di Mattia Grigolo
Chi è quello nella foto?
Quello?
Sì.
Quello è Maradona.
Ero ancora un bambino quando Diego Armando Maradona si è preso sulle spalle il Napoli ed è diventato il figlio e il padre e il santo di una città intera. Ho iniziato ad apprezzarlo dopo, cresciuto e consapevolmente fiero dell’eredità calcistica lasciatami da mio padre. L’ho ammirato come un alieno del calcio e odiato come un crudele dio avversario.
Non ho mai avuto la fortuna di vederlo giocare dal vivo e mi dispiace, perché ho sempre avuto la consapevolezza che fosse in grado di spostare l’intero stadio, letteralmente, dove i suoi piedi desiderassero che si spostasse. Non era Diego a dribblare gli avversari, erano il campo e il pallone che assecondavano gli scarpini e le gambe di Diego.
La verità, però, è che Maradona non è mai stato un alieno e nemmeno un dio. È stato il calciatore più forte di tutti i tempi, ma prima di questo è stato un uomo. Maradona è stato il calcio nella sua perfezione artistica ed è stato un uomo nella sua necessaria imperfezione.
Potrei stare qui a cercare la struggente ode tra i contorni della sua esistenza, senza averne realmente il diritto, perché lo hanno fatto e lo faranno tanti altri, che c’erano dove io non c’ero e che hanno visto quello che io non posso avere visto. Però ho un ricordo molto bello, perché fa parte della mia infanzia, prima di tutto, e perché credo possa raccontare meglio di un requiem qualsiasi chi fosse Maradona per la sua gente. Non so se è un ricordo completamente reale o se gli anni, la memoria e la malinconia lo hanno colorato un poco. Ma non importa, in fondo.
Siamo a Formia, nella casa vacanze di lontani parenti di mia nonna. Io e mio fratello li conosciamo per la prima volta. Siamo scesi dal nord per l’estate. C’è Creusa, una ragazza bellissima e molto più grande di me. La guardo come se fosse una principessa delle fiabe, però vestita di una canottiera bianca e jeans slavati. Mi accarezza i capelli accovacciandosi davanti a noi seduti sul divano. Ci chiede se vogliamo acqua e limone. Noi scuotiamo timidamente la testa. Mio padre sposta le valige facendo spola dal bagagliaio della Giulietta 1.6 alla stanza per gli ospiti. Creusa gli chiede se siamo passati da Napoli a trovare la zia Susetta.
Appoggiata su un vecchio mobile di legno laccato di bianco c’è una foto incorniciata. Ritrae un ragazzo dai capelli folti e neri-neri, sorridente e con le braccia sollevate al cielo. Indossa una maglietta da calcio azzurra. Chiedo con un filo di voce, probabilmente per prendermi l’angolo di attenzione che mi è sempre sfuggito, chi sia quel ragazzo. Creusa si volta verso il mobile, indica, poi mi guarda e risponde.
E chi è Maradona?
Maradona è Napoli.
di Mauro Mondello
Quand’ero bambino io tifavo per il Milan, e il mio supereroe si chiamava Marco Van Basten. Certo è strano, a pensarci adesso, che un ragazzino siciliano tifasse per una squadra di Milano, ma che ci vuoi fare? È sempre stato così, per noi meridionali: in assenza di sport nella nostra città, andavamo a cercarci i miti lontano lontano, lì dove tutto sembrava più colorato.
Mi ricordo che nell’estate del 1990, a luglio, mio padre aveva affittato una casa a Porto Palo, vicino Menfi, da un suo collega. C’era un mare diverso dal nostro, lì nell’agrigentino. C’era la sabbia e non le pietroline e poi potevi camminare dentro l’acqua perché si toccava a lungo, mentre da noi a Messina, dopo pochissimi passi, si precipita come in un pozzo. Una stradina di terra battuta collegava la via d’asfalto con la spiaggia, ai lati una sequenza disordinata di villette abusive, nella tradizione classica dei villaggi di mare in Sicilia. Avevo 7 anni e non mi ricordo poi molto di quelle due settimane: le viti in alto, sulla veranda della casa accanto; mio padre che se ne va la mattina e rientra alla sera e con mia sorella aspettiamo che la Fiat Tipo, al ritorno, imbocchi il vialetto; mia madre che parla con Margherita, la moglie di Mario (il collega di mio padre), alle due del pomeriggio, mentre noi dovremmo dormire. E poi mi ricordo una partita di calcio, giocata alle 8 di sera di un martedì caldissimo e napoletano.
C’era un signore di cui parlavano tutti quanti e che avevo già sentito nominare. Era un po’ piccolo e tozzo, un moro forte, la faccia dura, addosso una maglietta a strisce verticali bianche e azzurre. Maradona, lo chiamavano. La partita non me la ricordo, ma andò a finire che l’Italia uscì ai calci di rigore e la gente di Napoli, che a quell’uomo piccolo e tozzo con la maglia biancazzurra lo amava assai, in fondo non era troppo triste. Mi rimase impresso lo scoramento dei grandi che, lì in Sicilia, si erano messi a guardare la partita alla televisione, sulla terrazza. E i pezzi d’anguria mi ricordo, e le mani appiccicose mentre Bruno Pizzul della Rai dice che da Napoli arrivano “immagini che non avremmo mai voluto commentare”.
Non sapevo, allora, che avrei imparato ad amarlo, Diego Armando Maradona. L’uomo, soprattutto, anche più dell’atleta. L’essere umano sbagliato, insicuro, doloroso, travolto e travolgente. Il Maradona a cui dei soldi non è mai importato niente. Quello scostante e presuntuoso, ignorante e tronfio, ingrato e cattivo. Ma sempre lui, sempre lo stesso. Meravigliosamente poetico in ogni singolo istante della sua esistenza, coraggiosamente politico in un universo di mediocrità, ininterrottamente pronto a combattere in difesa delle cause perse, contro i potenti di ogni genere e classe. È stato un uomo bellissimo, Diego Armando Maradona. È stato l’infanzia che se ne va dal corpo, ma resta infinita dentro il cuore, un’anomalia perfetta arrivata sul pianeta terra con un pallone in mezzo ai piedi e una missione: regalare a milioni di persone una felicità mai vista e poi mai più ripetuta, un riscatto intimo, silenzioso, lunare. Perché Diego Armando Maradona, con la sua sovrannaturale tracotanza, ha riempito di dolcezza l’anima minima di migliaia di esistenze.
Que vueles alto, barrilete cosmico. Hasta siempre Diego.
“¿Sabes toda la felicidad que nos dio a los pobres? A veces ni para comer teníamos…pero prendías la tele y él te hacía feliz.”
“Sai quanta felicità ci ha regalato, a noi poveri? A volte nemmeno avevamo da mangiare…però accendevamo la televisione, e lui ci faceva felici”.
(Tifoso argentino del Boca Juniors, Buenos Aires, 25 novembre 2020)
di Francesco Somigli
È tempo di ammetterlo: io Maradona lo conoscevo poco. Ed è un’ammissione di piena colpevolezza, avrei avuto tutto il tempo per conoscerlo mentre era ancora vivo. Non so esattamente perché dato che conosco a memoria e nei minimi particolari le carriere di giocatori che hanno avuto meno di un decimo della classe di Diego. Perché questo disinteresse involontario? Cercando di farmi ordine in testa potrei incolpare il fatto che il momento di splendore della sua carriera sia avvenuto quando ero ancora abbastanza piccolo e disinteressato al calcio. Ovviamente sapevo chi fosse Maradona e ricordo nitidamente i tardi pomeriggi delle domeniche passati a vedere i gol della serie A su “90° minuto” (quello vero, quello con la sigla lisergica); nella televisione a tubo catodico dei miei nonni, sulla mensola alta della cucina, passavano le corse di Van Basten e i baffoni biondi di Völler. E ovviamente anche Diego, ma non ero capace di distinguerlo bene. Era uno dei tanti (beata superficialità infantile).
Quando ho cominciato a vedere le partite dei campionati esteri, qualche anno dopo, Maradona era già un ricordo di sé stesso: ero sbalordito nel vedere questo omino tarchiato, dal fisico tutt’altro che atletico e dalla pancetta pronunciata, giocare praticamente da fermo e fare comunque meraviglie. Mi sembrava di assistere alla partita commemorativa di un ex campione, solo moltiplicata in eterno. Ho quindi conosciuto meglio il suo lungo addio piuttosto che la sua risplendente gloria.
E poi ho questi flash indelebili del Maradona-uomo, che fugge di notte, come uno qualsiasi, da una città che l’aveva adorato. O quando si fece fotografare stravaccato in una vasca da bagno a forma di ostrica gigante accanto a due boss della camorra. Oppure ancora quando, gonfio e trasandato, venne praticamente preso a manate dai poliziotti argentini durante il suo arresto per detenzione di droga. Come sei finito così, Diego? Me lo chiedo io, se lo sono chiesti tutti. Te lo sei chiesto anche tu, durante un’intervista con Emir Kusturica: “Che giocatore sarei stato se non avessi tirato cocaina?”. Mi piace immaginare che saresti rimasto comunque un campione, ma forse un uomo meno tormentato.
L’immagine che ho più nitida del Maradona-giocatore è quella della sua esultanza ai Mondiali di USA ’94 dopo un gol alla Grecia: scambio rapido Balbo-Redondo-Maradona-Redondo e palla di nuovo a Diego, tiro dal limite dell’area e gol. Ma che dico? Un fantastico gol! E questo già basterebbe, ma dopo aver segnato Maradona corre forsennatamente verso una telecamera a bordo campo, con il collanone dorato fuori dal colletto slabbrato della camiseta albiceleste, gli occhi fuori dalle orbite, espellendo un urlo di rivalsa che nessuno ha mai udito, coperto dalle parole dei telecronisti e dal fragore delle stadio. Dietro di lui arrivano immediatamente Batistuta, Chamot e Simeone, tutti e tre con lo sguardo di chi si trova al cospetto una leggenda vivente. È il momento del ritorno dunque, a 33 anni Diego è di nuovo grande.
Pochi giorni dopo, alla fine della partita contro la Nigeria, viene sorteggiato per l’antidoping. Mi ricordo anche di quella scena, della passeggiata sul campo mentre tiene per la manina un’infermiera che lo sta accompagnando a farsi il test; Diego sorride, è sicuro di sé e io lo sono di lui. Stavolta niente trucchi, è rinato davvero, l’Argentina vincerà il mondiale e sarà gloria.
E invece no, Maradona ritorna ad essere così umanamente imperfetto da diventare reale, quasi tangibile. Maradona siamo noi quando, ubriachi fradici, beviamo l’ennesimo bicchiere di vino. O quando facciamo la sei di mattina in giro con gli amici e dobbiamo lavorare alle otto.
Penso di aver trovato la risposta al mio dubbio, alla fine: più che dal giocatore, forse sono stato incuriosito dal Maradona-essere umano.
Ho ammirato il paradosso dell’eroe di due mondi finito costantemente nella polvere (in ogni senso) che poi si è rialzato, ricoperto di gloria e ricaduto di nuovo, più rovinosamente di prima. Mi ha affascinato l’eccesso di chi già aveva qualsiasi cosa, non si è accontentato e ha esatto sempre di più, pur avendo chiaro che gli sarebbe costato tutto.
Maradona sapeva benissimo di essere Maradona, per questo non gliene fregava un accidenti di niente. Era così grande che poteva permettersi di giocare una partita di beneficienza con la scritta “NO DRUG” stampata a caratteri cubitali sulla maglietta.
Ma che fa? È scemo? Ma non si rende conto… Certo che se ne rendeva conto, solo che lui poteva. Nessun altro.
Diego è riuscito anche in un’ultima non facile impresa: tirare le cuoia prima del suo nemico/amico e arcirivale Pelè, che pure vive con un piede nella fossa da molti anni. Ha battuto sul tempo il brasiliano, entrando in anticipo nella leggenda. Sarà il primo a cui verranno dedicati stadi postumi, vie nelle città e forse poemi epici.
“Maradona è megl’ e Pelè!”. È stato vero fino all’ultimo minuto.
REDAZIONE
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