Vedere
Forse perché recentemente è stato l’anniversario della sua morte, forse perché adesso sto guardando il mare, ma continuo a pensare a ‘Questa è l’acqua’ di David Foster Wallace. Lui dice che: ‘Il succo della storia dei pesci è solamente che spesso le più ovvie e importanti realtà sono quelle più difficili da vedere e di cui parlare.’
Sono d’accordo, infatti sarei potuta arrivarci prima, avevo abbastanza prove.
Per esempio quella volta che sono andata a sciare con la mia famiglia. Avrò avuto sei anni. Mio fratello e mio padre erano sulle piste. Mia sorella piccola era malata quindi mia madre era rimasta a casa. Io anche, perché sciare non mi ha mai entusiasmato.
Arrivò il momento in cui gli impianti sciistici stavano per chiudere e mio padre ed Andrea non erano ancora a casa. I cellulari all’epoca non erano molto diffusi e mia madre cominciava a preoccuparsi. Guidammo fino a Planards: non erano lì. Guidammo fino a Les Houces: non erano lì. Le piste del Gran Montée erano troppo difficili per mio padre, quindi l’ultima speranza era a Le Tour. Guidammo fino a lì. Parcheggiammo la macchina e ci dirigemmo verso la brasserie. È lì che li vidi. Non era difficile, mio fratello indossava una tuta da sci gialla e viola e aveva ancora in testa il casco, blu elettrico. Mio padre invece aveva una giacca rosso brillante. Stavano in piedi alla fermata dell’autobus, dall’altra parte della strada, a due metri da noi. Scii in una mano, racchette nell’altra. Li ho visti salire a bordo, dirigersi verso l’ultima fila di sedili, potevo vedere ancora le loro teste mentre il veicolo si allontanava. Mia madre mi tirò per la mano, ‘andiamo a casa’, disse.
Quando ci ritrovammo tutti all’appartamento lei chiese dove fossero andati.
‘Erano a Le Tour’, dissi.
‘Non li hai visti?’ Chiesi perplessa.
‘Pensavo te ne fossi accorta’.
Pensavo te ne fossi accorta è forse una delle frasi che ho pronunciato più spesso.
Se la signora dell’alimentari aveva un neo peloso sul polso era impensabile per me che gli altri non lo avessero notato. Se l’impiegato delle poste succhiava l’aria da un’apertura della bocca che creava tirando le labbra di lato, se la nonna si toccava la zigrinatura dell’unghia del pollice con l’indice, se Giovanni trascinava il piede sinistro, ma non il destro, erano fatti che pensavo fossero noti a tutti.
A Pasqua mio padre doveva corrompermi perché lasciassi trovare qualche uovo anche a mia sorella.
Mia madre mia ha sempre chiamato occhio di lince anche se sono miope da quando ho dieci anni.
Non mi sono mai resa conto che certi dettagli potessero non essere così evidenti per altre persone. Finché non me ne sono resa conto. Non all’improvviso, non come se fosse un’epifania, ma gradualmente, attraverso l’accumulo di prove.
L’ultima delle quali è stato un master in scrittura creativa.
Grazie al corso sono arrivata a capire che ognuno ha il suo specifico modo di guardare le cose e che questo non necessariamente corrisponde al mio.
Ci è stato detto che il motivo per cui ci è stato offerto un posto nel programma di studi è per l’abilità che abbiamo di mettere su carta quello che vediamo, di riprodurre con le parole la nostra visione del mondo. Durante le lezioni i professori continuavano ad incoraggiarci a prestare attenzione, ad osservare, ad essere vigili. Perché la vita filtrata attraverso il nostro sguardo è ciò che ci fornirà infinito materiale per scrivere. Perché senza guardarsi intorno, guardarsi dentro non serve a niente.
Ho finalmente realizzato che ero l’unica a poter vedere attraverso i miei occhi.
Parlare
John Berger dice che il dialogo è un tentativo di verbalizzare come, metaforicamente o letteralmente, tu vedi le cose, e un tentativo di scoprire come lui vede le cose. Ma che succede se qualcuno non è bravo a parlare? Se qualcuno che non ha mai sofferto di nessun disturbo del linguaggio, di punto in bianco balbetta quando parla in un gruppo di persone, che cosa succede se qualcuno, una linguista, sbaglia ad usare i congiuntivi e tempi verbali, arrossisce e stride, se insomma taglia corto e perde il filo mentre parla? Se l’idea di Wittgenstein che quello che siamo in grado di dire marca i confini di quello che siamo capaci di pensare ed essere, fosse da prendere alla lettera, allora sarei fregata.
Sono stata in silenzio per molti anni. Da bambina perché succhiarmi il dito mi sembrava un’attività molto più soddisfacente. Da adolescente perché paralizzata da un’eccessiva, e probabilmente distorta, autocoscienza. Da una parte ero convinta che tutti fossero in grado di vedere quello che vedovo io, quindi perché aggiungere ovvietà al discorso? Dall’altra articolare i miei pensieri in frasi poi pronunciate ad alta voce rappresentava uno stress emotivo troppo forte se comparato alla poca importanza che ai miei occhi avevano le cose che avevo da dire. Non riuscivo a forzarmi a fare tutta quella fatica solo per dire come la pensavo.
‘Stare con te mi fa realizzare quante stronzate dico’. È stato uno dei mille commenti che mi sono stati fatti sul mio essere silenziosa. Viceversa, mi piaceva molto di questo amico, il fatto che lui dicesse ogni cosa che gli passasse per la testa. Fece un’altra osservazione: ‘ Perché conosci così tante lingue se poi non ne parli nessuna?’ ‘Mi piace capire cosa dice la gente’. Ho pensato. Forse semplicemente sono incline ad atti meno performativi di quello del parlare. Magari ho una tendenza a modi di interazione più passivi. Osservare. Ascoltare.
Pensare
A ventitré anni ho iniziato a parlare, eppure il discorso orale non è mai diventato il mio modo di espressione preferito. Scrivere è il modo più naturale di lasciar uscire le parole per me. Lo è sempre stato. La pagina mi dà lo spazio, la solitudine mi dà il tempo per articolare, per districare la matassa dentro la mia testa. Non che questo accada senza sforzo, spesso la mia maniera di scrivere è intermittente e disconnessa tanto quanto i miei pensieri.
Ho sempre sospettato che i miei ragionamenti possano sembrare bizzarri. Per esempio quella volta che qualcuno mi ha chiesto se facessi esercizi, tipo addominali. ‘No, perché mi si è rotto l’aspirapolvere’. Il mio interlocutore ha aggrottato la fronte. Visto che non potevo passare l’aspirapolvere il pavimento di casa mia era polveroso e non mi andava di adagiarmi a terra in mezzo allo sporco per fare gli esercizi. Piuttosto logico, se solo lo avessi spiegato passo per passo.
Considerato che la maniera in cui guardiamo è per estensione anche la maniera in cui pensiamo, o per lo meno le due attività sono strettamente correlate, la scoperta che il mio sguardo sul mondo è unico è mutata in una nuova presa di coscienza. Banalmente simile è stato realizzare di essere l’unica che può pensare nella maniera in cui penso. I sentieri sghembi che seguo per arrivare a certe conclusioni, le associazioni apparentemente dissociate che faccio, i salti di palo in frasca, il ritmo staccato dei miei pensieri è come funziono, è la mia acqua.
Frequentare il master di scrittura creativa mi ha insegnato ad intelaiare i miei scarabocchi di pensiero per far sì che altre persone li possano seguire. Mi è stato insegnato a rendere il messaggio intelligibile anche se arzigogolato, condivisibile senza alterarne la sua natura.
Essere
Mi è stato chiesto molte volte durante il corso di studi, anche quando ho fatto la domanda di ammissione. Mi è stato chiesto dai professori, dagli amici, dagli sconosciuti. Ho sempre risposto con un’alzata di spalle e un laconico: ‘Per capire le cose’. Era vero. Lo è ancora. Ma adesso posso dirlo senza vergognarmi: il motivo per cui scrivo è per capire me stessa. Non raggiungerò mai il mio scopo. È come cercare di capire di che colore è il mare. A volte è celeste, a volte indaco, a volte è verde acqua. Perché verde poi, l’acqua non dovrebbe essere azzurra? No. È incolore, per definizione. Anche io. Per quanto scrivere mi possa pacificare, chiarificare, non arriverò mai al punto in cui potrò dire: ‘Adesso l’ho capito, so chi sono’. Perché le onde, che siano agitate o tranquille, il loro colore dipenderà sempre dal fondale marino, dai raggi del sole, dalle nuvole nel cielo, dagli occhi di chi le sta guardando.
È buffo come allontanandomi geograficamente e linguisticamente sono tornata di nuovo al mare. A questo elemento naturale con cui ho vissuto, fianco a fianco, undici anni della mia vita, che non mi é mai mancato, che non ho mai amato. Una costante, seppur mutevole, presenza che mi ha sempre intimidito, che non ho mai capito.
Mi sono state fatte molte domande nel corso di quest’anno, domande che hanno portato ad altre domande. Ho una risposta sempre valida adesso. Le risposte non devono essere definitive.
Non so di che colore sia il mare, ma oggi sembra trasparente.
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immagine di copertina: Truman Capote – A sangue freedo / screenshot
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