più di cento le persone della squadra della Radio”.
Si parla anche di sfide e criticità: “La radio è sempre stata l’espressione di un segmento, della città prima e della regione poi. Ciò che non siamo riusciti del tutto a fare è stato aggregare i nuovi soggetti della società e quelli più giovani. Il pubblico della radio sta invecchiando con noi, e se, agli inizi, l’età media del pubblico oscillava tra i 37 e i 45 anni, oggi si sposta su una fascia che va dai 47 ai 55. C’è uno scollamento con la fascia più giovane della società che ci accomuna a tanti altri media, ma con cui dobbiamo fare i conti, e che non si risolve semplicemente mettendo in onda musica “giovane”, ma cercando di intercettarli andandoli a stanare anche attraverso altri canali, e cercando di immaginarsi cosa potrà essere la radio da qui a dieci anni. Una delle soluzioni, per me, potrà essere sempre di più quella dello sviluppo dei podcast: per esempio quello del mio programma offre, rispetto a ciò che si sente in onda, dei contenuti extra. Andare verso una radio on demand, insomma, in cui proporre prodotti radiofonici confezionati bene e con un’identità chiara, come il nostro “Esteri”, che secondo me, e non solo secondo me, è il fiore all’occhiello della radio. Le sfide, oggi, sono di tre tipi: quella economica (come mantenerci in vita), quella della programmazione, con un equilibrio da studiare tra broadcasting e podcast, e quella dello sfruttamento delle nostre potenzialità, la nostra sede, innanzitutto, che è di nostra proprietà ma sfruttata al momento solo parzialmente, quando potrebbe invece diventare un centro di produzione culturale (penso a concerti, incontri, presentazioni di libri e film). Se nei primi anni della radio, infatti, il collante che univa gli ascoltatori era, detta in senso lato, l’ideologia, oggi invece è l’interesse culturale (e infatti Radio Popolare è riconosciuta come interlocutore privilegiato da chi fa musica, teatro, cinema ed editoria)”.
E proprio di “Esteri”, Chawki Senouci è conduttore e responsabile, oltre che essere caposervizio, proprio per gli esteri, della redazione. Laureato in ingegneria e poi passato al giornalismo, Chawki collabora con la radio dal 1991, quando fu chiamato a raccontare la prima Guerra del Golfo, che seguì in 40 intensissime notti di diretta, dopo le quali, esausto, staccò completamente dalla radio per un anno. Una volta tornato, ha cominciato negli anni a occuparsi di musica (è lui il “colpevole” della mia scoperta del trip-hop cui accennavo a inizio articolo) e poi di news, con particolare attenzione all’attualità internazionale, fino a condurre uno dei programmi di punta della radio, da quest’anno in onda ogni giorno alle 19, prima del Giornale Radio della sera.
“La prima cosa di cui dobbiamo tener conto è che “Esteri” è un magazine, che quindi deve informare e non approfondire, in modo prima di tutto piacevole, per un pubblico che, per la maggior parte, a quell’ora ci ascolta dalla sua automobile. Deve essere quindi un prodotto ben confezionato, con una grande attenzione ai suoni e alle musiche: in 27 minuti di trasmissione tu ascolti in media una trentina di voci e cinque-sei jingle. Non solo: è pensato per il podcast, quindi è diviso in “capitoli” presentati dal sommario a inizio puntata. A livello di contenuti, cerchiamo di trovare un equilibrio tra notizie più mainstream e temi che non trovano spazio nell’informazione tradizionale, con in più uno spazio fisso per le rubriche, che vengono realizzate da collaboratori esterni e ci consentono di potere ogni giorno comporre il programma, anche quando la cronaca non offre grandi spunti, ma in ogni caso tutte con un piede nell’attualità. Tra queste rubriche ci sono sia quelle su argomenti culturali (ad esempio, in questo periodo di ricorrenze storiche, le graphic novel francesi che raccontano la Rivoluzione Russa, o il modo in cui le serie tv Usa, anche quelle non particolarmente ben riuscite, si rapportano all’America di Trump) che quelle dedicate a tematiche importanti come il land grabbing, o le dieci puntate del progetto, nato da un bando della Commissione Europea a noi assegnato, sulla libertà di stampa nei Balcani. E attorno a questa cornice, però, l’attualità raccontata dal nostro occhio: in questi giorni, ad esempio, i temi caldi sono ciò che sta succedendo in Catalogna, che presentiamo con nostri collaboratori sul posto, oppure l’ascesa dell’estrema Destra in Austria, che analizziamo con le parole di uno studioso austriaco che da sempre si dedica all’osservazione sociologica di questi fenomeni. Ancora, la spinosa questione dell’uso del glifosato in agricoltura, con le commistioni tra lobby, multinazionali come la Monsanto e zone oscure della Commissione Europea di controllo”.
Chawki è anche la voce più ottimista, tra quelle che si immaginano il futuro di Radio Popolare: “Ovviamente la radio può avere un avvenire solo se si riescono a coinvolgere i giovani. A breve finirà il periodo in cui siamo stati in regime di contratto di solidarietà, come dipendenti (una situazione che abbiamo potuto affrontare anche perché tutti noi abbiamo un secondo lavoro), un periodo in cui è ovviamente stato quasi impossibile “reclutare” nuove leve. Ora invece dovremmo riuscire a ripartire e a poter innestare menti fresche e curiose, che sapranno dare nuova linfa alla radio. Io insegno all’Università Cattolica materie legate a media e giornalismo, e, pur in un contesto generale non brillantissimo, riesco sempre a individuare due o tre alunni vispi e interessanti, da questo punto di vista”.
Catiù Giarlanzani è invece la figura con il ruolo forse più ingrato: Amministratrice Delegata dal 2015, è colei che si occupa di numeri e bilancio, e che deve mediare tra gli inevitabili voli pindarici e sogni di grandezza della redazione e la fredda razionalità del tenere i piedi per terra.
Come ci si aspetta da una AD, è molto schietta nel delineare la contingenza: “Facciamo un passo indietro. Radio Popolare ha una peculiarità molto specifica: siamo editori di noi stessi, in quanto cooperativa di lavoratori (e non) della radio che detiene la maggioranza relativa di una società per azioni (R.P.s.p.a., appunto), la quale gestisce la cassa. Nel 1991, poi, il fondatore e ai tempi direttore Piero Scaramucci ebbe la grande intuizione di aprire all’azionariato diffuso con un capitale di partenza, e in seguito di istituire l’abbonamento aperto al pubblico. Tutto questo ci ha consentito, in anni di vacche più grasse delle attuali, di avere a disposizione dei fondi per investire e “diventare grandi”, e arrivare così a oggi. Un presente in cui le imprese editoriali, tutte, sono in grande sofferenza, soprattutto perché gli introiti pubblicitari si sono, come nel nostro caso, di fatto dimezzati. Molti nostri concorrenti hanno chiuso i battenti. Il compito più importante è quindi, per tutti noi, quello di tenere costante il numero di abbonati (che sono 15000, ognuno dei quali sborsa una quota di 90€), possibilmente riuscendo anche ad aumentarlo. Per fare questo cerchiamo di ragionare su cosa significhi e cosa possa offrire il “marchio” Radio Popolare, e ad esempio ci siamo inventati l’organizzazione di viaggi verso mete più o meno alternative rispetto al turismo tradizionale, e legate a passaggi storici decisivi: siamo stati a Cuba nei mesi della fine dell’embargo, sul Danubio serbo, a Marsiglia e, proprio in questi giorni, in Iran. Se organizzassimo un viaggio a Berlino, per dire, di certo non faremmo il tour dalla Porta di Brandeburgo all’Isola dei Musei all’East Side Gallery. Ogni comitiva è accompagnata da nostri giornalisti, così che il viaggio diventa anche una vera proposta editoriale, un’esperienza che arricchisce chi vi partecipa e fa conoscere aspetti non scontati della meta. Idem dicasi per le feste che periodicamente organizziamo, come le feste danzanti per l’anniversario della Liberazione di due anni fa”.
Il pubblico della radio come percepisce questi passaggi?
“Il nostro pubblico ci fa giustamente le pulci ogni qual volta ritiene che sgarriamo un po’ da quello che ci si immagina essere il nostro riferimento ideale: l’esempio eclatante sono gli spot pubblicitari. Ad esempio ricevemmo proteste quando ci furono degli spot di una casa di moda che produceva pellicce, oppure, recentemente, durante uno spot della casa editrice Rizzoli che ci era sfuggito e nel quale si promuoveva un libro di Oriana Fallaci, che non è esattamente vista di buon occhio dai nostri ascoltatori. In generale però le maggiori contestazioni arrivano sulla cosiddetta linea politica, e ci dicono, a turno, che siamo troppo renziani, o grillini, o bersaniani: sicché, se si scontenta tutti evidentemente si sta facendo un buon lavoro. Certamente non è un compito facile, gestire le aspettative di chi ci ascolta e far quadrare i conti cercando di migliorare i contenuti dei programmi: fa tremare le mani, decidere di puntare, ad esempio, su un progetto piuttosto che su un altro, in base a ragionamenti che, magari, si rivelano completamente sbagliati, ma nel complesso il mio ruolo mi piace molto, e lo trovo davvero gratificante. Ho una lunga storia, all’interno di Radio Popolare, e nella vita mi sono occupata, in passato, anche di organizzazione di eventi culturali. Ora mi piace pensare alla mia carica attuale come il mio ultimo sforzo professionale, con la missione di consegnare alla generazione successiva di lavoratori della radio le condizioni migliori per avere una struttura in cui crescere, umanamente e lavorativamente. Una mossa che potrebbe migliorare il mio lavoro? Secondo me, fondere direttore amministrativo e direttore dei programmi, come, in campo editoriale, avviene per esempio al Fatto Quotidiano, potrebbe armonizzare le scelte di investimento e dare ancora maggiore identità alla linea programmatica della radio. So che è una posizione poco ortodossa, anche tra noi, però credo potrebbe trattarsi di una buona idea”.
Con Davide Facchini, i toni si fanno più ruspanti e diretti. In radio dal 2001 (“un’intervista a Ivan Cattaneo dentro una chiesa, la notte di Natale), ci conosciamo da una vita e abbiamo spesso “fatto cose” assieme. A Radio Pop è redattore e conduttore di “Jack”, trasmissione musicale in onda ogni pomeriggio, e, nel weekend, di “Sunday Blues”, trasmissione di “lotta contro la malinconia domenicale”. Da sempre il suo sforzo è quello di spingere l’asticella un po’ più in là, rispetto a quella che potrebbe essere una ortodossia nella linea editoriale della radio. A lui chiedo un commento più emotivo, su cosa significhi lavorare qui: “Una cosa che i primi tempi mi impressionava tantissimo, e cui poi mi sono in qualche modo abituato ma che rimane sempre forte è il fatto che i sentimenti, di qualsiasi genere essi siano, qui sono vissuti con una intensità che è difficile trovare in altri settori lavorativi, e soprattutto che qui un valore enorme è quello che io definisco, con metafora sportiva, il “fare sacrifici per la maglia”. Inoltre, trovarsi a lavorare in una situazione così grossa (parliamo di un pubblico quotidiano di almeno trecentomila persone, un pubblico che interagisce e critica anche duramente) ma che ti dà spazio (la mia “gavetta” qui è passata dal mettere un piede volta per volta in diversi programmi, una volta al mese, e poi, pian piano, a una trasmissione estiva e alla conduzione giornaliera di “Passatel”, storico programma di scambi di merci e servizi tra gli ascoltatori, fino ad avere il “mio” programma) se hai idee e progetti e se hai qualcosa da dire: tutto questo, soprattutto per me che ho anche un altro lavoro, che mi conduce quotidianamente in realtà completamente diverse, rende Radio Popolare davvero unica”.
E quali sono invece i punti in cui Radio Popolare arranca?
“La radio, e non solo la nostra, non si è fatta trovare prontissima all’impatto coi nuovi media, e quindi adesso ci tocca fare un lavoro di rincorsa, stesso discorso per quanto riguarda l’intercettare un nuovo pubblico. Chiaramente bisogna trovare un equilibrio, non perdere la quota degli abbonati senza rimanere fermi agli anni ’90, come modi e contenuti. Purtroppo, per situazioni contingenti, manca la possibilità di creare prodotti davvero belli e potenti, e soprattutto la possibilità per le persone di poter lavorare, retribuiti, alla creazione di prodotti di questo genere. Se i giornalisti avessero più risorse, in ogni senso, si potrebbe fare di più sul campo, e in generale la grande sfida è quella di trovare un modo per non essere mai passivi, nella nostra proposta, di non continuare a trovarci a lavorare in una modalità per cui si fa di necessità virtù, ma si prova a spingere in avanti il baricentro”.
Qual è la cosa più bella che ti è capitata, qui?
“Una trasmissione, “Sunday Blues”, che è partita in sordina e invece, puntata dopo puntata, in modo naturale e non scritto, ha creato dei veri personaggi fatti dal pubblico stesso, diventato parte integrante e irrinunciabile del programma: mi riferisco ad esempio a Francesca Carla, una ascoltatrice che telefonava sempre, precisando che “non è la prima volta che chiamo” e che è diventata talmente tanto un tormentone che abbiamo fatto delle magliette con questa frase, vendendone più di duemila durante una nostra festa. Insomma il programma è diventato così un tutt’uno, con il pubblico, che riusciamo ad avere una interazione massiccia. Di recente abbiamo lanciato lo sciopero degli sms, perché ne arrivavano troppi e decidemmo di non leggerli più, ottenendo il risultato sperato, ossia che la gente ricominciava a telefonare e a parlare davvero con noi”.
Un marchio di fabbrica anche per Davide, lo “stile Radio Popolare”: “Sì, il nostro taglio nel dare notizie, nel fare i collegamenti in esterni e nell’organizzare dal basso, come ad esempio avvenuto per i recenti flashmob di commemorazione della strage di Lampedusa, o per la manifestazione del 20 maggio scorso per l’integrazione. Una identità precisa, che ci consentirebbe una “parcellizzazione del brand” in tante sfaccettature tutte interessanti per una fetta di pubblico diversa. E un marchio di fabbrica nel quale provo, nel mio piccolo, a muovermi anche un po’ fuori dai canoni, come faccio con il mio programma musicale, che prova a intercettare tutti i gusti, così che magari a nessuno piaccia veramente del tutto, ma di sicuro a nessuno fa completamente schifo”.
La nostra carrellata in radio sta per giungere all’ultima voce, quella di Marcello Lorrai, redattore e membro del Consiglio d’Amministrazione. Prima però, partecipiamo alla riunione di redazione, in cui direttore, capiservizio e redattori discutono del “timone” del Giornale Radio: Catalogna, dati sulla disoccupazione, Trump e la Corea del Nord, si discute di chi far intervenire in diretta per un commento, quale lettura dare delle statistiche e quali aspetti privilegiare nel racconto, in un clima giustamente concentrato ma molto rilassato. Le mie esperienze passate di riunioni di redazione in giornali sono molto meno tranquille, nonostante si lavorasse su ambiti più locali e circoscritti. Anche per Marcello, la cifra del discorso è molto precisa: “Si tratta di interrogarsi sul significato del “fare” Radio Popolare oggi, portandosi dietro una storia e dei riferimenti ben precisi, nonché un pubblico che soffre la mancanza di un ricambio generazionale. Esiste un problema di target, di identità e di sintonia con l’oggi che è giusto porsi, per capire come portare nel futuro i nostri quarant’anni di storia: il mondo è cambiatissimo, e si fa fatica non solo a raccontarlo ma anche a sintonizzarcisi. Se i giovani, fino a pochi anni fa, si poteva capire come intercettarli, oggi sono più sfuggenti: il giovane della “Generazione Uber”, per esempio, non sono sicuro che noi riusciamo a coinvolgerlo e a parlargli. Allo stesso modo, certe intuizioni che Radio Pop ha avuto nel passato, penso a certe notturne in diretta, in cui si parlava in modo spregiudicato e libero di argomenti spesso spinosi, come la sessualità e la droga, oggi si sperimentano molto meno, nonostante sessualità e droga siano tutt’ora temi decisamente caldi (basti pensare alla crescita nel consumo di eroina a Milano)”.
E cosa significa essere una radio di sinistra, per quanto non ortodossa, oggi?
“Chi fa Radio Popolare e chi la ascolta continua a essere decisamente di Sinistra, come valori. Su alcuni temi per noi dirimenti, vedi l’immigrazione, noi continuiamo indefessi a tenere il punto, anche più di parte del nostro pubblico. Sentiamo e rivendichiamo, da questo punto di vista, una responsabilità politica e sociale molto forte, a cui non veniamo meno. Non che questo non ci porti critiche, anche da parte dei “nostri”: in occasione della manifestazione pro-diritti e pro-integrazione del 20 maggio a Milano, un successo imprevedibile per tutti, con 100.000 persone portate in piazza, noi ci siamo spesi moltissimo, l’abbiamo sostenuta e raccontata con dirette e speciali di approfondimento. Siccome, sostanzialmente, tutto nasceva da un’iniziativa dell’assessore Pierfrancesco Majorino, molto difesa dal sindaco Beppe Sala, in molti ci hanno accusato di fare un po’ da grancassa all’attuale amministrazione di Centrosinistra. Io personalmente, peraltro, alle Primarie non avevo nemmeno votato Sala, ma ho ammirato la sua risoluzione nel difendere una manifestazione senza precedenti, in Italia, e attaccata fino alla sera prima in modo violentissimo dalla Destra. Perciò penso che se, per una causa sacrosanta come questa, per una volta ci prendiamo critiche di questo tipo, e magari siamo davvero un po’ una cassa di risonanza, beh, non ci sia proprio nulla di che rimproverarsi”.
Sono le 18 e dalle casse in redazione escono le voci di “Agitpop”, programma di approfondimento condotto da Diana Santini, con la quale non siamo riusciti a parlare, così come con molte altre voci della radio, da Niccolò Vecchia a Gianpiero Kesten, da Luca Gattuso ad Alessandro Diegoli, Barbara Sorrentini, Lorenza Ghidini, Gianmarco Bachi, Ira Rubini, Luigi Ambrosio, Sanja Lucic, Lele Liguori, Disma Pestalozza e tanti altri che avrebbero reso ancora più completa la polifonia. Uscendo dalla palazzina di Radio Popolare, Milano è già scura e quasi buia, che è poi il momento in cui è più bella, insieme a quando il suo cielo è grigio e basso. La sensazione che ci si porta via dagli studi è quella di un organismo vitale e molto cosciente, soprattutto di ciò che è difficile fare, ma che continua a essere agguerrito nel voler raccontare ciò che ci sta attorno, e nel farlo nell’inconfondibile “stile-RadioPop”. Anche una sensazione di, la definirei così, inebriante difficoltà: quella che in fondo, forse, sperimenta nel suo piccolo ognuno di noi quando cerca di trovare un suo posto nel mondo e un passaggio a nord-ovest tra onde di complessità, difficoltà di decifrazione e capacità di destreggiarsi non solo nella quotidianità, ma anche nei problemi strutturali e logici che, a fermarsi e pensarci su un po’, ogni giorno ci pone davanti. Ce la si fa? È una sfida troppo grande? Siamo destinati a soccombere? Chi se ne importa, semmai l’importante è accettarla e continuare a rinnovarla. E poi, in fondo, lasciatevelo dire da noi splendidi quarantenni, ce n’est qu’un début, continuons le combat!
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