Primordi è un rubrica aperiodica, curata da Mattia Grigolo.
Ci piacciono degli esordi narrativi e ne scriviamo. Ma solo esordi.
Possiamo fidarci di un ricordo?
Giulio scompare.
Quando iniziamo a leggere La banda felice di Carolina Crespi, è proprio lui il primo personaggio che conosciamo: lo vediamo dall’alto, da una finestra, sta parlando con un senzatetto. Appena il tempo di vederlo e sparisce, è sua sorella Margherita a raccontarcelo. Di Giulio abbiamo visto solo un ricordo.
Il romanzo d’esordio di Crespi si apre con una scomparsa, ruota attorno a un’assenza, come La grande sera, il romanzo con cui Giuseppe Pontiggia ha vinto il premio Strega nel 1989. La banda felice e La grande sera sono romanzi differenti, ma sono accumunati dalla potenza narrativa di un personaggio che se ne va. O che forse è stato rapito. Che magari è vivo chissà dove. Oppure è morto e non lo sappiamo. Insomma, cosa è successo a Giulio? E perché?
Giulio è già sparito altre volte, ma è sempre tornato a casa. Margherita crede che queste fughe facciano bene al fratello, sono una maniera per difendersi da dei genitori disfunzionali, un modo per costruirsi la propria identità. Però stavolta non torna, e una settimana dopo la sua scomparsa telefona a casa e dice di stare bene, non c’è bisogno di chiamare la Polizia. Ma chi è Giulio? È un ragazzo che ha già cambiato due università, ha collaborato con una società di sondaggi telefonici, che sta aspettando che il padre gli dia il via libera per lavorare da lui come contabile. Dice che si sta impegnando in un progetto: vuole intervistare i senzatetto della sua città, ma poi queste interviste non le trascrive né le registra. Giulio sta cercando di capire chi è e cosa vuole fare, chi vorrebbe diventare; e questo è proprio uno dei nuclei del romanzo di Crespi: la difficoltà di costruirsi una propria identità. I personaggi del romanzo, infatti, hanno un’identità fragile, e da qui nascono i loro problemi. La madre è una donna imperscrutabile ed enigmatica, che forse non è mai realmente cresciuta, nonostante lei dica di essere diventata adulta per la seconda volta a cinquantacinque anni, il pomeriggio in cui il figlio se n’è andato. Il padre abbandona la famiglia per andare a vivere sulle montagne, in una comunità buddista, ma poi non ci vive in pianta stabile e a volte torna in città. Anche la sua identità sessuale è incerta, infatti lo vediamo legarsi sempre di più a Domenico, un collega di scuola, e l’affetto tra i due sembra prendere le sembianze dell’attrazione.
Crespi riesce a delineare i contorni incerti di questi personaggi con una scrittura delicata ma spietata. E quando li conosciamo non si può non pensare a De André, quando canta è triste trovarsi adulti senza essere cresciuti.
Ma se il mondo degli adulti è così problematico, irrisolto, come fanno due fratelli a crescere? Scappando, ma in modi diversi. Mentre Giulio decide di fuggire dalla sua famiglia, Margherita sceglie di restare ma di rifugiarsi nei ricordi. Ed è così che nasce la narrazione. Un affiorare di memorie, con un’andatura quasi onirica. Al termine di ogni capitolo il lettore non può immaginare da dove ripartirà la narrazione, né da quale luogo né da quale tempo, proprio come quando ci si addormenta e non si sa che cosa andremo a sognare. Margherita ci racconta la sua storia e quella della sua famiglia: la giovinezza della madre, anche lei scappò da casa per vivere a Berlino. La storia d’amore dei suoi nonni, lui paracadutista militare e lei che sogna di fare la hostess di volo. L’infanzia con Giulio, trascorsa tra fantacalcio, Game Boy, Play Station, e alcuni segreti più grandi di loro. Viene svelata anche la storia di Domenico, che dovrebbe essere solo un amico di loro padre, e invece sembra voglia diventarne l’amante. La voce di Margherita si spinge fino alla Resistenza, per farci conoscere il padre di Domenico, Carlo, che ha combattuto da partigiano, è tornato da eroe, ed è scappato in Thailandia, e ogni tanto manda un pacco di vestiti a casa. Insomma, la capacità dell’autrice di far affiorare storie è inarrestabile, sfugge ai confini del tempo e dello spazio, e al lettore può nascere il dubbio che di Margherita non ci si possa fidare del tutto. I suoi ricordi sono troppo pieni di dettagli, però a volte, all’improvviso, diventano opachi. Allora non sa più se suo fratello, prima di fuggire, abbia detto a sua madre “Vado” oppure “A dopo”. Quando Margherita racconta la scomparsa di Giulio è assalita dai dubbi, non sa capire se quello che dice sia successo davvero o sia frutto della sua immaginazione.
“Mi capita di inventare, mescolo la realtà a episodi che sono solo nella mia testa, è come se ciò che è accaduto si fosse sciolto in un liquido che in parte è finzione, ma non è mai completamente trasparente: la mia memoria è satura e sul fondo ci sono dei resti”.
Quindi Margherita è una voce inattendibile? Forse no, ma fino a che punto possiamo fidarci di lei? Il punto, ed è questo che rende La banda felice un ottimo romanzo d’esordio, non è se possiamo fidarci o meno della voce di Margherita – ogni lettore deciderà da sé – bensì cos’è che questa voce sta cercando di dirci sul serio. Margherita racconta le storie di personaggi disgregati, per motivi diversi e in epoche diverse, ma che alla fine trovano tutti la stessa soluzione: creare uno spazio comunitario in cui vivere, assieme a persone che hanno gli stessi scopi o ideali. Una banda, appunto. Carlo, il padre di Domenico, trova una sua dimensione nella lotta partigiana. Il padre dei due fratelli e Domenico si affidano al villaggio buddista. La stessa Margherita, per sfuggire all’asfissiante atmosfera di casa, scopre un suo spazio di felicità in via Leopardi 7, in una casa condivisa. Ma anche nello sport, che per lei diventa collante sociale anziché trampolino sociale. Dall’altra parte c’è chi decide di isolarsi. Come la madre, che fa una vita da eremita barricata dietro i propri dolori, e che in questi dolori ci rimane invischiata. Lei è la dimostrazione che salvarsi da soli è molto difficile, spesso impossibile. Come ci ricorda anche R.W. Emerson, che Crespi cita nell’esergo: la solitudine è impraticabile e la società fatale. Dobbiamo tenere la testa nell’una e le mani nell’altra.
La banda felice è un romanzo d’esordio da leggere anche perché lo stile di Crespi è fresco ma non sciatto, a tratti ruvido ma mai urticante. Riesce a bilanciare questi effetti scegliendo con cura le parole, che sono tendenzialmente semplici, ma che insieme concorrono a creare immagini vivide, pulsanti. Uno stile impreziosito da alcune metafore azzeccate, come quando scrive “Tutti schizzano impazziti, un formicaio distrutto dalla canna dell’acqua”, oppure “In attesa che il sonno calasse dal soffitto come una ragnatela”. Uno sguardo attento ai dettagli: all’elastico lasso di una calza di spugna bianca che “ogni tanto precipita alla caviglia, ogni tanto scivola sotto il tallone”.
Leggere La banda felice significa immergersi in una silenziosa guerra di trincea, in cui ogni personaggio è in lotta per trovare un suo posto. Una guerra che nasce dall’incapacità dei personaggi di comunicare fra di loro. In questa guerra c’è chi attacca e chi scappa, e la sensazione è che ci siano più vinti che vincitori. Uno di questi è il lettore, la lettrice: perché se i personaggi di Crespi non riescono a comunicare fra di loro, riescono però sicuramente a parlare con chi li sta leggendo.
Mattia Cecchini
Ha vissuto fino al 2017 a Gubbio, poi si è trasferito a Berlino.
Gli piace di più parlare di libri piuttosto che della sua vita.
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