È il pomeriggio di una domenica di fine maggio, e sono davanti al Victoria & Albert. Il museo londinese ha da poco aperto le porte della tanto attesa mostra su una della band più influenti della storia della musica, “Pink Floyd: Their Mortal Remains”, e noi ci mettiamo in fila per ritirare il nostro paio di Sennheiser, essenziali per godersi la mostra a pieno. Sembra di essere un po’ sotto la metro a Termini, penso: sarà che a tutti i londinesi è venuto in mente di venire qui oggi. Per nostra fortuna la musica parte da subito, le luci si abbassano e, sala dopo sala, ci si ritrova immersi in psichedeliche decorazioni, poster e annunci di vecchi concerti, foto inedite individuali e di gruppo, registrazioni di interviste, video di concerti, strumenti, vinili, lettere personali, enormi installazioni e altro ancora. La musica si ferma solo quando a farsi sentire, raccontando aneddoti, sono le voci dei musicisti, mentre l’audio cambia automaticamente seguendo i nostri passi. Il materiale vuole essere una rappresentazione della storia dei Pink Floyd, dalle origini fino a ciò che ne rimane oggi, e segue quindi un filo puramente cronologico. Si parte dai Pink Floyd di Syd Barrett, passando per le immagini di “Live a Pompeii” e il successo di “The Dark Side of The Moon”, con tanto di desk dove poter mixare la propria versione di “Money”; si continua con le iconiche fotografie di “Wish You Were Here” e con un’immensa sala dedicata alla componente teatrale e visiva di “Animals” e “The Wall”. Arrivati in fondo, ci si ritrova in una sala composta solo da quattro enormi schermi, dove ci leviamo le cuffie. Poi, chi in piedi, chi sdraiato, chi seduto composto, rimaniamo tutti fermi ad ascoltare “Comfortably Numb” suonata in occasione del Live 8 nel 2005, e a vedere le immagini di “High Hopes”.
Da una prospettiva più ampia, la mostra dei Pink Floyd può essere analizzata in relazione con il discorso sulla preservazione e rappresentazione della storia della popular music considerata qui come un patrimonio culturale che viene successivamente incorporato in mostre, archivi e biblioteche gestite da istituzioni pubbliche o private. In tutte le sue forme tangibili e non, la musica viene sempre di più considerata come un oggetto associato a dei periodi storici specifici e come un mezzo culturale e commerciale utile per ripercorrere i propri ricordi, per tornare indietro ai bei tempi andati, quindi per lasciarsi cullare da una malinconica nostalgia. Dischi, magliette, biglietti di concerti, poster, materiale raro destinato a ristretti circoli di fan, ma anche determinati posti, palazzi, sale da concerti che sembravano ieri una connessione tra la musica e il suo pubblico diventano col tempo la fonte primaria, custodita con cura, per la (ri)costruzione di una memoria musicale collettiva o privata.
Mediante questo processo tramite il quale la musica cessa di essere un mezzo d’intrattenimento in perenne dinamismo e costitutivamente legato al tempo presente, diventando qualcosa legato al passato come il patrimonio culturale, il ruolo giocato dalle organizzazioni pubbliche così come quello dei singoli appassionati diventa essenziale. Sono loro infatti a decidere cosa è giusto tenere, archiviare, collezionare, catalogare per poi preservare ed esporre per un pubblico più grande, e cosa è invece necessario lasciarsi alle spalle e dimenticare. Come accade spesso con le altre arti e con la cultura in senso lato, scelte di questo tipo, quindi di inclusione ed esclusione di materiale, sono guidate da meccanismi politici e ideologici che si scontrano con problematiche quali la differenza tra la realtà globale e quella locale, tra la cultura alta e quella bassa, tra storie ‘ufficiali’ e ‘non ufficiali’, e così via. I maggiori musei, biblioteche e archivi, nazionali e internazionali, tendono a scegliere di rappresentare ciò che è già affermato, familiare e apprezzato dal pubblico, molto spesso per il semplice fatto di doversi assicurare un determinato numero di visitatori. E quindi, a lungo andare, finiscono per fornire una rappresentazione limitata e parziale della storia della musica. Non a caso il V&A ha deciso di dedicare una mostra ai Pink Floyd e ancor prima a David Bowie.
Questa ‘museificazione’ della popular music – intesa come l’inserimento di un certo tipo di cultura pop, tendenzialmente dinamica, controcorrente, antisistema all’interno di uno spazio statico e spesso istituzionalizzato – evoca l’interrogativo non solo sul processo stesso, ma anche sul modo in cui la popular music stessa viene rappresentata, restituita e recepita. La rappresentazione limitata e convenzionale da parte di grandi centri culturali rimane tale perché mediata attraverso lo sguardo istituzionalizzato dei curatori, persone che sono molto spesso lontane dal contesto quotidiano delle varie culture musicali. Lo sguardo istituzionalizzato, che considera il più delle volte la popular music come cultura bassa, ha bisogno di costruire un discorso capace di contestualizzare, e ancor meglio giustificare, la presenza o l’assenza della popular music nei musei. I memorabilia musicali vengono quindi esposti in base alla loro importanza in un contesto storico, artistico e culturale più vasto; una presenza laterale, secondaria. Inoltre, in termini di architettura e spazio organizzativo, queste mostre tendono a vedere il museo in modo tradizionale come uno spazio per la contemplazione e l’apprendimento, dove l’unico ruolo dei visitatori rimane quello di osservatori passivi che camminano e in perfetto silenzio ammirano. Ad esempio, il fatto che gli strumenti musicali siano normalmente esposti dietro di un vetro finisce per confinare il coinvolgimento del pubblico. Uno strumento in esposizione dietro un vetro è uno strumento decontestualizzato, messo a tacere; e quindi interpretato, ammirato, valutato non per le sue caratteristiche sonore ma per quelle visive. Qualsiasi significato musicale, connotazione performativa o connessione diretta con il pubblico dello strumento in questione viene messa in disparte per dare spazio alla bellezza estetica del materiale.
La preservazione del patrimonio musicale avviene però anche grazie alla partecipazione attiva dei fan – tendenzialmente lontana da restrizioni economiche, culturali e politiche ma non priva certo di complessità e limitazioni – attraverso blog, siti di file-sharing, forum e chat online e gruppi sui social media, che sono spesso da considerare vere e proprie attività di preservazione e digitalizzazione di materiale di ogni tipo. A proposito della partecipazione dei fan e della relazione tra il pubblico e i memorabilia musicali, mi viene da pensare a ‘Extinction’, l’evento tenutosi a Londra nel novembre del 2016 che vedeva Joe Corré (il figlio di Malcolm McLaren e Vivienne Westwood) bruciare la sua collezione privata di memorabilia punk dal valore di 5 milioni di sterline. Una sorta di atto à la KLF, in una versione un po’ tarocca se non altro. A bruciare furono, tra diversi oggetti, vestiti, poster e rare registrazioni live, un paio di pantaloni di Johnny Rotten e un raro acetato del singolo dei Sex Pistols “Anarchy in the UK”. L’evento voleva essere esattamente un atto di protesta verso la commercializzazione del punk e, in particolar modo, contro la serie di eventi, incontri, mostre e workshops che si sono tenuti per tutto il 2016 in occasione del 40esimo anniversario dalla ‘nascita’ del punk. Questa vera e propria celebrazione, conosciuta come “Punk London”, vantava del supporto delle più grandi istituzioni culturali inglesi come il Museum of London, la British Library e il BFI.
Quello che Corré vuole dirci è che queste istituzioni, che seguono le norme e le mode dettate dal mercato globale, contribuiscono alla svalorizzazione del punk: un genere musicale notoriamente sovversivo e rivoluzionario che finisce per diventare un medium tangibile e fisso, un sentimento nostalgico per un pubblico superficiale che è contento di comprare, usando le parole di Corré, “l’illusione di una scelta alternativa”. Corré considerava la sua collezione di memorabilia nient’altro che una collezione di oggetti vuoti e non più una rappresentazione visiva di quelle idee che una volta potevano costituire il vero essere punk. Convinto del fatto che a essere importanti sono le idee e non gli oggetti, Corré ha inoltre affermato l’impossibilità di attribuire un valore a questi oggetti, sia esso economico o culturale, poiché questi ultimi non sono più connessi alle idee che originariamente ne costituivano il significato. Durante un’intervista gli è stato persino chiesto perché non avesse donato la collezione a un museo e, come da copione, ha risposto che non gli sembrava una grande idea dato che la collezione sarebbe diventata una mostra di oggetti senza significato per persone alla ricerca di ispirazioni anch’esse senza significato. Non bisogna camminare come turisti tra le mura di un museo, continua Corré, bisogna trovarlo al di fuori il vero spirito punk, cercandolo ognuno dove gli sembra più opportuno. E quindi, perché no, la soluzione migliore è certamente quella di bruciare tutto! Oltre ai musei si sarebbe potuto investire il denaro, vendere la collezione, o semplicemente donarla: “Bollocks! It’s my stuff, I can burn it if I want to.”
Prima e dopo l’evento, inoltre, sono apparsi una serie di articoli pubblicati sul sito “Burn Punk London”, che serve a documentare e preservare le idee contenute nel gesto di Corré. Un articolo in particolare mi assorbe nella lettura. Parla della manipolazione di pochi scelti despoti, della rilevanza del denaro nelle nostre vite, della dipendenza che noi, come società capitalista e dello spettacolo, abbiamo dal vendere e comprare prodotti inutili, e infine della capacità che le istituzioni hanno di dirigere la nostra quotidianità, influenzando i nostri desideri, sentimenti, valori. Il capitalismo, l’articolo rivela, ha cambiato persino il coraggio, l’empatia e l’intero ecosistema. Poi, finito l’articolo, appare un’immagine con la scritta ‘smash capitalism’ che mi porta direttamente alla sezione poster del sito dove sono incoraggiata a comprare la mia copia del poster originale di “Burn Punk London” per soli 10 sterline; in fin dei conti, mi ha proprio convinto con questa storia che ogni acquisto è una decisione.
Le parole e i gesti di Corré hanno chiaramente guadagnato sia grandi approvazioni che reazioni negative. Quest’ultime considerano il gesto come una dimostrazione ridicola di un uomo ricco in cerca di attenzioni dal pubblico, o come i residui di una relazione problematica tra padre e figlio, o come un atto pretenzioso, e lo accusano di non aver minimamente capito cosa volesse significare e cosa fosse l’essere punk. Chi lo sostiene invece applaude le sue affermazioni e la sua protesta critica, veramente radicale, ribelle e nichilista, furiosa, il suo atteggiamento anarchico e anti-establishment, veramente punk. Ah, comunque se vi siete persi l’evento, potete sempre comprare il documentario “Burn Punk London” e vedervi l’effimero gesto di Corré integralmente, ripetutamente. E ancora, e ancora, e ancora.
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