Questo è il racconto di un’esperienza personale, basato su fatti realmente accaduti, anche se lontani nel tempo e sfocati negli anni trascorsi, fino al punto che non riesco a dare un volto e un nome alle persone. Si tratta di alcuni ricordi, chiari come lampi nella mia memoria. Tutta la vicenda si svolge nei cinquanta giorni che vanno dal 1 luglio al 20 agosto 1985.
Il 1985 è stato il mio primo anno all’Università, a Firenze. Nell’estate 1984 avevo preso il diploma di perito meccanico presso l’Istituto Tecnico Industriale Ponzio Porciatti di Grosseto. Mi piacevano la matematica, la meccanica, la fisica, ma da tre o quattro anni avevo iniziato a fare viaggi, prima brevi, di qualche giorno con la Vespa, poi sempre più lunghi, in treno e in autostop in giro per l’Europa. Stavo scoprendo che mi piaceva viaggiare e conoscere culture diverse.
M’iscrissi quindi alla facoltà di Lingue e Letterature straniere a Firenze, pensando appunto di imparare a padroneggiare più idiomi possibili. Non mi sarei mai immaginato di non mettere mai piede in un laboratorio linguistico, nonostante i miei genitori pagassero le tasse per averne uno. Mi appassionai infatti, intanto, alla letteratura tedesca, a Schopenhauer, a Nietzsche, all’espressionismo e va bene così. Per le conoscenze linguistiche dovevamo pensarci da noi, tanto più che le lettrici madrelingua continuavano a ripeterci: ”Non pensate di venire all’esame senza essere mai andati in Germania”. Anche l’Austria andava bene. Ad ogni modo, io compresi ben presto, anche grazie al suggerimento di alcuni colleghi studenti, che bisognava scegliere una lingua difficile in cui laurearsi, se si voleva sperare in un qualche futuro lavorativo. Io scelsi il tedesco.
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Il 1985 è impresso nella mia memoria per molte cose accadute nel corso di quei 365 giorni. Nelle prime due settimane di gennaio, sull’Europa occidentale e fino al Mediterraneo, si abbatté un’ondata di gelo polare memorabile. Venti gradi sottozero a Firenze, nella Pianura Padana furono sfiorati i -30 e nella Germania meridionale si arrivò a -40.
In Italia c’era il primo governo guidato da Bettino Craxi, sostenuto dalle forze pentapartitiche della Prima Repubblica (DC, PLI, PRI, PSDI e PSI). Dopo la triste e prematura morte di Enrico Berlinguer, avvenuta a Padova l’11 giugno 1984, il Partito Comunista era nelle mani di Alessandro Natta.
Ho solo ricordi sbiaditi riguardo a quello che accadde sulla nave “Achille Lauro” il 7 ottobre del 1985 al largo delle coste dell’Egitto. Il nome del transatlantico s’impresse nella mia acerba memoria storica soprattutto per lo scalpore suscitato in me dal fatto che i dirottatori della nave avevano alla fine lasciato liberi tutti i passeggeri, tranne uno, Leon Klinghoffer, anziano cittadino statunitense, di religione ebraica, costretto sulla sedia a rotelle dalla paraplegia, che venne brutalmente ucciso.
Poco sapevo del conflitto arabo-israeliano che vi stava dietro. E con altrettanta poca consapevolezza degli avvenimenti della Storia, non mi accorsi per niente che per un pelo non si arrivò allo scontro a fuoco fra gli Stati Uniti di Reagan e l’Italia di Craxi. Per me, Sigonella e Abū Abbās erano soltanto nomi esotici.
Bruno
Mio padre nella sua vita ha fatto, fino a che ha potuto, soltanto il meccanico. Ha lavorato sodo per farmi studiare. Tuttavia, se volevo andare in Germania a imparare il tedesco, dovevo trovare un lavoro per pagarmi il soggiorno.
“Però posso chiedere a Bruno”, mi disse un giorno mio padre.
Bruno è il protagonista assoluto di tutta la storia. È un personaggio che per ora mi basta definire “non convenzionale”. Senza di lui tutto quello che successe in quei giorni non sarebbe stato possibile.
Bruno ha oggi settantaquattro anni e vive ancora a Rimini, in Romagna. Negli anni Settanta era proprietario del “Bar del porto”, nel bel centro dell’animata vita notturna della vivace città romagnola. Il bar di Bruno era il centro di ritrovo per tutti gli appassionati di sport: boxe, motociclismo e ovviamente calcio. Il “Rimini Football Club” militava allora nella serie C del campionato nazionale di calcio, così come l’ Unione Sportiva Grosseto: entrambi i club avevano gli stessi colori biancorossi.
Anche mio padre è sempre stato ed è un grandissimo appassionato di sport, soprattutto un tifoso del Grosseto. L’amicizia fra lui e Bruno nacque agli inizi degli anni Settanta, grazie ad un gemellaggio delle tifoserie del Grosseto e del Rimini e si era rinforzata in occasione del terremoto che colpì il Friuli nel 1976, dove una delegazione di tifosi delle due squadre si recò con camion pieni di mattoni e materiali per aiutare la popolazione locale nella ricostruzione post terremoto.
Bruno aveva il carattere tipico dei romagnoli, aperto, cordiale, festaiolo. Conosceva tante persone, troppe persone. Conosceva tutti e tutti conoscevano Bruno. Lavorava per un’agenzia di pompe funebri riminese e visto che in estate la popolazione della famosa località romagnola come minimo decuplicava il numero dei suoi abitanti, aumentava anche il lavoro per Bruno. E siccome i più assidui frequentatori della Riviera adriatica sono da sempre i tedeschi, Bruno conosceva un sacco di persone in Germania, soprattutto proprietari di ristoranti, gelaterie e pizzerie in cui magari andava a mangiare dopo aver portato indietro una salma.
Bastò una telefonata e i giochi erano fatti. Bruno mi aveva trovato lavoro in Germania, in un ristorante di un suo conoscente tunisino, di cui, ahimè, non ricordo il nome. Lo ribattezzerò Karim, per l’occasione. Avevo detto a Bruno che con me ci sarebbe stato un mio amico, Ugo. Nessun problema, ci disse, c’era posto anche per lui. I patti erano che noi lavoravamo per Karim e lui in cambio ci dava vitto, alloggio e una piccola base di stipendio. Poi non sapevamo altro, a parte il fatto che Bruno, cosa che non compresi affatto, presentò me e Ugo come cugini di sangue, figli di un chirurgo e di un avvocato, e che dovevamo presentarci il 2 di luglio al ristorante che era nella strada principale di un paese di 20mila anime sperduto nel centro dell’Assia, a metà strada fra Francoforte e Heidelberg. Il suo nome era Pfungstadt.
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In quegli anni, la Germania era piena d’immigrati, i cosiddetti Gastarbeiter, i lavoratori ospiti, provenienti già dalla metà degli anni Cinquanta da Italia, Turchia, Grecia, Jugoslavia e Spagna per far fronte alla richiesta di manodopera figlia del Wirtschaftswunder, il miracolo economico tedesco. Era manodopera non specializzata che si ammazzava di lavoro nell’industria mineraria, automobilistica e nell’edilizia. Il 20 dicembre 1955 i governi di Italia e Germania firmarono “l’accordo per il reclutamento e il collocamento di manodopera italiana nella Germania federale”. Questa fase dell’emigrazione era definita “assistita” perché i flussi erano organizzati a livello istituzionale e distribuiti attraverso i Centri di emigrazione (importanti erano quelli di Milano e Verona).
Dopo la crisi petrolifera del ’73 e la fine del miracolo economico tedesco, il governo federale emanò leggi che bloccavano il reclutamento di lavoratori stranieri. Gli anni Ottanta rappresentarono il periodo della stabilità e dello sforzo per l’integrazione, per gli italiani che in Germania avevano trovato ormai non solo il lavoro, ma anche famiglia e affetti. Durante gli anni Novanta, il sistema legislativo si mantiene poco favorevole all’immigrazione. Con il nuovo secolo, invece, si assiste a una legislazione sempre più permissiva, soprattutto verso l’immigrazione di lavoratori qualificati.
Storicamente, c’è una seconda fase dell’emigrazione italiana verso la Germania federale, influenzata dallo sviluppo della Comunità economica europea: quella in cui i lavoratori sono liberi di andare dove vogliono e si cercano il lavoro come meglio credono loro.
1 luglio 1985
La remota e ferina memoria olfattiva scatena a volte sensazioni potenti dentro di noi. Mi sembra di sentire ancora la freschezza inebriante dell’aria estiva del primo mattino, quando uscii di casa presto. L’odore dell’erba bagnata dalla rugiada notturna del campo davanti a casa mia creava una nebbiolina così bassa che sembrava di mettere i piedi nelle nuvole. Saranno state le 6, e dovevo passare a prendere Ugo per poi andare alla stazione e montare sul treno che ci avrebbe portato a Rimini, per una notte, e poi verso Pfungstadt.
Fa una strana impressione trovarsi in un luogo pubblico grande e affollato e sentire il proprio nome ripetuto agli altoparlanti: ”Il signor Alessandro Borscia è atteso davanti all’entrata dell’Ufficio bagagli sul primo binario. Ripeto: il signor…”.
Questo è ciò che sentii appena scendemmo con gli zaini giù dal treno nella stazione di Rimini. Mi ricordo soltanto, ed è come una fotografia ingiallita e sfocata, Bruno con le braccia aperte, i suoi baffi e la sua faccia sorridente e il facchino davanti a lui con un carretto di legno che ci faceva segno di mettere là sopra la nostra roba. Poi mi ricordo che salimmo in macchina di Bruno e che lui non rispettava gli Stop, le precedenze, salutava i vigili che gli fischiavano dietro e poi prese una strada stretta in controsenso. C’era un furgone della Coca Cola che ci veniva incontro. Bruno scese, parlò con il conducente, tornò con delle bottiglie di Coca Cola e dei bicchieri di carta e proseguì. Ugo e io ci stavamo divertendo un sacco.
Passammo la sera in una discoteca e per entrare, naturalmente, non pagammo niente, perché dovevamo dire che eravamo amici di Bruno. Poi andammo in una pensione a dormire, anche lì senza pagare una lira.
Il viaggio da Rimini a Pfungstadt mi è sfuggito completamente dalla memoria. Ho un ricordo abbastanza chiaro però, dell’impatto che ebbe l’atmosfera delle stradine deserte di Pfungstadt nelle prime ore del pomeriggio su tutto il mio ottimismo, che fino a quel momento circondava la prima avventura in Germania. E poi ho un’altra immagine, questa volta più limpida, abbagliante, che è quella della sagoma di Karim, che ci aprì la porta del ristorante quando suonammo al campanello di un edificio nella strada principale di Pfungstadt, desolata e immersa nel sole del meriggio. Non c’era nessuno per le strade, ma potrei sbagliarmi.
Karim aveva la vernice bianca distribuita in modo uniforme su tutto il suo corpo massiccio e grande, compresi il viso e le parti di braccia e gambe scoperte. Ci dette il benvenuto in un italiano che era molto buffo e tutto l’insieme della scena mi è rimasto impresso, compresi gli sguardi increduli e le risate soffocate fra me e Ugo. Ci fece entrare e ci disse che stava proprio in quel momento verniciando la nostra stanza. Attraversammo la prima parte del locale, che era una gelateria, e poi la sala-ristorante. Le stanze erano disposte una dietro l’altra lungo un asse rettilineo. Proseguimmo in cucina e poi c’era un ampio magazzino con un sacco di roba. Karim aprì una porticina laterale e entrammo in un pezzetto di giardino con l’erba alta più di mezzo metro e le galline che scorrazzavano libere. Sulla sinistra, un ammasso di cianfrusaglie accatastate davanti alla porta di una piccola rimessa. Era la nostra stanza, che in quel momento non era ancora pronta, ma che per la sera lo sarebbe stata.
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I primi sei mesi dell’anno furono bellissimi per me, fra i più belli della mia vita. Nella settimana precedente la Pasqua del 1985, ero con i miei amici al bar e proposi di andare per i giorni delle vacanze con la Vespa a Nizza. Così, tanto per fare qualcosa. Erano gli anni di Amici miei, delle zingarate e molte persone a Grosseto facevano queste cose a quei tempi.
Eravamo in sette. Partimmo sotto il diluvio la sera tardi del Venerdì Santo, 5 aprile, con la prospettiva di essere di ritorno al massimo martedì 9, alle otto di mattina, in tempo per andare a lavoro.
Fu un’avventura vera e propria e il giorno della partenza da Firenze (ero andato a prendere il mio compagno di viaggio che lavorava in banca nel capoluogo toscano) sigillai il mio primo fidanzamento importante con un bacio su una panchina di un elegante parco fiorentino.
Ero a Firenze a casa sua, di Francesca, la sera di mercoledì 29 maggio 1985, per vedere la finale di Coppa dei Campioni fra Juventus e Liverpool, allo stadio Heysel di Bruxelles. Vedo ancora la madre di Francesca che si avvicinò a noi nel salotto dalla cucina con le mani a coprire la bocca aperta in un’espressione di orrore e incredulità.
Un avvenimento, che poi avrebbe avuto conseguenze che hanno cambiato il corso della storia dell’umanità in modo radicale, non sfuggì alla mia inconsapevolezza generale dei venti anni, se non altro per la simpatia spontanea che esprimeva la faccia del nuovo segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica, con quella strana macchia rossiccia sulla testa. Michail Sergeevič Gorbačëv fu eletto alla carica di segretario del Partito Comunista sovietico l’11 marzo 1985, quattro, cinque ore dopo (lo disse il celebre corrispondente RAI da Mosca, Demetrio Volcic) la morte del suo predecessore Černenko, il vecchio sodale della linea conservatrice di Brèžnev. Fu il Ministro degli Esteri dell’Unione Sovietica, Andrej Gromyko, ad annunciarlo. L’impatto sul sistema sovietico delle riforme di Gorbaciov, basate su apertura, trasparenza (glasnost) e ristrutturazione del sistema sociale, politico ed economico (perestròjka) è stato devastante e ha cambiato il corso della Storia.
A me stava simpatico Gorbaciov, ma anche il vecchio volto stanco e malato di Leonìd Il’ìč Brèžnev, con quei sopraccigli enormi e neri, che legge, molto lentamente, il discorso di apertura dei Giochi della XXII Olimpiade che si tennero a Mosca nel 1980, mi ricordava quello di mio nonno comunista.
I primi giorni di lavoro
I primi giorni furono durissimi. In primo luogo per l’enorme mole oraria che eravamo costretti a coprire e poi per quell’ansia che cominciava a farsi largo dentro di noi e che era dovuta principalmente alla noia e alla solitudine che sentivamo. A me poi mancava molto Francesca, che era andata a Parigi per un mese a imparare il francese. Il mio tedesco progrediva lentamente e avevo imparato la mia prima parola, “Becher”, la coppetta dove si serve il gelato.
La nostra pausa era dal pranzo fino alle cinque del pomeriggio. E poi dopo la mezzanotte. Alle otto del mattino si ricominciava. Anche se avevamo venti e ventitré anni, dalle 2 alle 5 di pomeriggio a Pfungstadt d’estate non c’è molto da fare e quindi, se il tempo è bello, si va in piscina. Questo era il nostro unico passatempo e spesso portavamo con noi Samir, il figlio di Karim, di cui mi ricordo solo i dolci e profondi occhi neri. Samir avrà avuto cinque o sei anni e sua madre era una giovane donna barese completamente succube del marito, il quale aveva un carattere focoso e s’incazzava facilmente con tutti i suoi sottoposti, soprattutto con un altro dipendente arabo, ma che con lei riusciva a essere veramente prepotente e dispotico. A me, al contrario di Ugo, mi aveva preso in simpatia, mi chiedeva della mia famiglia, del mestiere di mio padre; e io gli dicevo, come mi aveva detto Bruno, che i nostri padri erano molto legati.
Durante le nostre conversazioni al tavolo nelle piccole pause di lavoro, Karim rivelava gli aspetti migliori del suo carattere: era una persona di cuore, onesta e molto simpatica. Cercava di insegnarci un po’ il tedesco, ma soprattutto parlavamo in italiano e il suo italiano era davvero molto divertente. Una volta ricordo che insieme a Ugo ci davamo sotto il tavolo delle violente strizzate alle gambe per impedirci di scoppiare a ridere davanti a Karim che aveva appena detto “ghiaccio che suda” per riferirsi alla stalattite.
Un pomeriggio, tornando un po’ malinconico al lavoro per il turno serale, vedo Karim con un’aria strana che mi guarda e inizia a canticchiare con sguardo ammiccante “Paris…Paris…”. Io capisco subito che aveva telefonato Francesca e mi si apre il cuore. Immediatamente dopo, il tunisino mi chiede se mi piacerebbe andare a Parigi per il successivo fine settimana. Interpretando il mio silenzio meravigliato come tacita risposta affermativa alla domanda, Karim prende il telefono, parla in tedesco e dopo un po’ si gira e mi dice: “Venerdì mattina ti accompagno a Francoforte e vai a Parigi in treno. È già prenotato. Domenica mi telefoni e se non c’è troppo lavoro, torni lunedì!”
Lo dissi a Ugo, un po’ dispiacendomi di lasciarlo lì da solo e io a Parigi a divertirmi. Ma Ugo, da fratello maggiore, aveva capito tutto e mi chiese di salutargli Francesca.
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Il 3 di luglio del 1985 Francesco Cossiga divenne Presidente della Repubblica Italiana. Alle ore 12, 22 minuti e 55 secondi del 19 luglio 1985 cedono gli argini dei bacini di discarica della miniera di Prestavel, nell’alta Val di Stava (Comune di Tesero, Trento). La massa fangosa composta da sabbia, limi ed acqua si abbatte sul piccolo abitato di Stava, provocando 268 vittime. È una delle peggiori catastrofi avvenute in Italia, seconda solo al Vajont, ma sembra essere una tragedia dimenticata.
Mi ricordo bene invece di avere ascoltato alla radio e alla televisione uno dei più grandi eventi della storia del rock, il Live Aid, il concerto di beneficenza per l’Etiopia, afflitta da una terribile carestia, che si svolse il 13 luglio 1985 in varie località nel mondo (centrali erano Londra e Filadelfia) e al quale parteciparono, solo per fare alcuni nomi, Queen, David Bowie, Madonna, U2, Sting, The Who, Elton John, Tina Turner, Mike Jagger, Paul McCartney e molti altri. Fu il genio di Bob Geldof, il leader del gruppo irlandese Boomtown Rats, che ebbe l’idea di collegare i concerti che si svolgevano in contemporanea in varie parti del pianeta attraverso la trasmissione televisiva satellitare. La tecnologia della TV satellitare era poco diffusa all’epoca, ma quello che riuscì a organizzare Bob Geldof (su idea, sembra, di Boy George, che non partecipò) divenne la trasmissione televisiva più seguita in assoluto nella storia della televisione. E lo è ancora. 1,9 miliardi di persone, in oltre 150 Paesi, hanno guardato in TV l’evento. Il 40% della popolazione mondiale dell’epoca.
Un’altra cosa accadde poi in quell’estate del 1985, i cui effetti hanno molto influenzato i trenta anni successivi della Repubblica Italiana: giovedì 1 Agosto, infatti, la Camera dei deputati di Montecitorio emanò il Berlusconi ter, “concernente proroga di termini in materia di trasmissioni radiotelevisive”.
Epilogo
Dopo il mio ritorno da Parigi, ci ribellammo. Non potevamo e non volevamo fare più quei turni massacranti senza avere nemmeno un po’ di tempo libero per conoscere qualcuno. Chiedemmo altre condizioni, se no ce ne saremmo andati via. Ottenemmo di lavorare solo dalle otto di sera a chiusura ma volevamo, almeno il sabato, smettere a mezzanotte per poi provare a uscire: ci fu accordato. Non successe però niente di eccezionale in quelle serate libere. Un sabato notte, non so come, conosciamo due ragazzi italiani che vivevano da quelle parti. Erano calabresi e ci fecero assaggiare dei prodotti tipici della propria regione che ci lasciarono di stucco. Al rientro nella nostra stanza, io e Ugo ridemmo parecchio.
Poi le cose, piano piano, iniziarono a precipitare. I litigi fra Ugo e Karim aumentavano e si facevano sempre più violenti. A Ugo, Karim non ne perdonava neanche una, mentre con me, anche dopo una grossa stupidaggine da parte mia in cucina, tipo un piatto che esce dal forno e che ti cade in terra, si tratteneva sempre.
Lo strappo decisivo avvenne una sera tardi in cui eravamo già oltre la metà di agosto. Ricordo che io ero su una sedia della sala ristorante ormai deserta, rannicchiato e concentrato nel cercare di capire quello che si stavano dicendo Ugo e Karim, che stavano ferocemente litigando in cucina. Desideravo con tutte le mie forze di sentir pronunciare da Ugo quelle parole, e dentro di me lo incitavo a farlo: “Basta! Mi hai rotto i coglioni, me ne vado!”
Così fu. La montatura di Bruno dei due cugini giocò per me un ruolo fondamentale. Karim non voleva infatti che io andassi via, gli dispiaceva anche per Bruno, mi disse, e mi chiese di rimanere, offrendomi un ottimo stipendio di allora, in marchi. Io gli risposi che se i nostri padri vedevano tornare solo uno dei due, si sarebbero molto incazzati e io proprio non potevo.
Gli anni grigi
A Marina di Grosseto, distante 15 chilometri da dove abitavo, eravamo abituati ad andare con qualsiasi mezzo. Appena arrivato a Grosseto, era un fosco pomeriggio tardo di agosto inoltrato, presi la Vespa e andai a Marina, dove Francesca mi stava aspettando. Era nuvoloso e quell’atmosfera di fine estate aveva in sé già i primi segni dell’autunno incombente, quando gli effetti del cambiamento climatico ancora non si facevano sentire.
Per me gli anni seguenti furono difficili e bui. Come per l’Italia, ma questo dipende dai punti di vista.
A causare una rivoluzione sociale, estetica, culturale, con tutti gli effetti positivi e negativi del caso, fu certamente l’amicizia che legava Craxi e Berlusconi. Il provvedimento Berlusconi ter, convertito in legge il 1° agosto 1985, fu solo uno dei tanti favori che in quegli anni il segretario socialista elargiva al suo amico milanese. Già prima della sua dirompente ascesa al governo del Paese, avvenuta per la prima volta il 4 agosto 1983, Bettino Craxi aveva capito che l’Italia, reduce dalla cappa oscurantista degli anni di piombo, aveva voglia di cambiare registro, di tornare a divertirsi e a godersi la vita. Gli anni della Milano da bere, della pubblicità dell’Amaro Ramazzotti, nascono in pieni anni Settanta intorno allo storico locale Vogue Club di Milano. Craxi era giovane, rappresentava veramente il rinnovamento, lo svecchiamento del socialismo italiano e la sfida all’egemonia culturale del partito comunista in Italia. Un aneddoto racconta che nel 1979, in un incontro ufficiale con Sandro Pertini, primo presidente socialista della Repubblica, Craxi fu rispedito a casa da quest’ultimo perché si era presentato in jeans.
L’era di Bettino Craxi è durata dal 1976, quando divenne segretario del PSI, al febbraio 1993, allorché le pressioni delle inchieste su Tangentopoli lo costrinsero alle dimissioni. Sono stati sedici anni cruciali per l’Italia, in cui Craxi e il Partito Socialista mostrarono interesse per le televisioni private di Berlusconi e misero i presupposti per la sua ascesa politica a partire dal 1994.
Nel 1964 Silvio Berlusconi aveva 28 anni ed era un giovane milanese in rampa di lancio che aveva appena fondato la Cantieri Riuniti Milanesi Srl. Aveva iniziato tre anni prima la sua attività d’imprenditore edìle, costruendo su un terreno acquistato grazie ai finanziamenti della Banca Rasini, la banca milanese dove lavorava suo padre. Erano gli anni del boom edilizio. Le ombre dietro la Banca Rasini fanno parte della storia del nostro Paese, così come le vicende che portarono il Cavaliere all’acquisto nel 1978 di TeleMilano, poi chiamata Canale 5, e di altre stazioni televisive regionali, sparse per tutto lo Stivale. Non si può negare a Berlusconi il merito di essere stato il primo a comprendere il dirompente potenziale della televisione.
Al fine di eludere l’obbligo di avere la concessione da parte dello Stato per ottenere le frequenze su cui trasmettere, Berlusconi aveva fatto organizzare un ponte di auto, treni, elicotteri e aerei per distribuire in tutta Italia le cassette con le registrazioni di 12 ore da trasmettere attraverso le emittenti regionali private che lui si era comprato. Erano tutte televisioni private regionali, ma il proprietario della Fininvest trasmetteva in quasi tutto il territorio nazionale. Il decreto Berlusconi, così come sono chiamati i tre diversi decreti legge presentati dal governo Craxi nell’arco di nove mesi fra il 1984 e ‘85, consentiva alle tre TV private del gruppo Fininvest di continuare a trasmettere su tutto il territorio nazionale. Da lì in poi non ci furono argini per contenere l’avanzata politica e sociale dei “socialisti progressisti” e dei tracotanti anni Ottanta, gli anni di Drive in, della Borsa di Milano e degli spot pubblicitari.
Finale
Il voto di fiducia sul decreto legge 807, detto Berlusconi bis, del 6 dicembre 1984 fu, per usare le parole dell’allora senatore della Democrazia Cristiana Nicolò Lipari, “una nuova forma di eutanasia nei confronti delle prerogative del Parlamento”. Lipari era un duro avversatore del decreto. Altre sue dichiarazioni, rintracciabili nell’archivio online di Repubblica, sembrano oggi alquanto profetiche. “Non c’è un dissenso di fondo sulle motivazioni che ispirano il decreto, ma in questo campo uno sbaglio si paga non in termini economici bensì in termini di valori culturali e morali delle nuove generazioni”.
A Ugo
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