1.
Si inizia. Sono le 22:30 di un venerdì sera e mentre scendo le scale per entrare nella piccola fermata U-Bahn della metropolitana di Schönleinstrasse, due ragazzi mi sorpassano spediti, entrambi stringendo tra le mani il proprio cartone di pizza fumante. Ad un primo sguardo poco attento, sembra quasi che siano di ritorno da una lunga giornata passata al mare, il fare rilassato di chi ha trascorso il proprio tempo libero con i piedi immersi nella sabbia calda.
Il ragazzo più alto è scalzo, scende i gradini e contemporaneamente mangia la pizza senza fare attenzione a dove sta mettendo i piedi. L’altro invece si sforza di muovere il sedere in modo plateale, come farebbe una soubrette durante il proprio debutto in sala. “Una notte in metropolitana a Berlino” mi ripeto mentre seguo i miei nuovi amici.
Il treno ancora non si vede. Aspettando mi siedo su una panchina di legno verde, rovinata da un numero indecifrabile di piccole bruciature nere: sono i rimasugli delle braci di crack che i tossici abbandonano una volta fumata la propria dose. Accanto a me i due ragazzi continuano a mangiare una pizza molto diversa da quella che noi italiani ci aspettiamo di trovare dentro a quel cartone bianco: è bassa, croccante e farcita di prodotti che sembrano di plastica.
Mi avvicino a loro fingendo di leggere le prime pagine di un libro che ho appena comprato. Osservo incuriosito gli strani atteggiamenti dei miei, forse, futuri compagni di viaggio.
A vederli, i due amici sono esattamente l’opposto uno dall’altro: George è un ragazzo dal tipico viso nordico segnato da piccoli puntini rossi sulle guance. Magro, biondissimo e con gli occhi azzurri, vestito di un’anonima maglietta a maniche corte, pantaloncini da ginnastica, i piedi anneriti dal continuo camminare senza scarpe, perché sì, qua a Berlino c’è della gente che ha deciso di andare in giro scalza per strada. Pedro, invece, è di chiare origini sudamericane ed è decisamente il più eccentrico tra i due: i capelli ricci sono tenuti insieme da un piccolo elastico rosa, i lobi delle orecchie sono attraversati da due dilatatori di legno scuro, sotto alla canottiera bordeaux spunta un reggiseno imbottito che cerca di dare forma a ciò che in realtà non esiste: il petto è interamente tatuato con simboli che ricordano le incisioni di antiche popolazioni. È un ragazzo di circa ventiquattro anni, le spalle larghe e le gambe muscolose, ma al tempo stesso appare più volentieri come una donna, una di quelle a cui piace decorarsi le unghie con lo smalto rosso, indossare i pantaloni corti sopra le calze scure. A Pedro piace gesticolare, tamburellare con la mani sul cartone della pizza, accavallare le gambe ed essere osservata da tutti, il più possibile.
Guardandoli, mi ricordano l’immortalità che si prova quando si è in compagnia delle persone a cui si vuole bene.
Di colpo l’aria alle nostre spalle si sposta: arriva il treno della metropolitana. Io devo andare nella direzione opposta. Appena le porte si aprono, le persone si riversano fuori dai vagoni. Mentre la banchina si riempie di un confuso incrociarsi di individui, Pedro si alza di scatto come se dovesse affrettarsi per entrare, lasciandosi improvvisamente alle spalle il suo immobile amico. Non capisco cosa stia cercando di fare, lo vedo camminare piroettante e sorridente tra le persone mentre George, con in mano la sua ultima fetta di pizza, non riesce a trattenere le risate. È in questo momento che mi rendo conto di quanto semplice sia il legame tra questi due ragazzi, tanto diversi e tanto uniti al tempo stesso. Guardandoli, mi ricordano l’immortalità che si prova quando si è in compagnia delle persone a cui si vuole bene.
Si può urlare, ballare tutta la notte, senza paura di sentirsi offesi dal mondo che ci circonda. I due d’un tratto iniziano ad intonare allegramente un ritornello fatto di suoni inventati e quando in lontananza si sente il fischio dei freni della metropolitana in arrivo, loro alzano lo sguardo incuriositi, ma senza accennare un passo avanti.
Perché i ragazzi non entrano in nessuno dei treni? Quando supero le porte del vagone più vicino mi volto, e finalmente capisco.
2.
La metropolitana si muove in direzione Hermannstrasse: sono le 23.28 di un venerdì sera d’agosto. All’interno del vagone si è subito invasi da un’ondata di frenesia, come una festa mobile che attraversa la città: un forte odore di alcool si mischia a musica, risate, urla. Una comitiva di ragazzi ripete compulsivamente “einsteigen bitte” (entrare prego). Mi volto, un tipo turco sulla trentina fa flessioni su una delle sbarre gialle della U-Bahn U8, mentre con gli occhi cerca l’attenzione di qualche adolescente. Due biciclette occupano lo spazio all’ingresso, si sentono voci ubriache parlare in una lingua che non conosco. Ad Hermannplatz il vagone si riempie ancora di più, delle donne turche si lanciano tra la mischia per non farsi sfuggire quel posto libero che solo un occhio allenato avrebbe potuto vedere dall’esterno. Un uomo stringe un giornale tra le mani, cammina chiedendo “eine kleine spende” (una piccola offerta). È una grande festa, in lontananza si sente il rumore di mani che applaudono al ritmo di una canzone popolare messicana. È come se la notte avesse oscurato le catene che durante la settimana li tiene tutti in silenzio, seri e legati, ognuno al proprio sedile. Ad ogni fermata entra un nuovo compagno di viaggio, in pochi minuti il ritmo è alle stelle.
La mia utopica idea di organizzare il viaggio in modo da seguire un filo logico tra le 173 stazioni della metropolitana, cessa di esistere nell’esatto momento in cui decido di non scendere alla fermata prescelta, così da poter restare il più a lungo possibile immerso in questa contagiosa felicità di massa.
Proseguo. Arrivati a Leinestrasse l’improbabile atleta turco smette di allenarsi e, senza nessuna ragazza al seguito, se ne va sconsolato e solo, perdendosi nella stazione vuota.
Le porte si aprono ed in un istante il vagone si svuota: siamo al capolinea. Le voci si disperdono lungo la banchina, c’è chi raggiunge l’uscita sulla strada e chi corre verso le scale per non perdere la coincidenza con un altro treno in arrivo, diretto chissà dove. Le persone si incrociano, sfiorandosi con lo sguardo, ma senza mai rallentare il passo: è come aprire una gabbia piena di uccelli e cercare, inutilmente, di afferrarne uno.
3.
Non c’è più nessuno. La città intera sembra essersi svuotata, l’orologio segna l’1.15. All’interno dei vagoni uomini e donne deformati in viso da smorfie di stanchezza. Stanno seduti con le teste poggiate agli schienali oppure ricurvi su se stessi, mentre contemplano il vuoto, nascosto oltre le ginocchia.
Il lieve rumore della metropolitana che pattina sulle rotaie è l’unico suono ovattato che riempie il viaggio. Non sento altro che stridii meccanici, di ferro contro ferro, di voci registrate, come una poesia futurista suonata non qui, ma da qualche altra parte.
La felicità e la voglia di festa sono sparite, lasciandosi dietro un muto alone di tristezza. Non ci sono più musicisti e nemmeno sorrisi, il treno porta i segni di una gioia ormai passata. Sul pavimento appiccicaticcio scorrono rivoli di birra a buon mercato, i sedili lo stesso odore di una moquette impolverata da vecchio albergo abbandonato.
Sono ore che sto viaggiando senza pace alla ricerca di qualcosa da raccontare. Ho attraversato gran parte delle linee della metropolitana berlinese: rossa, viola, marrone, arancione, gialla. Ho visto coppie di ragazzi che cercavano di sfuggire al penetrante sguardo degli occhi del mondo. Sono rimasto seduto a lungo davanti ad un ragazzo che mi osservava con occhi indagatori: temevo mi avrebbe staccato la testa se solo avessi provato a professare parola. Ho riso, davanti a un cane che non si dava pace nella sua infinita lotta con una piccola coperta arancione. Ho assistito ad una “lezione”, tenuta da un italiano ubriaco, su “come posare le piastrelle da solo” e ho così scoperto che per rifare il bagno occorrono molte cose: acqua, secchi, spatola dentata, stucco, frattazzo, taglierino, trapano, frusta, ed una grande dose di pazienza. Ho imparato come misurare e tagliare le piastrelle in modo che non si rovinino, come togliere la colla dalle fughe e come far sì che il tutto aderisca come si deve.
Poi un’altra cosa ho capito, ben più importante, e cioè che se sei ubriaco e sei l’unico a parlare, probabilmente all’altra persona non importa assolutamente nulla di ciò che stai dicendo.
Sono passate più di dieci fermate da quando sono salito sul Ringbhan ( la linea sopraelevata che per 37 chilometri si distende intorno alla città). I capelli biondi di una ragazza sono tenuti insieme da un elastico nero. Indossa una canottiera nera, un collarino nero, dei pantaloncini neri e poi, infine, delle calze a rete nere, o meglio, una rete da pallavolo nera arrotolata attorno alle gambe. Sì, è una vera rete da pallavolo, di plastica grossa, e non ha alcuna intenzione di rimanere fissata attorno alle sue gambe. La povera ragazza sembra esservisi incastrata, è come se dopo aver tentato più volte di liberarsene, abbia accettato la situazione con grande filosofia, trasformando il tutto in un vestito.
Poi un’altra cosa ho capito, ben più importante, e cioè che se sei ubriaco e sei l’unico a parlare, probabilmente all’altra persona non importa assolutamente nulla di ciò che stai dicendo.
Fuori è agosto, ma non importa, potrebbe essere febbraio. Buio, freddo e desolazione: un’oscurità che non lascia scampo. Tutto questo mi riporta in mente la mia prima volta a Berlino, con la mia ragazza: senza alcun piano, con pochi soldi in tasca e senza sapere una parola di tedesco.
Suona il telefono. “Tra poco arrivo e porto anche una bottiglia di vino rosso”.
4.
Lo riconoscerei in mezzo a mille quel sorriso perfetto che le riempie il viso. La banchina si è appena svuotata, il treno se ne va, lasciandoci soli in una stazione completamente deserta. Ci avviciniamo a passi lenti, senza staccarci mai lo sguardo di dosso. Siamo una coppia ormai da cinque anni, eppure ogni volta conserviamo quella sfumatura d’imbarazzo tipica dei primi appuntamenti. Siamo ormai a pochi metri di distanza ed è come se non ci fossimo mai separati. Tra le mani stringe davvero una bottiglia di vino rosso. Cerco di ringraziarla, la metropolitana in arrivo ammutolisce ogni parola e ci rinchiude in una bolla d’aria, scompigliandoci i capelli.
Sui vagoni è vietato bere e mangiare, ma a nessuno è mai importato niente. Apriamo il Nebbiolo d’Alba e scopro subito un sapore appagante. “Ho portato un libro, sarà una notte lunga” ride mentre mi guarda, immaginandosi il mio viaggio prima del suo arrivo.“Ho attraversato solo alcune linee, mancano quelle più interessanti”
Ci siamo incontrati alla fermata di Friedrichstrasse, ora la S-Bahn si muove in direzione Westkreutz. Attraversiamo Hauptbanhof, l’immensa stazione ferroviaria fatta di vetro e acciaio, per poi proseguire verso Zoologischer Garten, ancora avvolta da un leggero eco di quella che fu, tra gli anni ’70 e ’90, una leggendaria meta di tossici, spacciatori, prostitute e criminali.
Siamo seduti di fronte e mi perdo a guardarla mentre osserva con un sorriso malinconico la città che le sfila davanti illuminata, laddove, oltre l’ombra solitaria e sconfinata di Tiergarten, in lontananza, Potsdamer Platz appare come gioiello nella notte. Le cime di centinaia di alberi si scuotono, mosse dal vento, come onde nere di un oceano di foglie; nessuna luce le definisce, non si capisce dove finisca la terra e dove inizi il cielo.
Una volta un’amica mi ha detto: “Berlino è il porto dei saluti malinconici”, le persone ci vivono per brevi periodi e se ne vanno, lasciandosi alle spalle le amicizie costruite nel tempo.
Per molti Berlino è solo un’esperienza da vivere a piccole dosi, come un’isola in cui non si invecchia, dove potersi rifugiare alla ricerca della spensieratezza.
Catturato nel ricordo di una città che sto per abbandonare, non mi accorgo che, poco distante, un senzatetto approfitta dei morbidi sedili in moquette per lasciarsi cadere in un sogno ristoratore. Tiene stretta tra le mani una bottiglia di birra da pochi centesimi, ai suoi piedi è poggiata una borsa di plastica contenente gran parte dei suoi averi. Le dita sono annerite dalla sporcizia, eppure non ne sento l’odore. I vestiti sono sgualciti al punto da aver perso ogni consistenza, e sembrano cadere senza peso sul corpo dormiente.
Afferro la bottiglia di vino e ne bevo un abbondante sorso, la metropolitana si ferma, le porte si aprono e la voce registrata rintocca “Zoologischer Garten”.
Una volta un’amica mi ha detto: “Berlino è il porto dei saluti malinconici”, le persone ci vivono per brevi periodi e se ne vanno, lasciandosi alle spalle le amicizie costruite nel tempo.
Improvvisamente il “sognatore” viene risvegliato. Dalle porte è appena entrato un uomo, forse un suo conoscente, che trascinandolo con forza per un braccio gli borbotta parole straboccanti alcol. In meno di un secondo spariscono entrambi, sostenendosi uno sull’altro e continuando a parlare una lingua fatta di suoni incomprensibili. “Cambiamo metropolitana, torniamo indietro e andiamo verso Warschauer Straße” mi suggerisce la mia compagna d’avventure, mentre nella metropolitana opposta alla nostra, tremante, sta entrando un uomo che non dimenticheremo facilmente.
5.
Dondola dondola dondola, e sembra non riuscire a fermare i pensieri che rimbalzano dentro la testa.
Dondola e non riesce a parlare se non con se stesso. La bocca piena di parole che solo lui conosce, come un CD inceppato di una musica sorda.
Dondola e non si ferma, continua a ballare, a tremare sul posto, poiché attraverso gli occhiali scuri per lui è sempre notte.
Il viso è quello di un uomo che porta i segni indelebili di un decadere arrivato prima del previsto. Le labbra sono incorniciate da tagli rossi, morsi provocati dalla stessa bocca a cui appartengono. I denti rimbalzano uno sull’altro, tremano, e continuano a masticare un infinità di parole inesistenti, dal suono agghiacciante.
Dondola e non si ferma, non può fermarsi, perché non ricorda più il significato dell’equilibrio.
Dondola e tra le mani pulsanti stringe una bottiglietta di qualcosa che non è acqua. A piccoli sorsi ne morde una goccia dopo l’altra. I pantaloncini inguinali lasciano intravedere il filo di un perizoma usurato e scoprono il destino di quest’uomo attraverso le gambe scavate da infinite cadute.
Dondola e ha l’odore nauseabondo di un corpo a cui non è rimasto null’altro che il corpo.
Dondola e trema, continua a tremare, come se il diavolo, sogghignante, stesse rosicchiando le corde di un pianoforte interiore.
Dondola, braccia lungo i fianchi, la bocca si apre e si chiude boccheggiante, e ha tutto il fare di un pesce che annaspa su una spiaggia bruciata dal sole.
Si toglie gli occhiali, lo sconosciuto, e sotto i vetri che facevano da scudo ad una realtà troppo reale, viene scoperta l’inquietudine attraverso uno sguardo che non contempla nulla.
Dondola, e mentre esce dal vagone che l’opprimeva, stringe le mani, e le riapre, e le ristringe, e tremante si allontana, portandosi con se la sua prigione.
6.
Hanno il viso duro i tre ragazzi tedeschi che siedono a pochi metri da noi. Parlano a voce alta perché tutti debbano sentire ciò che stanno dicendo. Dal loro zaino uno stereo portatile diffonde della martellante musica techno, ripetitiva come i colpi di una rivoltella, senza sfumature e senza aspettative. Uno dei tre, il più giovane e sicuramente il più strafottente, non riesce a contenere il proprio corpo mentre prova a seguire, senza riuscirci, il ritmo della musica. Biondissimo, canottiera bianca e sguardo intimidatorio, sembra odiare ogni persona, a parte se steso.
Odorano di luppolo e birra, quella stessa birra che gli fa aprire bocca di continuo nei confronti di chi, senza alcuna colpa, decide di guardarli. Fanno la voce grossa con chiunque gli passi a fianco, ringhiando provocazioni insensate, come fossero dei cani randagi, affamati da giorni. E così decido che continuerò ad osservarli, a fissarli con occhio incuriosito, per vedere fino a che punto decideranno di indossare quella maschera da uomini impavidi che mostrano al mondo.
Più ci avviciniamo a Warschauer Straße, più la metropolitana si affolla di ragazzi, tutti giovani e desiderosi di passare una notte di follia berlinese.
Si muovono in modo isterico, con le mani e le braccia teatralmente lanciate in ogni direzione, sorseggiando quel tipo di vodka che ti fa svegliare il giorno dopo con la testa piena di dolore.
Al mio fianco si sono appena seduti due ragazzi che sembra vogliano fare a gara con i tre mastini tedeschi, per chi di loro riesce ad attirare di più l’attenzione all’interno del vagone. I tre “guerrieri” mordono parole di disprezzo nei confronti del mondo, i due ragazzi al mio fianco annaspano per le risate convulse.
Si muovono in modo isterico, con le mani e le braccia teatralmente lanciate in ogni direzione, sorseggiando quel tipo di vodka che ti fa svegliare il giorno dopo con la testa piena di dolore.
Il vagone è ormai carico della stessa energia che avevo incontrato all’inizio del mio viaggio, le persone sembrano atleti che si scaldano i muscoli prima della gara decisiva, pronti ad entrare in uno dei tanti locali della città, a ballare senza cedimenti, fino al giorno successivo.
Warschauer Straße, siamo arrivati. Una volta fuori dalla stazione, il panorama ci porta dentro la vera Berlino. Scrutando l’orizzonte dal lungo ponte che si distende verso Friedrichshain, lo sguardo corre lontano, senza scontrarsi contro i palazzi, le rotaie dei treni disegnano un insieme di linee che sembrano correre all’infinito. L’aria del nord sferra colpi senza tregua ed il cielo, con la sua grandezza, ti fa sentire più piccolo del solito. In lontananza si vede la torre della televisione di Alexanderplatz, verso di noi c’è la Mercedes Benz Arena (il palazzetto dello sport) e dietro ad essa, il famoso Berghain; a sinistra si vede uno dei ponti più belli della città, l’Oberbaumbrücke, fatto di mattoni marroni che vanno a creare due torri in stile neogotico tedesco, una sorta di castello sospeso sopra il livello dell’acqua.
Il suono di una chitarra elettrica che taglia l’aria in lontananza, il rumore di una bottiglia che si frantuma sull’asfalto, “cocaina hashish marijuana?”. Due uomini litigano, barcollando ubriachi, un ragazzo cerca di sfiorare i capelli di una bionda prima di essere intimidito dal fidanzato di lei. Ci facciamo strada tra il viavai frenetico e passati attraverso una nube densa di fumo bianco dall’odore acre, la mia ragazza si affretta verso la seconda entrata della metropolitana: “vieni, seguiamo quel signore” mi dice “io l’ho già visto una volta. È un tipo fuori di testa”.
Le porte della linea U1 stanno per chiudersi, l’uomo che stiamo seguendo continua ad accelerare e rallentare il passo. È vestito con un poncho lungo e un cappello da pastore, porta con sé un flauto, infilato in un contenitore di lana.
Nel vagone iniziamo a parlare. Gli diciamo che siamo entrambi italiani e allora accenna qualche parola nella nostra lingua. “Tu invece da dove vieni?” gli chiedo mentre continua a guardarsi attorno, eccitato. La metropolitana si ferma a Schlesiches Tor e lui scende, di colpo, senza darmi alcuna risposta, restando immobile, subito fuori dall’ingresso. Continua a guardarmi sorridente, gesticolando con le mani, ma appena prima che le porte si richiudano, risale a bordo. “Sud America” risponde.
Non sembra una persona a cui piacciono troppo le domande, così Maria, la mia ragazza, gli dice: “Io una volta ti ho visto suonare”. Lui sorride e senza dare alcuna risposta estrae il suo flauto di legno ed inizia a suonare una musica allegra. Il vagone è stretto, pieno di persone, ma lui vuole muoversi comunque. In molti lo guardano come se fosse un vecchio pazzo con un flauto tra le mani.
Dopo aver fatto un veloce avanti e indietro, si ferma a pochi passi da una delle porte e continua a suonare. Ci guarda e sorride. Le porte si aprono. Le persone escono ed entrano, e mentre lui si sposta a piccoli passi, come se stesse cercando la posizione giusta per non intralciare gli altri, continua a reggere tra le labbra il flauto, senza emettere alcun suono. Tutti sono all’interno del vagone, le porte si stanno chiudendo. Il nostro strano amico si dà una rapida occhiata attorno e , veloce come un animale selvatico, fa un breve passo all’indietro. Senza il tempo di rendersene conto, lui è da una parte e noi dall’altra. Ci guarda. Bussa sul vetro e imita le stesse boccacce che farebbe un bambino che ha appena disobbedito al castigo della maestra.
7.
Sono le quattro e mezza di notte. Il treno della U-Bahn si presenta nel suo giallo sorriderci, come una vecchia amica pronta ad aiutarti.
In bilico tra sogno e realtà, le mie orecchie sono rimaste l’unico ponte capace di collegarmi a ciò che mi circonda. Nulla mi può attaccare, immerso nel silenzio di una metropolitana adesso poco affollata. Mi lascio scivolare un poco alla volta in un sonno già perfetto.
Coperto da un piumone annerito dalla sporcizia, resta fermo, guardando fisso davanti a sè, mentre tutt’attorno sembra essersi diffuso un epidemico rifiuto al respirare.
Passano pochi minuti, a tenermi sveglio non è un rumore di passi, ma la voce registrata di una donna sconosciuta che scandisce: “Kotbusser Tor”, seguita poco dopo dal suono delle porte che si richiudono.
La metropolitana corre, immersa nel buio sotterraneo. Tutto è perfettamente comodo, silenzioso e leggero. Poi, lentamente, qualcosa inizia a cambiare in modo quasi impercettibile: l’odore di fumo di sigarette, di cui la metro era impregnata, viene sovrastato da qualcosa di nuovo. Inizio a percepire qualcosa che mi entra dentro ad ogni involontario respiro e i miei pensieri, in un istante, soffocano in un caldo lago odoroso.
Il fetore è tale da non lasciarmi la capacità di riconoscerlo, talmente greve nella sua invisibile fisionomia da privarsi della possibilità di avere un nome. Ritmicamente, l’effluvio mi si presenta sotto mutata forma, come un susseguirsi di onde ad ogni ritorno più forti. In estremo principio suppongo si tratti di un cane bagnato, poi orina, poi sudore stantio, latte rancido, pesce marcio, merda, l’odore del vaiolo, un miasma. Sento l’aria infetta, bloccarsi, accumulandosi appena dietro la lingua. Aprendo gli occhi mi accorgo che all’interno della carrozza stiamo provando tutti la stessa, tremenda, violazione. Ci copriamo il naso e la bocca con il colletto della giacca, ma il vagone è ormai saturo di quell’irrespirabile esalazione. Le poche persone all’interno del treno sono eclissate nel tentativo di trattenere il respiro. Una ragazza poco lontana da noi tenta più volte di respingere l’istintivo desiderio di vomitare, mentre seduto su di una sedia a rotelle, al centro di tutto, vi è la causa di tale fetore: un uomo che di uomo non ha più nulla.
Coperto da un piumone annerito dalla sporcizia, resta fermo, guardando fisso davanti a sè, mentre tutt’attorno sembra essersi diffuso un epidemico rifiuto al respirare.
Sorpassiamo due stazioni e nessuno si muove. Guardo la mia ragazza e, forse per un senso di perbenismo ipocrita, ci imponiamo di resistere ancora una volta. Come noi, anche altre persone decidono di restare sedute al chiudersi delle porte. Con difficoltà, con grande forza di volontà, riusciamo tutti a sopportare quell’ intossicazione ancora per quattro, interminabili, fermate ed alla quinta, senza esitazione, in massa cambiamo vagone.
Capisco subito di non poter distruggere il ricordo di ciò a cui ho appena assistito. Il mio viaggio è giunto al termine. Mentre mi avvio verso casa continuo a respingere l’aria, nell’inutile tentativo di liberarmi da quella strana malattia che mi ha intossicato. Tossisco e con la lingua mi impegno nel grattare via l’amaro sapore fermatosi in gola, ma nulla, nemmeno il tempo sembra riuscire a debellare quell’odore, ormai fissatosi nella memoria.
8.
Le porte della metropolitana si affacciano alla trafficata fermata di Alexanderplatz. Come al solito, il vagone si svuota, per poi riempirsi ancora una volta.
Io sono seduto al centro di una fila di sedili, tutti occupati, con l’eccezione di un posto, proprio al mio fianco. Davanti a me solo persone con i telefoni in mano, nessuno che accenni a un sorriso. Non si guardano negli occhi, mai, neanche una volta. Viaggiare in U-Bahn di notte è come fare una passeggiata in un cimitero: si è circondati da corpi immobili. Ma i cimiteri nascondono un fascino decadente, mentre le metropolitane sono come una tomba che puzza di sudore.
Quello spazio libero al mio fianco è un lusso a cui non voglio rinunciare.
Le porte si richiudono, e senza esitazione torno a perdermi tra le parole di un libro. Riapro la pagina che tenevo separata con il dito, ma giusto il tempo di ritrovare la frase a cui ero arrivato e quel posto vuoto, subito alla mia sinistra, viene occupato da un uomo. Porta delle scarpe di pelle marrone ed eleganti pantaloni grigio chiaro. “Non poteva aspettare che me ne andassi, prima si sedersi?” penso tra me, mentre torno a farmi piccolo, per non sentire il tocco costante di una gamba che non è la mia.
Sono inviperito, eppure i vestiti di quello sconosciuto accanto a me mi incuriosiscono. Sembrano provenire da un armadio dei tempi passati. Non mi volto per non sembrare scortese, leggere però non è facile. Le parole iniziano a sfuggirmi sotto gli occhi, una dopo l’altra.
Tutto torna: le scarpe su misura, i pantaloni eleganti e la camicia colorata, le mani ossute poggiate sulle ginocchia e persino quel particolare modo in cui si è seduto, qualche istante fa. La mia attenzione è ormai catturata da quei vestiti, del tutto simili ad altri che ho visto qualche mese fa, nel vecchio armadio di mio nonno. Sono passati pochi mesi da quando ho immerso le mani tra quei tessuti, mentre cercavo tra i ricordi, una giacca da portare in questa Berlino che non si decide a scaldare.
Io so che non può essere davvero lui, ma non mi importa e inizio a ripensare a quand’ero più piccolo, quando andavo alle giostre e mio nonno era sempre il primo a voler salire, quando mi insegnava a stuccare e smerigliare i mobili antichi per farli rinascere. Penso all’odore caldo del legno grattato, il chiodo che sparisce dopo un colpo perfetto. Il sapore croccante dell’anguria tagliata a metà e scavata con il cucchiaio, cosi da poterne bere il succo soltanto alla fine. Le canzoni, decine di ritmi goliardici che venivano cantati durante la guerra. Al suo compleanno, ogni anno, mi chiedeva: “sai quanti anni compio? Oggi compio dodici anni” e cosi, da quando l’ho conosciuto, per me lui non è mai invecchiato.
Stringo tra le mani le pagine, mentre mi rendo conto che quest’uomo al mio fianco non saprà mai del segreto potere che sta avendo su di me. Non posso andare avanti a leggere, me non voglio voltarmi. La metropolitana continua a correre, non mi importa più dove sta andando: Moritzplatz, Kottbusser Tor, Schönleinstrasse, Hermannplatz. Finché non scende lui, io resto qui.
Le sue mani restano ferme senza accennare alcun gesto. Vorrei potermi voltare, ma non lo farò. Ho deciso che non mi volterò, perché cosi facendo avrò al mio fianco, per tutta la durata del viaggio, quello che una volta era mio nonno.
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin