1.
Odio Milano.
Mio fratello pronuncia le parole a denti stretti, con gli occhi che rimbalzano tra il traffico e il navigatore impazzito qualche metro prima di entrare in Piazzale Loreto. Io lo so quale strada dobbiamo imboccare, ma lui dice che è meglio seguire il Maps.
“Odio guidare dentro Milano” dice.
Mi è venuto a prendere in Stazione Centrale. Sceso dall’autobus in arrivo dall’Aeroporto di Orio Al Serio, recupero il mio trolley dal vano e cerco Enrico stringendo le palpebre per mettere a fuoco il parcheggio di Piazza Luigi di Savoia. Le quattro frecce accese, si guarda intorno appoggiato con un braccio alla portiera aperta, come se, più che aspettare me, controllasse che nessuno lo incastri in un imbuto di lamiere e gas di scarico e parcheggiatori abusivi dai quali non riuscirà a scappare.
Stiamo tornando in provincia, dove abita insieme alla sua compagna e dove vivono ancora mio padre e mia madre.
Siamo nati in periferia sud di Milano, un paesino dal quale, insieme ai nostri genitori, siamo scappati quando io avevo dodici anni e Enrico dieci. Durante la nostra permanenza relativamente breve abbiamo assistito, nell’ordine: ad un’esecuzione all’interno della scuola materna frequentata da mio fratello, all’arresto dei nostri vicini di casa, al ritrovamento di una corposa quantità di cocaina nascosta alla base di un cartello stradale nel parcheggio sotto casa dove, ogni giorno, giocavamo a pallone. Abbiamo segnato nella memoria, come fossero compleanni su un calendario, una serie infinita di risse fra adolescenti e preadolescenti. Non riesco a contare le volte che mio padre è tornato a casa dicendo “stanotte sono entrati ancora nel bar di Guido, hanno sradicato la saracinesca con un cavo di ferro agganciato ad un furgone.”
Quindi ci siamo trasferiti in un posto tranquillo, in provincia, ancora più a sud. Nel deserto della pianura padana.
Abbiamo acquistato un appartamento modesto, abbiamo fatto i nostri sacrifici, soprattutto mio padre e mia madre.
Dopo una settimana dall’arrivo nel nuovo paese, io e Enrico decidiamo di puntare quello che ci sembra il più facile da bullizzare fra i ragazzi nostri coetanei e lo prendiamo a botte. Niente di drammatico, c’interessava far capire che non eravamo arrivati lì per essere gli ultimi. Erano cose che avevamo appreso in quel tipo di periferia dove eravamo nati e cresciuti fino a quel momento. Pensavamo fossero regole generali, come che al semaforo rosso ci si ferma solo se dall’altra parte arriva una macchina, che il casco in motorino si usa solo allacciato dietro la nuca, tipo cappuccio della felpa, e che se arrivano i Carabinieri, chi siede dietro deve coprire la targa con un piede e chi guida deve accelerare e buttarsi nelle strade laterali.
Due giorni dopo il nostro avventato gesto, l’adolescente più grosso del paese, tale Paolino, che aveva la costituzione e i tratti somatici di un lottatore di Lucha Libre, mi picchia fino a togliermi l’aria dai polmoni. Mi lascia lì, a terra, davanti a casa, a cercare da qualche parte il fiato che mi ha rubato.
Quello è il momento in cui comprendo che la provincia non è la periferia, le regole sono leggermente diverse, sfumature che, se hai un minimo di cervello, impari in fretta a regolare.
Ad ogni modo, eravamo dei bravi ragazzi. Avevamo solo bisogno di uscire da una cosa per entrare in un’altra e questo crea sempre una ferita, soprattutto se hai dodici anni e stai vivendo negli anni novanta.
Nel paese di provincia non c’era niente da fare, eravamo tagliati fuori da tutto. Milano era lontana, a quaranta minuti di treno, c’erano solo due bar entrambi frequentati da anziani, un oratorio, due campi da calcio, una Polisportiva. Però si stava bene e la gente era brava gente.
Il primo anno di Università vivevo ancora con i miei genitori, quasi ogni mattina salivo su un treno regionale che in mezz’ora si trascinava fino alla stazione di Rogoredo. Da lì prendevo la metropolitana direzione Duomo, scendevo a Missori e poi a piedi fino alla Statale. Spesso però mi fermavo a dormire da un mio compagno di corso, con cui avevo legato. Paolo viveva in un seminterrato in zona San Babila con un ragazzo greco, Nicos.
Credo che quello sia stato un grande punto di svolta nella mia vita. È in quel minuscolo e buio anfratto che mi sono reso conto di volere lasciare la famiglia.
Paolo e Nicos avevano arredato il seminterrato in modo molto minimale: un divano-letto, un cucinotto scassato, una scrivania, neon blu sul soffitto.
Il loro orgoglio era l’impianto audio collegato al computer. Passavamo notti intere, illuminati dalla luce azzurra artificiale, ad ascoltare e commentare e ammirare i videoclip di Chris Cunningham, i dischi di Aphex Twin e Remain in Light dei Talking Heads. Gli Autechre di Draft 7.30 e i Pink Floyd di Ummagumma. Non riesco a contare le volte che abbiamo ascoltato Hitler in my Heart di Antony and the Johnsons domandandoci di continuo come qualcosa poteva essere così geniale in tutte le sue angolature.
C’era un bagno cieco minuscolo, occorreva scendere tre scalini per accedervi. Loro lo chiamavano l’inferno. Vado a pisciare all’inferno.
Avevano sostituito lo specchio sopra il lavello (sempre che ci fosse mai stato) con una raffigurazione retro-illuminata della Madonna, acquistata dai cinesi a China Town, in zona Paolo Sarpi. La lasciavano accesa al posto della lampadina sul soffitto, così quando si entrava sembrava di essere in un film di Robert Rodriguez.
A volte mi bloccavo con i palmi appoggiati al lavandino, ipnotizzato dalle mille luci che scorrevano intermittenti sulla plastica e il colore e la Madonna a braccia spalancate. Credevo di essere in un sogno. Immaginavo il sogno americano.
Invece era soltanto il mio cordone ombelicale che si staccava definitivamente.
Una notte la Madonna dei cinesi prese fuoco, chissà perché.
Il puzzo di plastica bruciata rimase per mesi.
2.
Il primo vero ricordo che ho di Milano è lo Stadio Giuseppe Meazza, nel quartiere di San Siro.
Mio padre mi tiene per mano mentre camminiamo, sento le sue dita grosse avvolgere le mie fragili. Ho dieci anni, forse meno. Abbiamo parcheggiato la Giulietta 1600 nei pressi della linea metropolitana gialla di San Donato Milanese, un cambio sulla rossa e siamo scesi in Piazzale Lotto.
Ci siamo immersi nel traffico umano di Via Caprilli, costeggiando l’Ippodromo del Galoppo. Le sciarpe neroazzurre, le bandiere flosce appoggiate alle spalle, le magliette di Ruben Sosa e Totò Schillaci. Ricordo l’odore buono soffiato dalle piastre delle decine di Paninari disseminati ai lati del marciapiede.
Mio padre recita la formazione titolare “Zenga, Bergomi, Ferri…”, io lo guardo con il cuore in gola, zampettando emozionato al suo fianco, mentre schivo i cori, i pronostici, le bestemmie della gente, riponendo tutta la mia fiducia in quell’eroe che è il mio papà.
Poi la città si apre come una valle, arriva la luce del primo pomeriggio, fino a quel momento sottomessa ai palazzi che ci circondano, e davanti a noi si staglia il Tempio del Calcio, la struttura più imponente che io abbia mai visto, un Dio di cemento e metallo. Ingloba l’onda umana che scorre ad infrangersi contro di esso. Ingoia nel suo ventre centinaia di uomini, donne. Bambini.
Ho paura e mi blocco lì dove sono, gli occhi, dilatati dal panico, puntati verso l’alto.
Il mostro sembra urlare della voce di tutti quelli che ha divorato: è la Curva Nord che prega e professa la sua fede.
Mio padre si volta e sorride, si appoggia alle ginocchia e mi sussurra solo due parole semplici, che non dimenticherò mai: è bellissimo.
In quel momento tutto mi si scioglie addosso, quell’innocenza incredibile che abbiamo da bambini trasforma il terrore in un Carnevale ed io vorrei volare e tuffarmi dal cielo fin dentro lo stomaco di quella magnifica bestia.
Entriamo.
A chi mi ha chiesto di descrivere l’emozione che ho provato trovandomi sugli spalti, a guardare dal Secondo Anello Arancio il campo, non ho saputo rispondere.
Perché non ho un ricordo preciso di quell’emozione, ho piuttosto una percezione della presa di coscienza di quanto è imprescindibile il luogo di culto per il culto stesso.
Qualcosa di simile mi è successo la prima volta che ho visto, da adulto, Times Square di notte.
Il Meazza non è il tramite fra la fede calcistica e il calcio. Il Meazza è il calcio.
Come credo lo siano L’Olimpico a Roma, Wembley a Londra, il Camp Nou a Barcellona, Il Maracanã a Rio, la Bombonera a Buenos Aires. Non sono solo stadi, sono arene, sono chiese, templi, piramidi, totem, altari. Loro sono le città stesse.
E il Meazza è Milano.
Mio padre si fa largo, affannato dalla scalata delle alte gradinate, fino al nostro settore e ai due posti numerati. Non mi stacca gli occhi di dosso nemmeno un attimo ed io non posso non guardare il manto erboso, lontano sotto di me, le linee perfette tratteggiate con il gesso. Osservo, quasi intimorito, l’orgia di corpi in Curva Nord, alla nostra sinistra. Alzo la testa verso la bocca e i denti di vetro e metallo che sembrano chiudersi sopra di noi, a proteggerci da una pioggia che questa domenica non arriverà mai.
Qualcuno si alza per farci passare. Mio padre pulisce con un dépliant il mio e il suo posto, apre il cuscinetto imbottito, lo appoggia sul mio seggiolino, ne osservo le bande verticali nere e blu, disegnato al centro il biscione che ingoia un uomo. Mi dice siediti ed io eseguo.
Ora ammiro la Curva, è impossibile non guardarla, la guardano tutti. È lo spettacolo prima dello spettacolo e durante lo spettacolo. I cori ancora timidi, cantati da migliaia di gole che sembrano una, le bandiere che danzano senza fermarsi, sfiorandosi l’una all’altra, lambendo come fiamme lo spazio infinito che separa noi dal campo, lì ammassati come un tutt’uno. Un qui e ora e per sempre.
Lo speaker ufficiale detta le formazioni, come mio padre giusto un’ora prima, “Zenga, Bergomi, Ferri…”, ad ogni nome un urlo di un’intensità non calcolabile, che mi arriva addosso con vigore, come un nonno obeso che gioca a farmi rimbalzare sul suo pancione.
Poi entrano le squadre e inizia la messa, la funzione, lo spettacolo. La battaglia.
3.
La mia vita è cambiata tre volte: quando mi sono innamorato di una ballerina salentina e, di conseguenza, mi sono trasferito a Milano, quando cinque anni fa ho lasciato l‘Italia alla volta di Berlino e l’ultima, due anni fa, quando è nato mio figlio.
Sono tre passaggi fondamentali della mia esistenza, tutti a loro modo impregnati di una complessità rara, furba, con cui, volente o nolente, ho dovuto fare i conti.
La differenza più grande che ho trovato tra Milano e Berlino è la velocità e lo spazio. La velocità in relazione allo spazio.
Milano è una città che conosce alla perfezione la sua logica, vive e si nutre del suo potenziale più grande: la gente. È esibizionista Milano, ed egocentrica, di un’intelligenza eccezionale. È forte perché sa che non può perdere. Per questo è veloce, ma corre in spazi angusti, perché di quelli dispone. È composta di ossa che vengono protette come cristallo, perché se si spezzano crolla tutto.
Berlino, invece, è bloccata su se stessa, come un pachiderma conosce i suoi limiti, ma anche la sua imponenza e la sua importanza. Berlino non ha punti deboli per un semplice motivo: non ha nulla da perdere. Quantomeno niente in confronto a ciò che rischia di perdere Milano ogni giorno.
Berlino ti suggerisce di rallentare, prenderti il tuo tempo per pensare. Berlino ti offre lo spazio per fermarti a parlare con te stesso oppure nasconderti.
Milano ti spiega come schivare la gente, come ragionare con velocità. Milano t’insinua la presunzione di poter essere sempre davanti, mai in coda oppure in mezzo.
Una sera un promoter di una nota major discografica mi porta ad una esclusiva sfilata di moda. La presentatrice è Valeria Marini. Nel backstage mi passa accanto. Cade a pezzi. Mi viene in mente il film La morte ti fa bella.
4.
Una notte, io e Riccardo, un amico piemontese, tagliamo in due Milano da una parte all’altra del centro, percorrendola quasi tutta a piedi.
È il 2010, io ho con me una telecamera compatta. Gli dico che potremmo riprendere tutto mentre camminiamo e chiacchieriamo.
Siamo appena usciti da un locale in zona Forlanini, è la Design Week e siamo letteralmente scappati da una di quelle pompose feste open bar ad invito, rasa di americani e giapponesi. Di svedesi e finlandesi.
Ho due Mini DV da 60 minuti, infilo la prima, chiudo lo sportello, rumore metallico, schiaccio REC. Partiamo.
Non inquadro mai Riccardo, punto ciò che ho intorno, immaginandomi quando rivedrò il video insieme ai miei figli, ai miei nipoti. Non facciamo attenzione a ciò che diciamo, non costruiamo nulla. Parliamo soltanto, passeggiando per Milano di notte.
Quando arriviamo in Piazza del Duomo mi accorgo di tre cose: il silenzio, il vuoto e il giallo ocra.
La cattedrale ora si staglia davanti a noi che ci siamo passati accanto, mi viene in mente che mio padre mi ci portò da bambino, salimmo fin dove si poteva, avvicinandoci sempre di più alla Madonnina. È un ricordo sfocato, soffocato da ciò che porta a dimenticare, un ricordo falsato come ce ne sono molti nei cassetti degli adulti quando provano a tornare troppo indietro.
Stanotte la piazza è irrealmente muta, sembra un plastico e noi siamo parte creativa di un’idea architettonica. Siamo l’unica cosa in movimento e ascoltiamo i nostri passi e le nostre parole risucchiate dal microfono della telecamera e rese immortali.
E tutto è di un giallo sbiadito. Se penso all’ocra penso a Milano di notte: le guglie che di giorno sono di quel grigio sporco, come la nebbia, cime di montagna che bucano il cielo nero, incastrate lì per l’eternità, mai un centimetro sopra, mai uno sotto.
La statua di Vittorio Emanuele II, il cavallo e i due leoni ai suoi piedi, congelati in uno spazio-tempo irreale.
La Galleria liscia e profonda che sembra respirare e sembra un esofago che ingoia vita frenetica. Figlia dell’architettura del ferro e madre della borghesia meneghina, per me è parte di altri due ricordi sbiaditi dell’adolescenza: il negozio della Ricordi dove mi fermavo per ore ad ascoltare CD, a guardare copertine, a fare di conto per capire quante mance dei miei genitori sarebbero servite per acquistare uno di quei tesori. E poi il minuscolo baracchino del vecchio cieco che vendeva i biglietti della Lotteria Nazionale, appena dopo la Rinascente, qualche decina di metri prima di incontrare la bocca della Galleria.
Un signore di Cerignola che ha perso la vista perché qualcosa gli è esploso in faccia quando aveva dieci anni. Ho sempre trovato un nesso buffo tra quello che ha fatto per una vita e quello che gli è accaduto da bambino: un uomo cieco che vende la fortuna. Che è cieca.
Mi torna alla mente l’odore delle castagne dentro i coni di carta di giornale, a Natale.
Ci mettiamo circa un’ora e mezza ad arrivare a casa di Riccardo, in zona Solari/San Vittore. Quasi alla meta saliamo su un vecchio tram vuoto, barcolla e sferraglia coprendo le nostre voci, così da lasciare inciso nella mini DV solo un rumore di fondo ad un altro rumore di fondo.
Ci fermiamo nei pressi del carcere San Vittore, lo inquadro e diciamo qualcosa di stupido. È proprio quella sua aurea pericolosa e triste, ma fiera di essere parte integrante della città, che lo rende affascinante. C’è una porticina di ferro, a metà di uno dei muri di cinta. Durante il giorno ci vedi la coda di quelli che vanno a far visita. Passandogli accanto non ti domandi chi siano loro, ma chi siano coloro che stanno andando a trovare e che, allo stesso tempo, stanno aspettando. È strano.
5.
Ho vissuto in molti appartamenti condivisi. Diverse zone di Milano, ognuna con la sua particolarità nascosta, che impari a conoscere lentamente, vivendo il quartiere e annusandolo. Perché Milano ti accoglie a suo modo, quasi pretendendo qualcosa che non puoi comprendere e che, soprattutto, non saprai mai di essere riuscito a dargli oppure no. Perché non te lo dice.
Ho lasciato la provincia andando a convivere con la mia fidanzata e ho lasciato Milano mentre condividevo l’appartamento con un’altra fidanzata.
Nel mezzo di quei dieci anni ho convissuto con tante persone, alcuni non li ricordo nemmeno, mi sono sfuggiti da dentro come è normale che sia, non ho più idea di quali siano i loro nomi e di quanti mesi abbiamo condiviso lo stesso tetto, le stesse stanze, lo stesso bagno, lo stesso frigorifero. Con alcuni di questi ho parlato solo in sporadiche occasioni, con altri, invece, ho tessuto un rapporto che ancora adesso mi porto dentro: relazioni spietate che inondano e dilaniano. Alcuni dei ragazzi con cui ho vissuto sono stati e sono tutt’ora i miei amici.
Dapprima ho vissuto in Viale Monza, in prossimità della fermata Precotto, lì dove il viale comincia a diventare quasi un paesino, a giusto una fermata di metropolitana (Gorla) dal Naviglio della Martesana. Andavo a rifugiarmi in quell’angolo di Paradiso quando sentivo il peso dell’essere lontano da casa, me ne stavo le ore a guardare quelli che facevano jogging, vestiti di tutto punto e impettiti come galli con le gambe. Mi rilassava e mi ipnotizzava.
Ho vissuto in Porta Romana, Corso Lodi, avrei potuto vedere l’arco monumentale dalla finestra della mia camera, se non fosse che dormivo in una stanza minuscola, spoglia come una cella, che dava sulla corte interna. Durante il giorno entrava così poca luce che dovevo affacciarmi alla finestra della sala (da dove effettivamente riuscivo a scorgere l’arco) per capire cosa indossare prima di uscire.
Gli anni migliori di pluriconvivenza sono stati nell’enorme appartamento di Via Giambellino 56. Quando sono arrivato ad abitarci c’era solo Antonio, un calabrese di Catanzaro al quale mi affezionai molto. Si rivolgeva a me con l’appellativo di Nuz, il diminutivo di nutria. Lavava i piatti solo con l’acqua bollente, senza sapone. A vederlo sembra un orco con un unico rasta incastrato chissà come tra la folta chioma corvina. In realtà è una delle persone più intelligenti e acculturate che io abbia mai conosciuto, potevo restare ore ed ore ad ascoltare quello che aveva da dirmi senza distogliere l’attenzione nemmeno un secondo.
Qualche mese dopo venne a vivere con noi una ragazza di Maracaibo, di lei ricordo poco, tranne che si pippava cocaina in quantità mostruose a qualsiasi ora del giorno e della notte. Era una fotografa o forse una modella. Forse era entrambe.
Quando lei se ne andò, perché Antonio la cacciò senza mezzi termini, arrivò Valentina, una fiorentina bellissima e matta come un cavallo. In quel periodo noi tre legammo come fossimo fratelli. Lei aveva lo stesso bisogno che giusto un paio di anni prima avevo avuto io: imparare da Milano cos’era Milano.
Il Giambellino è uno dei quartieri migliori della città, questo lo so per certo. Nasce da Zona Solari (storicamente famosa per accogliere ogni anno tra le sue braccia la settimana del design milanese) e scivola via fino in periferia, spegnendosi in Piazza Tirana.
Giambellino è il quartiere del Cerruti Gino, quello cantato da Giorgio Gaber, oppure quello descritto dalla storica voce punk milanese di Marco Philopat nel libro Nella tana del Drago. Quindi la Giambellino degli immigrati italiani di ritorno dalla Francia, alloggiati dal Duce nel quartiere, che hanno iniziato l’era urbanistica di una zona rimasta fino a quel momento figlia delle campagne circostanti. La Giambellino della Resistenza e delle collaborazioniste del fascismo rasate a sfregio in Piazza Tirana, e poi quella della prima malavita popolare milanese, la ligera, e subito dopo quella del criminale Francis Turatello, acerrimo rivale di Vallanzasca.
Ancora la Giambellino del gruppo maoista Luglio 60 cacciato dal Pci, delle associazioni cattoliche e delle prime riunioni delle Brigate Rosse alla Trattoria Bersagliera in Piazza Tirana e nella biblioteca di Via Odazio che diventerà, da lì a breve, la più importante piazza di spaccio d’Europa.
Infine la Giambellino dell’immigrazione, dei terroni e degli zingari, degli extracomunitari e dei vecchi immigrati che diventano i nuovi insofferenti borbottoni.
Quando ci vivevo io, Giambellino era un quartiere popolare, con i suoi pregi e i suoi difetti, era lo spaccato di una Milano ingenua, cresciuta con più dubbi rispetto a come la si vede dall’esterno. Oppure, forse, ero soltanto io e quello che rappresentavo in quel contesto durante quel periodo.
Poi mi sono trasferito in Isola, ma di questo parlerò più avanti.
Prima di lasciare Milano ho vissuto alcuni anni in Città Studi, prima in Dateo e poi in Piazza Piola.
In Dateo ho vissuto con diverse ragazze di cui non ricordo il nome e il volto e poi con Julia che deteneva l’affitto e il potere dell’appartamento. Una ragazza molto intelligente, per metà italiana e per metà africana, amante della vita notturna come lo erano tutti coloro che frequentavo in quel periodo.
La finestra della mia camera dava su una via interna, silenziosa, tranquilla. In una palazzina, dall’altra parte della strada, ogni sera un’adolescente dava spettacolo delle sue grazie, chiusa nella sua camera a finestre spalancate d’estate e tende aperte in inverno, consapevole che io ero lì a guardarla.
Non ho mai amato la zona di Dateo, troppo residenziale, troppo silenziosa, monotona, tranquilla, splendente di una luce fastidiosa.
Qualche mese dopo andai a vivere con Giulia in Via Donatello, una delle vie che si diramano dalla rotonda di Piazza Piola. È con lei che mi sono trasferito a Berlino, con lei che ho avuto un figlio e con lei che condivido il nostro appartamento nel quartiere berlinese di Neukölln.
Ho vissuto in Città Studi nel periodo in cui già meditavo di lasciare Milano, il gasolio era finito ed io sognavo luoghi lontani.
Ricordo però con piacere la trattoria siciliana sotto casa, lo strano proprietario che era quasi un rocker più che un ristoratore. Il suo strano accento misto, il suo ego.
Una sera mi invitano a casa di questo ragazzo, organizza eventi a Milano, si chiama Ale Tilt. La sua coinquilina ha una granata tatuata sul dorso della mano. Dice di essere una giornalista.
6.
Il quartiere di Isola è il luogo di Milano che ho amato di più.
Una notte un transessuale mi ferma mentre sto tornando a casa.
Sono da solo a piedi, attraverso la rotonda di Piazzale Segrino per immettermi in Via Ugo Bassi, probabilmente di ritorno dal Tunnel Club di Stazione Centrale.
È quell’orario impreciso e sfumato che sta tra la notte e l’alba, quando la prima non può più essere considerata tale e la seconda non si è ancora schiusa.
È sudamericano, probabilmente brasiliano, e credo sia alto il doppio di me, tacchi compresi. È un gigante.
Ce ne sono altri due insieme a lui, hanno le chiappe appoggiate al cofano di una utilitaria sporca, sicuramente di loro proprietà. Lui è più distante, sulla mia direzione di marcia.
Mi guardano tutti e tre mentre passo con le mani in tasca, la schiena curva, il cappuccio tirato sulla fronte.
Lui mi chiede come sto e io non rispondo. Mentre mi allontano dopo essergli passato accanto, mi dice di non spaventarmi che non è una tigre. Poi dice: “Forse sì, sono un po’ una tigre.” E a me viene da sorridere, ma continuo a camminare direzione Ugo Bassi.
Allora lui mi dice se ho bisogno di accendere e a me viene in mente che da quando sono partito ho la sigaretta tra le labbra senza poterla fumare perché non ho con me l’accendino.
Mi fermo, mi volto e dico sì. Lo dico perché ho voglia di nicotina, ma anche perché sono uno curioso. A volte penso di essere il più curioso di tutti, ma probabilmente è soltanto il mio ego.
La fiamma illumina il suo volto liscio, gonfio e truccato, di gomma.
Mi chiede se voglio scopare, gli dico che no, non voglio scopare.
Vivi qui?
Sì, sto tornando a casa.
Dove abiti?
Ugo Bassi.
Anch’io vivevo qui.
Gli altri due trans, poco distanti, urlano qualcosa che non comprendo.
Mi dice che Isola, fino a qualche anno prima, era il posto dei transessuali e dei reietti. Probabilmente non usa la parola reietto, ma quello è il senso.
Poi ci hanno cacciati e hanno fatto entrare gli hipster, gli artisti, i cantanti. Sei un cantante?
No, sono uno qualsiasi.
Noi vivevamo più giù, vicino alla stazione di Porta Garibaldi.
Indica i due trans dietro di lui.
Parliamo ancora qualche minuto, mentre fumo, poi chiede se sono sicuro di non volere scopare.
Gli dico che sto andando a dormire.
Grazie per l’accendino.
Nei primi del ‘900, Isola era la Casbà de Milan, quartiere popolare diviso dal resto del mondo da un ponticello di metallo sopra una ferrovia, rimasto per sessant’anni l’unico collegamento con Zona Garibaldi, e da due fiumi (poi interrati): il Seveso e la Martesana.
Un quartiere emarginato e costruito per la classe media, ma adottato in toto dalla classe operaia. Gli appartamenti piccoli, a ringhiera, oggi orgoglio di quegli artisti di cui il trans mi accennava. L’isola, prima focolare della Resistenza partigiana milanese, poi sobborgo malavitoso, tana degli emarginati, ma anche centro vivo di una specificità culturale rara.
E poi nuovo trend dell’hype milanese, meta del turismo sfrenato, orgogliosamente voluto da un Ministro Moratti che sapeva cose che non poteva dire e che, volutamente, è diventata capro espiatorio di un processo conclusosi con l’Expo e con il post-Expo.
La Stecca degli Artigiani, demolita nel 2007 e il Centro Sociale La Pergola, sgomberato il 30 gennaio 2009. Due fra le realtà culturalmente più importanti della città vengono annullate per fini politici.
Mi ricordo ancora l’ultima festa in Pergola a porte aperte, l’addio.
C’erano centinaia e centinaia di persone. Temevo che i pavimenti del secondo piano cadessero da quanta gente c’era. Immaginavo, allora, che la sua fine doveva essere così: implosa con tutti noi dentro.
Sarebbe stato incredibile. Ma meglio di no, in fondo.
Ho amato Isola perché mi ricordava il paese di provincia: le botteghe, i vicoli stretti che tengono lontano il grande traffico, il Blue Note, mecca del jazz e del blues milanese, il mercato del sabato, così tranquillo e caotico nel medesimo istante, il Frida, il bar dove tutte le cameriere sono scontrose e tu non sai perché, ma ci torni sempre e alla fine ti piace. La gastronomia indiana davanti al Frida, che vende birre in bottiglia da 66cl a prezzi stracciatissimi. Dammi una flebo.
La Piazzetta, come la chiamano i ragazzi, ovvero Piazzale Carlo Archinto che, alla sera soprattutto nel periodo estivo, si trasforma in un luogo di ritrovo all’aperto, come può essere proprio quello di paese.
Alioscia dei Casino Royale che mette dischi alla Pergola Move, mentre alle sue spalle vengono proiettati spezzoni del TG1.
7.
Se hai un’età compresa fra i 18 e i 40 anni e, parlando di Milano, dimentichi di citare la sua nightlife, significa che la città non l’hai mai vissuta veramente.
Io la Milano da Bere me la sono goduta fino in fondo. Ci sono andato dentro con tutti i piedi, mi ci sono tuffato a candela come in un pozzo nero profondo di petrolio che qualcuno ha scoperto e poi ha lasciato lì a marcire, invece che trasformarlo in soldi.
Perché la Milano da bere è proprio quella cosa, una sirena che canta e che poi ti lascia in un angolo della strada, sporco, solo e ubriaco.
Anche Berlino è così, ma lo fa con molta meno spocchia e furbizia. A Berlino lo sai che non ne esci vivo.
Se penso a The Passenger di Iggy Pop, non penso a Trainspotting, ma al London Loves, il venerdì del Plastic, quando ancora si trovava nella sua sede storica, in Viale Umbria.
Per due anni non ho fatto altro che infilarmi in quella coda scomposta e confu-visionaria, che prendeva spunto da quella ben più famosa – e ordinata – del Berghain a Berlino. Il concetto era simile: chi può entrare? Chi piace a me.
Solo che all’ingresso del Plastic i bouncer non erano frigoriferi vestiti di nero e nani con i tatuaggi in faccia, ma due omosessuali vestiti da fatine della notte, in perfetto stile milanese, che si piazzavano all’ingresso con delle cartelline in mano ed osservavano, sentenziavano, dicevano sì oppure no e noi tutti lì sotto, ad aspettare il nostro bocconcino, la possibilità di entrare nel corridoio oscuro che portava nel cuore nero del Plastic.
Se penso al Leoncavallo penso al suo odore e alla sua voce indistinguibile. Per molto tempo il Centro Sociale di Via Watteau è stato una sorta di padre putativo di un qualcosa che ancora non riesco a spiegare. Forse di un figlio degenere quale ero per lui.
L’odore del Leo è qualcosa che non puoi dimenticare, ti si appiccica ai ricordi e ai vestiti. Durante il giorno, in giro per Milano, nei parchi o in centro, puoi sentire il profumo o il tanfo di quelli che sono stati più di una volta al Leo.
È l’odore di quel tipo di Rivoluzione che oggi non esiste più, che probabilmente è rimasta solo lì, adesa alle pareti dello Spazio Pubblico Autogestito Leoncavallo, ma non più a riempirne l’aria. Forse è anche giusto così.
Il Leo è il mio papà e lì dentro sono diventato grande: con la musica, con le parole, con i ciloom, con i discorsi, con gli jambee suonati dagli africani nel giardino della Foresta d’estate, quando tutto si mischiava e niente aveva una logica se tu decidevi che non doveva averla. In fondo questo mio padre putativo era lì a guardarmi, più grosso e più alto di tutti, ad inglobarci e ascoltarci con braccia e orecchie e una coscienza di cemento, con quella sua voce, che era le barre serrate della drum and bass e dell’hip hop che rimbalzavano sporche sulle spalle, che tutto reggevano e tutto reggono, anche ora, che sono lontano e non vado a fargli visita da molto tempo.
Se penso alla Stazione Centrale penso a quello che c’è nascosto sotto. Il Tunnel, con le sue pareti sudate e alcuni tra i concerti più pazzi che mi è capitato di ascoltare nella mia vita: ho sentito il Truce Klan quasi al completo, che non riuscivano a stare sul palco tanto erano fatti, sembravano un’installazione, sembravano un demone con il prurito, che rideva come un bambino mentre scoreggiava fiamme hip hop. Ho messo dischi prima di un incredibile concerto dei Death Grips, sono convinto di aver fatto il set migliore della mia vita: a metà della performance salgono sul palco due amici MC e fanno freestyle su una mia traccia acidissima. Finisco, tutti applaudono ma non per me, perché, giustamente, stanno per iniziare i Death Grips. Io scendo, un amico si avvicina, mi guarda e mi dice: “Bellissimo il set. Davvero. Peccato che si sentisse solo nelle prime due file.” Buono.
Se penso al Tunnel Club penso al bar dei cinesi di Via Sammartini, lì di fianco, a poche centinaia di metri. Vorrei ricordarmi il nome, perché se non lo conoscete (e se è ancora aperto) ci dovete andare assolutamente. Rigorosamente di notte, non prima delle 23.00, altrimenti rischiate di perdervi il meglio.
Fatevi fare il loro famoso Gin Tonic gigante a 2 euro. Uno spasso.
Mi manchi bar dei cinesi di Via Sammartini.
Se penso alla mia adolescenza penso al Deposito Bulk, se penso ad uno dei luoghi culturalmente migliori di Milano, ucciso letteralmente, dai milanesi e da quel loro essere così spregevolmente snob, penso alla Casa 139, se penso ai miei momenti migliori e ai miei momenti peggiori, penso al Circolo Magnolia. Se mi sforzo di pensare alla cosa più anticonformista che mi viene in mente, penso al The Black la domenica sera. Se penso al rock ‘n’ roll, ai jeans skinny, al cartello ‘Vietato Ballare’ ai lati di un dancefloor dove 200 persone stanno ballando, allora penso al Rocket Club di Via Pezzotti.
Se penso a Milano di notte, penso a quante notti non ho dormito, a quanto alcol ho ingerito, a quanta gente ho conosciuto, baciato, dimenticato, amato. Perché Milano, più di qualsiasi altra città d’Italia – sì, anche più di Roma – ha la capacità, la costanza e soprattutto la voglia, di non lasciare mai andare i suoi Lucignolo.
A differenza di Berlino che è un lecca-lecca inesauribile, Milano è un Paese dei Balocchi che ogni mattina si mette a lavorare sulle cose serie. Fino alle 18.00, orario di Aperitivo. Taaaac.
Durante la Design Week del 2013, organizzo, insieme ad altre realtà musicali della scena milanese, un dj set di Sasha Grey. Prima della serata andiamo a cena tutti insieme, noi, lei, il suo ragazzo, il suo staff e alcuni amici. Ci insegna come si fa un blow job perfetto, mimandolo davanti ad una Pizza Margherita.
8.
Percorriamo una strada che mi sembra sconosciuta.
Glielo domando.
“È una strada nuova, c’è da qualche anno. In questo modo la Via Emilia all’altezza di Melegnano è libera dal traffico anche nell’ora di punta.” risponde mio fratello.
Poco dopo ci rituffiamo, come attraversando uno Stargate che si prende gioco dei miei ricordi, nella stretta strada di campagna che conosco a memoria. Potrei guidarci a fari spenti su questa strada, e forse l’ho anche fatto, quando ero un impertinente ragazzino neopatentato.
Abbasso il finestrino dalla mia parte, giusto due dita, lascio che l’aria della campagna mi si soffi sul volto e addosso, nei pensieri.
Sono sempre stato convinto che c’è un odore per ogni cosa e questo è l’odore di casa, quella punta di fetore d’immondizia proveniente dalla discarica a qualche chilometro da qui, che va a mischiarsi all’odore delle cascine circostanti, nascoste dal buio e dal niente della pianura padana.
C’è una sensazione per ogni odore e questa è la sensazione di quando sai di non poter essere in tutti i posti contemporaneamente, ma in questo ci sarai per sempre, ogni giorno, finché vivrai.
Perché questo non è un posto qualsiasi, questo è l’unico posto in cui mi sento, paradossalmente, sempre protetto.
Entriamo nel parcheggio davanti alla piccola palazzina bordeaux a tre piani.
Mia madre sposta la tenda della finestra e mi saluta con la mano, mi sorride. Conosco quel gesto a memoria.
Casa.
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Barnaba Ponchielli è innanzitutto milanese. Poi è anche un giornalista, un fotografo, un musicista, un dj, un promoter, un talent scout, uno che di musica ne sa a pacchi. E un brav’uomo.
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Immagine di copertina: Galleria Vittorio Emanuele vista da Piazza del Duomo / 2010
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