Questo racconto è stato realizzato quale esercitazione durante il workshop di Scrittura Creativa che Mattia Grigolo e Le Balene Possono Volare hanno organizzato a Francoforte sul Meno, nel mese di novembre 2019
un racconto di Alberta Acri
Mio padre ha la voce roca. Come se avesse sempre la raucedine.
Quando aveva 3 anni ebbe un incidente: un pezzo di pesca sciroppata gli finì di traverso, rischiando di farlo morire soffocato.
All’epoca, quanto la manovra di Heimlich era ancora sconosciuta e gli anni ’50 si affacciavano alle porte, mio padre e la sua famiglia vivevano ad Anguillara Sabazia, sul lago di Bracciano, alle porte di Roma.
Qui mio nonno e mia nonna si erano incontrati per la prima volta pochi anni prima: mia nonna si era trasferita lì per sfuggire agli orrori della guerra e aiutare una delle sorelle più grandi rimasta da sola con un bambino piccolo a cui badare. Mio nonno, il secondogenito di sei figli, studiava all’Accademia militare di Cesano, non molto distante da lì e aveva l’abitudine di fermarsi con un compagno in quel lago per immergersi nelle sue acque e fare il bagno prima di tornare in Accademia. Pause corroboranti e spontanee senza né costume né asciugamano e lasciarsi poi asciugare dalla brezza del lago.
Proprio ad Anguillara Sabazia i miei nonni andranno poi ad abitare una volta sposati e la famiglia si allargherà con la nascita di mio padre prima e di mio zio due anni dopo. Siamo all’inizio degli anni ’50, la guerra è ancora un ricordo vivo nella memoria, tuttavia c’è anche una grande voglia di lasciarsi alle spalle quegli anni terribili e di iniziare una nuova vita.
Purtroppo però la carriera militare costringe mio nonno a trascorrere molto tempo lontano dalla sua famiglia: prima a Firenze e poi a Torino, per cui mia nonna si ritrova a crescere due figli da sola.
Mio padre era un bambino buffo e molto curioso, tanto che mia nonna a volte non ce la faceva a stare dietro a lui e mio zio ancora in fasce. Non è difficile immaginare mio padre, sempre di appetito e vivace, infilare la manina nel barattolo contenente le pesche sciroppate e mettersi in bocca un pezzo intero senza masticare. Come spesso succede con i bambini, basta un attimo: mia nonna probabilmente si era distratta qualche istante per mettere in ordine la cucina. Quando si accorge di ciò che sta accadendo, angosciata e spaventata, nel tentativo maldestro di estrarre il pezzo di frutta maledetto, non fa in realtà che spingerlo sempre più in gola, tanto che mio padre smette di respirare, diventa viola in volto e perde conoscenza.
Mia nonna si precipita fuori di casa portando tra le braccia il corpicino apparentemente senza vita di mio padre, accompagnata dalle altre donne del paese, accorse alle sue grida disperate, per chiedere aiuto prima al sacrestano della parrocchia e poi a quello che una volta si chiamava il medico condotto.
Quest’ultimo, nonostante avrebbe dovuto avere più esperienza, cerca anche lui di estrarre a mani nude quel pezzo di pesca, ma invano. A quel punto interviene suo figlio, giovane studente di medicina, che appena si rende conto della situazione, intima al padre di fermarsi: “Papà, che fai! Non vedi che così peggiori solo la situazione?” e con gesto determinato incide la trachea di mio padre, estrae il pezzo di pesca che ostruisce il passaggio dell’aria servendosi poi di una cannuccia per simulare una cannula tracheostomica, per cui mio padre riprende a respirare. Non resta che portarlo in ospedale a Roma. Mio nonno però all’epoca non aveva ancora la macchina. Così il sacrestano della parrocchia corre a chiamare Maurizio, un ragazzo conosciuto in paese, l’unico in possesso di un’autovettura, una Fiat 500 blu comprata per far colpo sulle ragazze. In macchina, con Maurizio alla guida, il medico condotto e suo figlio, mia nonna e mio padre si dirigono verso Roma, ma al Bambin Gesù, il primo ospedale dove si recano, non c’è posto. Al secondo tentativo mio padre verrà finalmente operato e potrà salvarsi, anche se purtroppo le corde vocali verranno lesionate in modo irreversibile. Si dice che i medici stessi si congratularono con il giovane studente di medicina per il suo intervento decisivo e la storia ha avuto un certo eco mediatico nel paese sul lago di Bracciano.
19 maggio di qualche anno fa. È domenica. Io e la mia famiglia siamo tutti riuniti in un ristorante di Roma per festeggiare con qualche giorno di ritardo il mio compleanno. Tutti tranne mia nonna che purtroppo non c’è più. Mio padre oggi è un medico in pensione con la passione della vela. Membro di un circolo velico del lago di Bracciano, si reca spesso in questi luoghi, a lui così familiari e cari.
Siamo al dolce. Mio padre si alza in piedi. “Vorrei raccontarvi qualcosa. Come sapete, il mese scorso sono andato in pensione. Ora ho più tempo da dedicare alla vela. Pochi giorni fa il guardiano del circolo è venuto a darmi un messaggio da parte del medico che mi ha salvato la vita: ha saputo che vengo spesso a Bracciano, è molto malato e ha espresso il desiderio di vedermi.”
Mio padre è accorso al capezzale di quest’uomo novantenne, che si affaccia al crepuscolo della sua vita e che tanti anni prima era stato un giovane studente di medicina che gli aveva salvato la vita.
“È stato il sacrestano. Il merito è tutto suo. È stato lui a spingermi a intervenire. Sapeva che stavo attraversando un momento di crisi personale e mi incoraggiò ad andare da mio padre ad aiutarlo. Io ero spaventato e nemmeno ci volevo andare”. Queste le parole del vecchio dottore, un uomo modesto, che rispetta alla lettera il giuramento di Ippocrate, la metafora dell’uomo in crisi che sa di non sapere.
Mio padre si commuove parlando di quell’incontro. È probabile che lo abbia immaginato e desiderato per tutta la vita. Non a caso lo definisce “il cerchio che si chiude”: tornare, alla fine della sua carriera, all’origine di ciò che lo aveva spinto a studiare medicina, a diventare anche lui un medico e a salvare altre vite umane, la stessa impresa che qualcun altro aveva prima compiuto con lui. Poter ringraziare la persona che, oltre a salvargli la vita, aveva forse inconsapevolmente anche segnato la sua storia personale, il destino che ognuno si porta con sé. Anche se mio padre non ha quasi memoria di quell’episodio, perché troppo piccolo e, nonostante la cicatrice che gli è rimasta sul collo sia quasi impercettibile, gli basta aprire bocca per ricordare. Non si può dimenticare qualcosa che, nel bene o nel male, fa parte di te da sempre.
Mio padre racconta la sua storia più bella con la sua voce roca. Come se avesse sempre la raucedine. Mentre silenziose lacrime di commozione gli scorrono lungo le guance.
Immagine di copertina di Felipe Schiarolli. / free
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