Ho quindici anni. La sala della casa dei miei è illuminata solo dalla luce della TV. I colori delle immagini si proiettano sulle pareti e sui mobili e su di me, scivolando come spiriti di luce fredda. Sono seduto sul divano, indosso le grosse cuffie senza filo di mio padre. Mi avvolgono. Dovrei già essere a letto, domani ho scuola. Sto guardando Super Rock, su MTV. Il 1997 è quasi finito, tra poco è Natale e poi è il ’98. Fra due anni è il nuovo millennio e probabilmente tutto finirà e poi ricomincerà. Io avrò diciotto anni e poi avrò una macchina senza aver mai avuto un motorino.
Forse sto cercando di ricordare dove ho nascosto il pacchetto di Diana Blu rubato a mio padre, forse sto pensando a Laura e domani farò di tutto per importunarla e farmi notare e forse presto saprò che gusto hanno delle labbra che non sono le mie.
Comincia un altro video in rotazione: è strano, è come se la prospettiva dell’inquadratura sia quella reale dello sguardo del protagonista. Si vedono le braccia di questo ragazzo, l’interno di una doccia, poi quello di una stanza. Lui che si veste, beve e pippa cocaina. È una cosa che non si è mai vista, una sorta di io narrante in formato video. Appare la scritta in sovrimpressione: ‘Prodigy, Smack my Bitch Up’. Io non so quasi nulla di inglese, ma so cosa significa bitch.
Sono folgorato. La canzone ha un ritmo incessante, ripetitivo, di una violenza disarmante. È qualcosa che si posiziona tra l’elettronica da rave e il punk. Il video continua in una confusa escalation di estremi: il protagonista entra in un club, beve, importuna diverse ragazze, beve, balla, beve, litiga con chiunque, accende una rissa, rovescia la consolle, vomita, entra in uno strip club, beve, provoca, picchia ancora qualcuno e vomita ancora un po’.
Poi cominciano ad apparire i primi seni, le prime natiche.
Il protagonista e una ballerina dello strip club escono, rubano una macchina, vanno a casa e fanno sesso. C’è del sesso vero, su MTV. È una sorta di realtà virtuale ante litteram, almeno per me, che ho quindici anni.
Ho un’erezione.
Nell’ultima scena si rivela il protagonista e non è un ragazzo. È una ragazza.
Per rivedere il videoclip di Smack my Bitch Up dei Prodigy dovrò aspettare diverso tempo, dato che il video e la canzone, da lì a poco, saranno censurati in Inghilterra perché accusati di testi e immagini violente e oscene.
A casa ho internet, ma lo posso usare solo quando c’è anche mio padre. Il modem fa gli stessi versi di un alieno che prova a comunicare. Parla come quel robot piccolo e rotondetto di Star Wars. Oltretutto, per noi che abitiamo in provincia, è tutto più difficile, più in ritardo.
Mio padre torna dall’ufficio e gli chiedo se posso accendere l’internet. Apro Explorer, mio padre ha installato Google, un nuovo motore di ricerca. Digito nella barra la parola Prodigy, poi clicco su Google Search.
Appaiono delle immagini. Eccoli qui, penso.
Il cantante si chiama Keith Flint. Clicco su una foto. Ci mette qualche minuto ad apparire per intero sullo schermo. Il modem continua a lamentarsi nella sua buffa lingua sconosciuta. Sorrido, questo Flint è qualcosa di simile a un punk, ma diverso. Una maschera di trucco nero sugli occhi, un collarino borchiato, i capelli rasati al centro della testa e ispidi tenuti in piedi dal gel ai lati. In alcune foto sono di un acceso rosso fuoco, in altre verde oppure blu.
Scopro che sono in attività già dal 1992, ma che questo album, The Fat of the Land, sta macinando posizioni in classifica, soprattutto con il singolo Firestarter, anch’esso censurato per i contenuti. Lo voglio ascoltare. Voglio che trasmettano il video su MTV, a Super Rock.
Qualche settimana dopo io e mio fratello mettiamo insieme le nostre mance e compriamo il CD.
C’è un gabber che conosco, viene nella mia stessa scuola e gira con una cricca di stronzetti con i piercing sulle guance e i capelli rasati male. Hanno le polo della Lonsdale allacciate fino all’ultimo bottone e le Nike Air Max con il calzino infilato sotto la linguetta oppure le Buffalo. Non siamo amici, perché molti di loro fanno finta di essere nazi e io non sono amico dei nazi. Però ogni tanto scambiamo qualche parola. Una volta gli chiedo “Perché ascolti quello schifo di gabber hardcore?” e lui mi risponde “E tu perché ascolti quell’immondizia dell’hardcore punk?”. Poi un giorno lo sento canticchiare una canzone dei Prodigy e glielo faccio notare.
“Ti piacciono i Prodigy?”
“Scherzi? Sono fortissimi. Come fanno a piacere ad uno come te?”
Solo dopo tanti anni capisco quanto la band di Flint, Howlett e Maxim sia stata la calamita che ha unito culture, mode e realtà generazionali diametralmente opposte; quella dei raver, dei punk, della breakbeat e della drum and bass e sì, perché no, quella pop.
La prima volta che ascolto i Prodigy dal vivo sono quasi trentenne. La sento come un’enorme mancanza. L’Alcatraz di Milano è gremito di gente. C’è un ventaglio di età che va dal teenager al quarantenne. I ragazzini sono carichi di foia, quelli più grandi sono attenti. Io sono emozionato perché, nonostante la convinzione di essere arrivato troppo tardi, so che è un momento che aspettavo da molto tempo.
Maxim è statuario, con i capelli lunghi a cadergli sulle spalle, Flint è solo un po’ imbolsito.
Le fanno tutte. Tutte quelle che voglio sentire, che ho ascoltato prima sul mio CD e poi, con l’avvento dello streaming, sul web. Quando fanno Breathe sembriamo un mare in tempesta. Se ci fosse una nave affonderebbe dentro di noi.
Mi mangio ogni attimo, ogni goccia di sudore che schizza oltre il nostro saltare continuo e dinoccolato, con le mascelle serrate dalla fattanza o dalla cattiveria che la loro musica inevitabilmente genera. È un delirio e mi sento vecchio a trent’anni, perché il fiato non mi regge o forse perché vorrei soltanto tornare indietro, alla notte in cui per la prima volta vidi il video di Smack my Bitch Up o alle decine di volte in cui io e mio fratello abbiamo ballato e pogato in una camera di quindici metri quadrati, incrinando i mobili. Imitando con le nostre espressioni acerbe e foruncolose quel demone clown di Keith Flint, a tirare fuori la lingua e a sbatterla. A fare finta di avere i muscoli e la padronanza dell’inglese.
Quando, durante quello stesso concerto, suonano Out of Space, io piango immobile in mezzo alla gente che potrebbe schiacciarmi, se solo lo volesse. Perché quello non è più un pubblico, è la musica stessa divisa in particelle perfettamente identiche, ma con un’anima propria. Ed io piango, perché quella canzone ha segnato la mia adolescenza, ha cambiato i miei gusti musicali, ha incorniciato dei ricordi indimenticabili.
E a pensarci ora, a trentasei anni, nel giorno in cui Keith Flint se n’è andato in un altro pianeta a cercare una nuova razza, non posso fare a meno di rendermi conto di quanto sia strana la vita che ti ricorda, di tanto in tanto, quanto la musica possa rendere immortali non solo chi la suona, ma anche chi l’ascolta.
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