OST è stata per anni una rubrica ideata e curata da Mattia Grigolo per Soundwall Magazine. Ora è su Yanez.
OST racconta i film attraverso le sue colonne sonore.
What name were you given at birth, stupid white man?
Lo sferragliare di un treno a vapore. Un vagone che dondola. Passeggeri. Predoni, cacciatori di orsi, cercatori d’oro, qualche vecchio e un paio di donne. Fucili. Nessun bambino. Il paesaggio che scorre veloce, nudo, bruciato. E’ il Far West. C’è un ragazzo ben vestito. E’ un bel ragazzo, gioca a solitario con delle carte, osserva dal finestrino gli Stati Uniti passare dissolvendosi.
Il suo nome è William Blake.
Un dialogo sbiadito come gli occhi dello strano macchinista che ora è seduto davanti a Blake, iridi del colore del ghiaccio d’Alaska. Poche domande, gesti confusi. Forse una profezia.
Fine.
Inizio.
Why are you helping me?
A bird told me
La prima volta che ascoltai Neil Young fu attraverso il vecchio Technics SL-1900 di mio padre. Il vinile era Harvest e me ne innamorai seppur fossi un ragazzino. Sonorità anticipatorie che presto avrebbero aperto una multitudine di altri varchi discografici e altrettanti solchi in PVC. Harvest era un disco semplice e comunque controverso, in cui si narrava di raccolti e mietiture, ma anche di droga e razzismo. L’armonica e la voce Neil, entrambe limpide come un lago di alta montagna, ne caratterizzavano un country asciutto, popolare e malinconico.
La prima volta che vidi un film di Jim Jarmusch, invece, fu proprio Dead Man, avevo saltato in lungo su tutti i vari Daunbailò, Stranger than Paradise e la trilogia dei primi tre Coffe and Cigarettes datati 86-93. La mia prima prova con il cineasta dai capelli cenere fu entusiasmante e mi nascose nello stomaco il seme di un grande amore; quello verso un certo tipo di cinema dei margini. Disincantato e disinibito.
La leggenda narra che la colonna sonora fu incisa da Neil Young in presa diretta, ed io compresi, che oltre ad Harvest, c’era un altrettanto lato geniale del cantautore canadese: quello dello sperimentatore.
My name is Nobody
Jim Jarmusch trasforma il selvaggio Far West dei pistoleri impavidi e dei misteriosi indiani, in un cammino onirico attraverso lande desaturate, uomini ai margini di una società che stenta ad esserlo, donne fuoriluogo e uomini fuori posto. Cancella i cliché e dissacra le fondamenta dell’esistenza umana e sociale con uno humor nero che si trascina lentissimo al limite del demenziale, prendendosi gioco della famiglia, il capitalismo, la religione e la perdita dell’innocenza. E’ un viaggio visionario e surreale di un uomo già morto in partenza perché troppo debole per il luogo dove ha preso la vita. E’ la possibilità e il destino, la poesia che c’è dietro le anime che divengono dannate.
E’ una cantilena, una ninna nanna e un lamento, è la bibbia con pagine strappate e bruciate. E’ l’amore e la redenzione. E’ una matita che sottolinea la vendetta e la morte, appunto.
Neil Young suona, ad occhi chiusi, con il rumore di un ruscello che diventa gelato, con stivali che schiacciano foglie secche e orme che vengono cancellate dal sentiero, fucili che vengono caricati di polvere da sparo e falò che vengono spenti dal respiro dell’inverno. Neil Young ora apre gli occhi e suona la chitarra, l’organo, il pianoforte e i feedback si sprigionano come scariche elettriche, in quella verità assoluta che solo un sogno vivido può partorire. Talvolta quella musica urla d’interminabili antartiche eco, che si perdono e si riprendono rimbalzando contro la poesia delle immagini.
Il musicista canadese si sporca le mani e l’anima tanto quanto i personaggi delle vicende che Jarmush narra, si trasforma nella poesia di William Blake e nell’innocenza di William Blake e nel viaggio omerico di Nobody.
Si trascinano distorsioni che da soffici diventano artigli e zanne di lupo, sinfonie malinconiche ad attanagliare lo stomaco e a far tremare il dito sul grilletto.
Quest’unico motivo che viene variato in tredici tracce, dove i rumori di fondo e parte della narrazione-recitazione dei protagonisti viene introdotta tra le note e i riff. Oppure, forse, è proprio la sua musica che supporta l’incedere di una cronaca che dondola prima su di un vagone e poi su di una barca.
Non è importate quale sia la strada e non importa se ce ne sia una.
Did you kill the white man who killed you?
I’m not dead. Am I?
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