Quando torno a casa da scuola mia nonna è affacciata alla finestra, parla con la signora di fronte. Tra le mani stringe la corda legata al cesto di vimini che pende a circa un metro dalla strada. Il salumiere sotto casa è ancora aperto, seduti fuori sui motorini, alcuni dei ragazzi del quartiere si sfottono ad alta voce. Abitiamo a via Monti, il posto dove crescerò e che lascerò a diciannove anni. Enzo esce dal negozio e si avvicina al paniere, ci mette dentro una busta con la spesa, saluta mia nonna e lei ringrazia. Tira su la cesta a più riprese, fino al terzo piano, e rientra in casa. Arrivo al grosso portone di legno marrone scorticato dal tempo e sempre aperto. Lo spingo ed entro nell’atrio freddo. In certi punti, la vernice delle pareti è rigonfia come di una schiuma pulverulenta che è colpa dell’umido. La dissolvo con le dita e ci provo gusto. Gli edifici antichi del centro storico sono quasi tutti costruiti in pietra di tufo. Sembra che respirino.
Oggi è sabato, io ho tredici anni ed esco con la mia amica Valentina. Siamo in classe insieme dall’asilo e abita poco distante da me. “Ti chiamo quando scendo”, ci siamo dette. Sono forse le cinque: in pochi secondi compongo il numero sul telefono a disco della SIP, dato in dotazione con l’allaccio. L’indice scorre veloce e lo conosce a memoria “pronto c’è Valentina? Sono Serena”. “Si, aspetta”.
Ci incontriamo dove le nostre strade si dividono. Scendiamo giù per la discesa ripida e curvosa che è via Monti. Devi sapere bene come guidare, come imboccare le curve, dove parcheggiare, o puoi creare un ingorgo di ore. Teatrale per natura, come un paese dentro la città. Estratto della familiarità, la provincialità e il pregiudizio, di una città piccola del sud Italia. Dai balconi delle nostre case si vede tutto il golfo. La lunga terrazza con la balaustra in pietra è la cosa più bella del nostro appartamento in affitto, c’è un balcone anche nella stanza dove dormiamo io e mia sorella. Di fronte solo un grosso albero, il mare si appropria del resto. La strada è chiusa, non porta da nessuna parte, i tossici la percorrono fino in fondo per andarsi a fare. In cima, c’è la minuscola chiesa della Madonna del Monte, che dà il nome alla strada, perché in realtà via Monti è solo come la chiamano tutti. Da lì, parte il sentiero che porta sulla montagna di San Liberatore. Quando non abbiamo migliori alternative, ci andiamo per una passeggiata il lunedì di pasquetta. Il cioccolato delle uova di Pasqua rotto in grossi pezzi, stretto dentro la carta stagnola, i contenitori di plastica con le rimanenze del giorno prima, la soppressata già tagliata a fette. Noi in tuta sportiva dai toni pastello.
Ci sono posti dove gli adulti ci dicono di non andare. Prendiamo la scorciatoia che chiamiamo le scalette e in pochi minuti ci spingiamo in fondo alla strada. È pomeriggio, in giro c’è gente, i negozi aperti, la scuola ormai spenta. Schiamazzano nell’aria motorini e cani, qualcuno urla il nome di qualcun altro. A Largo Campo ci allunghiamo alla fontana dei pesci a bere, saliamo un paio di gradini e poi sulla punta dei piedi per arrivare al getto. La piazza è il cuore del centro storico, che da sempre mischia le vite di gente modesta, morti di fame e storiche famiglie benestanti o un tempo aristocratiche.
Riprendiamo a camminare e intanto mettiamo insieme i soldi, poco più di duemila lire. Arriviamo a via Portacatena e ci fermiamo dalla signora delle sigarette. Seduta, come sta sempre. Davanti a lei, un fuoco che brucia in un barile di ferro, una coperta di lana le copre le gambe, il volto è amaro e rugoso. Ci assicuriamo che in giro non ci siano facce conosciute e domandiamo. “Un pacchetto di Merit”. Lei alza la coperta da un angolo e pesca. Ci rivolge mezza occhiata ma mai la parola, indaffarata con qualcosa di più serio dentro i suoi pensieri.
Da poco, a Salerno, hanno aperto il primo McDonald’s. Il re dei fast-food americani è venuto a donare una ventata esotica alla provincia. Le parole chicken, cheeseburger, Happy Meal si trascinano goffe dentro bocche che ne ignorano il senso e non si fanno domande. In fondo a cosa serve, il box con sorpresa te lo danno comunque. Una mania per ragazzini, famiglie, e la perfetta location per feste di compleanno. Noi ci andiamo a fumare.
Il bagno è al piano di sopra, entriamo sempre separatamente per non attirare l’attenzione. Dentro siamo vicine. Lo spazio è quadrato e senza finestre, con le pareti e il pavimento ricoperti di lastre lucide color antracite, ai miei occhi sofisticato. Apriamo avide il nostro pacchetto di contrabbando comprato a metà e prendiamo una sigaretta a testa. Siamo certe di aspirare.
Prima che i negozi chiudano, dobbiamo tornare a casa. E’ la soglia entro cui Salerno resta per lo più un posto sicuro. Quando le luci si spengono, delinquenza e degrado si insinuano negli angoli bui della città.
Nel decennio degli ottanta, primi novanta, Salerno è malandata nella personalità e nell’aspetto, l’aria è pesante. Le sue strade sporche e disordinate. Così come il popolo. Indisciplinato, conservatore. E’ il frutto di anni di non-governo. Il terremoto dell’Irpinia, che ha scosso le vite. Alcune case del centro restano danneggiate o disabitate a lungo. Svuotate del proprio volgo. A sostituirle, conglomerati di palazzine popolari per lo più in periferia. Quello che chiamiamo “Villaggio dei Puffi” rimarrà a lungo un triste ammasso di containers. Nel piano seminterrato della nostra scuola elementare, vivono famiglie di terremotati, li vediamo stendere i panni fuori, quando qualche volta salgono sopra, nei bagni. A noi bambini raccomandano di stare attenti. Furti e scippi non fanno notizia. Le cosiddette “Chiancarelle” è dove spaccio di droga, prostituzione e intrighi omosessuali, si sostituiscono alle attività commerciali. Ma quello che è logoro di notte riconquista vita di giorno. Basta un’occhiata al golfo, il mare, i colori e gli odori del cibo, la vitalità di mercati e botteghe. Il sole torna a splendere e il popolo è sarcastico quanto basta.
Mia sorella Giovanna ha due anni in più di me e ora ha un ragazzo con la moto. Un paio di volte sono andata con loro a vedere la Salernitana allo stadio. Questo stesso anno, non so bene per quale motivo, mio nonno ci ha regalato l’abbonamento annuale in curva sud. È l’inizio del campionato 93-94, la Salernitana di Delio Rossi allenatore, Pisano, Chimenti, Grimaudo. Sarà forse l’unica volta, che canterò i cori ultrà a squarciagola con il braccio alzato, conoscerò a memoria la formazione di una squadra e crederò nel calcio.
Alla partita ci andiamo in motorino. Se siamo fortunati troviamo un passaggio per me, altrimenti si va in tre. Quasi tutti vanno in tre allo stadio, non si lascia a piedi nessuno. Poi senza un posto di blocco non ti fermano mai. Il parcheggio dei motorini è un ammasso indistinto di ferraglia, da dove non puoi uscire se non ti liberano gli altri. Troviamo un buco per il mezzo e andiamo a piedi verso l’ingresso. Hanno messo delle nuove inferriate fuori alla curva sud, perché nessuno scavalchi. Balaustre di ferro lunghissime e verticali, messe strette una accanto all’altra. Ma qualcuno che si arrampica, attaccato a ventosa mani e piedi, c’è sempre.
Noi ci mettiamo sotto, al centro, dove il capo ultrà è Cicciorocco. Tutti bevono birra, fumano, si sgolano. Gli sguardi e i corpi tesi sopra calci esperti, al goal si intrecciano. La folla esplode in avanti e tutti cadiamo due o tre gradinate più in basso. Chi va a finire nel fossato, che isola il campo dalle invasioni, forse si fa male davvero. Le partite sono esaltanti, la squadra è una bomba. Alla fine del campionato la Salernitana sale in serie B ed è una festa esagerata.
Io e Valentina siamo anche nello stesso liceo, ma in due classi e sedi diverse. Di solito ci incontriamo alla fine delle lezioni, quando gli studenti di tutte le scuole si riuniscono in una piazza del centro per ciarlare, perdere tempo. Oppure alle assemblee d`istituto, o quando il liceo è occupato e regna l’anarchia. In pratica, tutti gli anni nel periodo che precede il Natale.
Stamattina facciamo filone, ci siamo messe d’accordo ieri. Lei ha un Sì della Piaggio color granata che, quando non si accende pedalando, va spinto da dietro. Se non dà più segni di vita, sono le candele. Andiamo agli scogli prima di Maiori, in costiera amalfitana, lì nessuno ci conosce. Spariamo un mucchio di cazzate, fumiamo sigarette, ce ne stiamo per ore di fronte ad un celeste immenso, finché non è ora di tornare a casa. Non esiste il tempo, solo il limite.
Quando nel 1993 il sindaco di Salerno Vincenzo Giordano viene coinvolto nel processo di
Tangentopoli (dal quale verrà poi scagionato), l’allora vice-sindaco Vincenzo De Luca prende il suo posto. Nello stesso anno, viene eletto a furor di popolo, e lo sarà di nuovo per i tre mandati successivi. Inizia l’era De Luca.
Controlli a tappeto, riqualificazione delle aree in crisi, delle infrastrutture, incremento delle politiche sociali, una raccolta differenziata impeccabile. Lui stesso gira per le strade della città per ammonire gli sgarri. Lo sceriffo, lo chiamano tutti.
Il rispetto della cosa pubblica diventa prioritario, lì dove era inesistente. Quando sfila la processione del santo patrono, i cittadini non applaudono più la statua di San Matteo, ma il sindaco. Megalomane, grottesco, ghettizza gli immigrati, promuove un’omologazione culturale in maggioranza spicciola, intollerante verso tutte le realtà alternative e di controcultura, sono solo alcune delle cose che mi sento di criticargli. Ma il suo merito sarà quello di cambiare la mentalità dei cittadini, almeno in parte. Di rivoluzionare, in qualche modo, le sorti di Salerno.
È sera ed esco. L’aria calda di un’estate precoce mi liscia la pelle adolescente e la cute tra i capelli rasati a zero, agita i vestiti, mentre guido il motorino che adesso condivido con mia sorella, e che funziona già male a causa di un incidente. Corro sulla strada che costeggia il lungomare e mi fermo all’altezza del Bar Nazionale. L’area pedonale è occupata da centinaia di motorini parcheggiati, e per trovare un posto è sempre un’impresa. Ci sono punti di ritrovo che tutti conoscono, questo è uno. Una massa di persone che parla ad alta voce, dentro cui riconosci sempre qualche volto. Resto per una birra, mangio qualcosa. Il mare partecipa con scrosciare ritmico e costante, ci parla di cose lontane attraverso il vento. Ci fa promesse rassicuranti. A volte la strada è l’unica buona alternativa e noi ce la prendiamo.
Mi sposto all’Alcool Caffe. Il bar che per primo ha acceso le notti di Largo Campo, e nutrito lo spirito di almeno due generazioni. Una provocazione della seconda metà degli anni ottanta, se guardiamo al frangente. Nella piazza di Largo Campo, col buio, la gente ha paura di andarci. Un giorno apre un bar che risponde con espressione artistica e buon gusto. Il fermento culturale sfida l’oscurantismo e procura qualcosa d’intenso.
Molti, per la prima volta, si identificano in un’idea, chi pretende di essere libero, opportuno, non giudicato. Arte, cultura, politica. La musica dal vivo. La piazza gremita di gente e la convivenza di generazioni, volti e stili non omologati al resto. Non importa chi sei, questa è una zona franca per tutti.
Lascio il motorino lì davanti ed entro. Incontro mia sorella, degli amici. Alle pareti i quadri smunti di una mostra temporanea. Portiamo l’alcool in bicchiere fuori con noi, e ci sediamo sullo scalone in pietra all’esterno, qualcuno rolla una canna. In sottofondo le note di Bleed the Freak di Alice in Chains. Il piazzale pullula di corpi quando arriva la camionetta della guardia di finanza a farsi strada, da qualche tempo presente troppo spesso, a causa delle risse. Alla cinque del mattino la piazza è semivuota, come noi qualcun altro non ha ancora voglia di tornare a casa, di rientrare nella vita stretta. Il bar è ancora aperto, dispensa ancora alcool, la musica ancora suona e questo ci basta.
Oggi scendo dall’aereo Berlino-Napoli Capodichino e la boccata densa e umida dell’aria mi sbalza indietro nel tempo in un istante. Dall’aeroporto a casa guido io. Mia madre siede dietro perché teme la mia guida sportiva, a mio padre basta che non superi il limite di velocità nel tratto Angri-Nocera Inferiore, dove l’autovelox funziona. Mi accorgo di essermi disabituata alle montagne. Rubo secondi alla strada, per posarci gli occhi di tanto in tanto, come le vedessi per la prima volta. Esco allo svincolo di Vietri Sul Mare per evitare il traffico o forse per la fretta di godermi la scena infinita che appare da quel punto.
Gli annosi palazzi appaiono eleganti. E’ il 23 di dicembre e tra due giorni è Natale. Ovunque decorazioni luminose si accendono a intermittenza, i ristoranti e i locali sono saturi di corpi agghindati . Si gode la gioia del momento e del consumo. L’Alcool Café non esiste più. A Largo Campo e nei vicoli del centro storico non si riesce a camminare, tanta è la folla. Salerno è distinta, turistica, viva. Non per questo più emancipata di un tempo. Finché avrò vita, la mia città.
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Alcune delle foto che utilizzate in questo articolo sono state prese dal gruppo Facebook Salerno nella Storia, che ringraziamo.
REDAZIONE
Wale Café
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