Da un’idea di Paola Moretti
Illustrato da Lorenzo Farris
Le lumache, vittime designate dell’infanzia, insieme a lucertole, gechi, ragni, formiche e farfalle. Che siate state voi, le cuginette o i fratelli maggiori, qualcuno si è macchiato le mani con delitti spietati: bruciare le formiche con la lente d’ingrandimento sul muretto, mettere il sale grosso sul dorso delle lumache per guardarle liquefarsi, staccare la coda alla lucertola per vedere come continua a muoversi anche monca. Esperienze comuni, formative? Il primo contatto con la morte e la crudeltà? L’infanzia è un tempo in cui si ritorna, un passato idealizzato di quando la coscienza era ancora pura, o l’origine di ogni tormento adulto, è un territorio che la letteratura continua a esplorare – fauna inclusa- in cui compare la lumaca: indifeso sfogo di violenza, capro espiatorio di ogni male. Abbiamo preso giardini, lumache e creature striscianti dalle fervide menti di Italo Calvino, Michele Mari, Michael Pollan e Jeff VanderMeer per riassemblarli nel nostro mash-up letterario a tema.
Il prato davanti alla casa di mio padre, non falciato, era un chiaro messaggio rivolto ai nostri vicini e a suo suocero, ma all’epoca ero troppo piccolo per afferrarlo bene. Capivo che era motivo di un certo attrito tra i miei genitori, e ne sapevo abbastanza per provare un vago imbarazzo. Il conformismo è una cosa che i bambini sembrano cogliere quasi istintivamente, e il fatto che il prato davanti alla nostra casa fosse diverso da tutti gli altri mi dava la sensazione che la nostra famiglia fosse strana. Forse però, non era il prato incolto il segnale che più mi avrebbe dovuto allarmare, bensì, in primo luogo, le tendenze di mia sorella Battista.
Il suo animo tristo si esplicitava soprattutto nella cucina. Era bravissima nel cucinare perché non le mancava né la diligenza né la fantasia, doti prime d’ogni cuoca, ma dove metteva le mani lei non si sapeva che sorprese mai potessero arrivarci in tavola: certi crostini di paté, aveva preparato una volta, finissimi a dire il vero, di fegato di topo, e non ce l’aveva detto che quando li avevo mangiati e trovati buoni; per non dire delle zampe di cavallette, quelle di dietro, dure e seghettate, messe a mosaico su una torta; e i codini di porco arrostiti come fossero ciambelle; e quella volta che fece cuocere un porcospino intero, con tutte le spine, chissà perché, certo solo per farci impressione quando si sollevò il coprivivande, perché neanche lei, che pure mangiava sempre ogni razza di roba che avesse preparato, lo volle assaggiare, ancorché fosse un porcospino cucciolo, rosa, certo tenero. Infatti molta di questa sua orrenda cucina era studiata solo per la figura, più che per il piacere di farci gustare insieme a lei cibi dai sapori raccapriccianti. Erano, questi piatti di Battista, delle opere di finissima oraferia animale o vegetale: testa di cavolfiori con orecchie di lepre poste su un colletto di pelo di lepre; o una testa di porco dalla cui bocca usciva, come cacciasse fuori la lingua, un’aragosta rossa che nelle pinze teneva la lingua del maiale come se gliela avesse strappata. Poi le lumache: era riuscita a decapitare non so quante lumache e le teste, quelle teste di cavallucci molli molli, le aveva infisse, credo con uno stecchino, ognuno su un bignè e parevano, come vennero in tavola, uno stormo di piccolissimi cigni. E ancor più della vista di quei manicaretti faceva impressione pensare dello zelante accanimento che certo Battista v’aveva messo a prepararli, immaginare le sue mani sottili mentre smembravano quei corpicini d’animale. Il modo in cui le lumache eccitavano la macabra fantasia di mia sorella, mi aveva spinto a una ribellione, che era insieme di solidarietà con le povere bestie straziate, di disgusto per il sapore delle lumache cotte e d’insofferenza per tutti e per tutto.
Anche mio fratello Felice sembrava nutrire lo stesso odio, se non uno più feroce ancora, nei confronti dei gasteropodi polmonati soprattutto quelli sprovvisti di conchiglie. Figlio di primo letto di mia madre, Felice era ben più grande di me e non andava d’accordo con mio padre. Il suo aspetto era tutto il contrario del nome: lo caratterizzava qualcosa di informe, così nella corpulenza perennemente insaccata nella stessa tuta bluastra come nel volto, complicato da una cicatrice che collegava il ciglio dell’occhio sinistro al ciglio del labbro, da una vasta voglia color vinaccia, e da tutti i porri il cui aggetto era bilanciato dalla cavità delle ulcere vaiolose. Sgradevolmente lacrimosi aveva gli occhi, con palpebre quasi incollate dalla resina come per una congiuntivite cronica: fenomeno che se non altro gli conferiva un’aria pensosa e concentrata, come di chi affissi il pensiero a metafisiche lontananze. Io, per qualche ragione lo amavo di quell’amore puro che conoscono solo i bambini per gli sfortunati. Tentai di portarlo dalla mia parte nella ribellione, avevo architettato un piano. Come il Cavalier Avvocato portava a casa un canestro pieno di lumache mangerecce, queste erano messe in cantina in un barile, perché stessero a digiuno, mangiando solo crusca, e si purgassero. A spostare la copertura di tavole di questo barile appariva una specie d’inferno, in cui le lumache si muovevano su per le doghe con una lentezza che era già un presagio d’agonia, tra rimasugli di crusca, strati d’opaca bava aggrumata e lumacheschi escrementi colorati, memorie del bel tempo dell’aria aperta e delle erbe. Quale di loro era a capo proteso e corna divaricate, quale tutta rattrappita in sé, sporgendo solo diffidenti antenne; altre a cruccio come comari, altre addormentate e chiuse, altre morte. Per salvarle dall’incontro con quella sinistra cuoca, e per salvare me stesso dalle sua imbandigioni, una volta avevo praticato un foro nel fondo del barile e da lì avevo tracciato, con fili d’erba tritata e miele, una strada il più possibile nascosta, dietro botti e attrezzi della cantina, per attrarre le lumache sulla via della fuga, fino a una finestrella che dava in un’aiuola incolta e sterposa. Il giorno dopo, quando ero sceso in cantina a controllare gli effetti del mio piano, e a lume di candela avevo ispezionato i muri e gli anditi, una qui! …E un’altra qua!…E questa, dov’è arrivata! Già una fila di lumache a non lunghi intervalli percorreva dal barile alla finestrella il pavimento e i muri, seguendo la mia traccia. Presto lumachine! Fate presto, scappate! Non avevo potuto trattenermi dal pensare, vedendo le bestiole andare lemme lemme, non senza deviare in giri oziosi sulle ruvide pareti della cantina, attratte da occasionali depositi e muffe e ingrommature; ma la cantina era già buia, ingombra, accidentata: speravo che nessuno potesse scoprirle, che avessero il tempo di scappare tutte.
Invece, quell’anima senza pace di mia sorella Battista, percorreva la notte tutta la casa a caccia di topi, reggendo un candeliere, e con lo schioppo sotto il braccio. Passò in cantina, quella notte, e la luce del candeliere illuminò una lumaca sbandata sul soffitto, con la scia di bava argentea. Risuonò una fucilata. Tutti nei letti sobbalzammo, ma subito riaffondammo il capo nei guanciali, avvezzi com’eravamo alle cacce notturne della monca di casa. Ma Battista, distrutta la lumaca e fatto crollare un pezzo d’intonaco con quella schioppettata irragionevole, cominciò a gridare con la sua vocetta stridula: “Aiuto! Scappano tutte! Aiuto!” Al chiaror delle torce tutti si misero a dar la caccia alle lumache per la cantina. Scoprirono il buco nel barile e lo richiusero.
Chiesi a Felice se voleva aiutarmi con un nuovo piano, più efficace di quello precedente, ma lui per tutta risposta fece: “Puàh!” sputando a terra, e nel rimirare la saliva densa notò una lumaca, corrugata da solchi paralleli e regolari, di un rossiccio che tendeva del boleto, alzò la vanga che teneva nella destra e con un colpo preciso dimidiata l’ebbe sotto i miei occhi. La lumaca si contorceva ancora un attimo: poi stava. Tutto il vischioso lucore le rimaneva dietro, perché la scissione presentava una superficie asciutta e compatta che il colore viola-marrone assimilava al taglio di una bresaola in miniatura. Poi Felice ritrasse la vanga e ne passò la lama tra due dita, come a nettarla di una poltiglia che esisteva solo nella sua testa. “Lümàgh frances!” e nuovamente esplose un bolo di saliva come il precedente scaracchio, mancando solo di qualche centimetro il cadaverino.
“Sun stracch, che ne podi pü de sta storia… podi no lassà perd e vadavialcü?”
“Certo che puoi, se è quello che vuoi, ma non è una bella cosa mangiare lumache un giorno sì e l’altro pure!” risposi io sapendo che anche lui era contrariato da quella pietanza, benché non provasse per gli animali, la mia stessa compassione.
“Te gh’ee resún, ma adess basta, mi voi a durmí, s’il te plait.”
“S’il me plait?” risposi con costernazione.
Felice mi guardò senza capire, allora gli dissi che mi aveva parlato in francese. “Impossivel” rispose senza la minima esitazione. “Ti dico di sì” dissi io. “Mi soo gnent de francés mi!”. Lo guardai divertito e saccente, senza scompormi.
“Te voeuret dì che mi hoo parlaa com’i lümàgh?”
“Anche se sono francesi le lumache rosse non parlano francese! Hai parlato come i francesi, gli uomini francesi!”
“E el me papà, come diaul parlava?”
“Non lo so, o in italiano, o in francese. O in dialetto.”
“E cosa l’è mej?”
“Dipende, nessuna lingua è meglio in assoluto…”
“Però i mort preferissen el frances…”
Felice aveva un modo di sorprenderti aprendo improvvisamente spiragli spaventosi su cose che non poteva conoscere che …o le conosceva? E io avevo sempre la debolezza di lasciarmi portare da lui anziché governare la conversazione.
“I morti? E quand’é che li senti parlare?”
“Semper”.
“Ma li vedi anche? Dove sono?”
“Inscì, de sott, part che n’é, sott a l’ort, sott al lares, dedree ai urtens, de fianc al fenil, sott ai per, sott al nespul, sott al castagno, sott ai pergul…”
“Ma nel resto del paese? In campagna, fuori?”
Scosse la testa.
“Dumà inscì”.
“Come sarebbe? Un cimitero di francesi tutto qui sotto, solo da noi?”
“Propi”
“E da quand’è che li senti parlare?”
“Da quand’eri giuin.”
“E non ti sei mai spaventato?”
“I mort iin mort, poden fà pü nagott”.
“Ma come fai a dire che parlano in francese, se non lo conosci?”
“Se iin frances, g’han de parla frances”.
“Ma è un circolo vizioso! Come fai a sapere che sono francesi?”
“Perché iin lur che manden sü i lümàgh.”
Per quanto di orrorrifica fascinazione, il racconto di Felice non reggeva la prova della logica. A niente servì tempestarlo di domande, metterlo davanti all’evidenza che i fatti non erano legati da causa e conseguenza, lui insisteva: le lumache rosse le mandavano i morti e bisognava ucciderle. Tra la sua improrogabile missione di sterminarle tutte scindendole con la vanga, e il crudele menù di mia sorella, mi convinsi anche io che le lumache rosse, i lümàgh frances, erano custodi diaboliche di qualche inconfessabile segreto.
Decisi dunque di tornare in cantina, dove tra vecchi crodini, vecchie cedrate, vecchie Marie Brizard, un vecchio Punt e Mes…un barattolo di Citrosodina e uno di Citroepatina di quelli che rubavo ai nonni per farmi le limonate… vidi in un’angolino della mensola più alta della seconda nicchia un riflesso più smorzato, come non venisse dal vetro, ma comunque da qualcosa di lucido…di lucido e viscido… infilai la torcia più addentro per illuminare meglio l’oggetto, sì, era proprio viscido, ma non era un occhio, era una lumaca! Una lumaca rossa, immobilizzatasi dalla paura! Una lumaca in cantina, nella polvere, sull’ardesia di una mensola? I lümàgh! Risentii la voce del Felice, il suo terrore. Indirizzai la luce verso le damigiane e le bottiglie sul pavimento esaminandole una per una: sul collo di una bottiglia un’altra lumaca stava lentamente salendo lasciando una traccia bagnata sulla superficie polverosa, mentre una terza lumaca era caduta dentro una damigiana e ricamava il fondo incrociando inutilmente il proprio percorso. La guardai con un’impassibilità che doveva dimostrare ad eventuali osservatori, i morti o i francesi, il mio sprezzo del pericolo, ma incominciavo a non sentirmi più tanto bene. Alzai lo sguardo sul soffitto, ciuffetti di muschio o lichene lo punteggiavano e passeggiavano impettite anche alcune creaturine traslucide simili a gamberi di grotta. Le pareti si alzavano e si abbassavano impercettibilmente, come se respirassero, e fu allora che vidi quelli che all’inizio scambiai per dei rampicanti verdi che brillavano fiochi nell’oscurità. Mentre li guardavo i “rampicanti” si fecero più nitidi e vidi che erano parole, in corsivo: Où se trouve le fruit suffocant qui est venu de la main du pécheur, je vais donner naissance aux graines des morts pour les partager avec les vers qui …
Vidi che le lettere, collegate dalla grafia in corsivo, erano fatte di quello che agli occhi di un profano poteva sembrare muschio felciforme verde intenso, ma che in realtà era un fungo o un altro organismo eucariote. I filamenti arricciati si assiepavano sporgendo dalla parete. Le parole mandavano un odore argilloso con un lieve sottofondo di miele marcio. Quella foresta in miniatura fluttuava come le alghe nella dolce corrente dell’oceano. Ma cosa voleva dire quella scritta? Quale peccatore? Che morti? Che vermi? L’ultima volta che ero sceso in cantina di sicuro non c’era, le lumache erano chiuse nella botte a spurgarsi e sarebbero rimaste lì, se io non l’avessi forata per facilitare la fuga. Era colpa mia dunque? Erano state le lumache evase a creare quei graffiti sul muro con la loro bava vischiosa? Cominciai a sentire freddo, dai piedi in su un’infiltrazione di umida paura mi invase le membra. Poi, volli farmi del male da solo. Con fatua leggerezza scostai il coperchio della botte e vi puntai dentro la luce della mia torcia. Orrore! Orrore fisico e metafisico insieme! Scintillanti sotto il mio fascio di luce, brulicavano in quella botte migliaia e migliaia di lumache rosse, e mai, dico mai, vidi lumache muoversi così velocemente, tanto che sembravano piuttosto pesci guizzanti presi in una rete… Impietrito guardavo: alcune di quelle lumache erano notevolmente più grosse del normale, tanto da assomigliare ad oloturie, ma tutte, le grandi come le piccole, lottavano per rimanere in superficie, con il risultato di avvicendarsi continuamente in un rimescolamento che le portava dal basso in alto, dall’alto in basso… e tutta quella cosa gorgogliava. Sembrava quasi parlare. Ascoltai con più attenzione e distinsi alcune parole, fruit, pécheur, morts. Come vecchi dopo un ictus che non riescono più ad articolare bene, le lumache ripetevano a mo’ di preghiera le parole francesi scritte sul muro.
Io m’ero sempre data la divisa di vita di non far mai del male a qualsiasi animale, anche a quelli più perseguitati dagli altri, ero amico e protettore dei ragni, delle formiche, delle scolopendre, degli innocui scorpioncini nostrani, delle libellule, delle lucertole e dei gechi, degli scarabei, delle forbicine, delle lumache…ma adesso era cambiato qualcosa, adesso capivo che l’ossessione del Felice e di mia sorella Battista non era del tutto infondata… francesi o non francesi quelle lumache non erano normali, parlavano, scrivevano sui muri messaggi apocalittici: erano loro gli scribi, non avevo più dubbi. Osservavo l’orrendo botro in cui sguazzavano a migliaia involvendosi l’una nella bava dell’altra, una bava che sommata a tutte le altre bave non si asciugava diventando lacca iridescente ma produceva una colla schiumosa, qualcosa di immondo che aveva a che fare con il verbo secernere e dunque un ancor più immondo segreto… Ma quella secrezione non era segreta, era scandalosamente esuberante, come la schiuma del mosto che avrebbe dovuto legittimamente ingrommare quella botte… era l’inchiostro delle loro parole di morte e dannazione. E perché erano tutte lì insieme? Si accoppiavano? Si leccavano? Si trasmettevano il loro tremendo sapere? Ciò che feci in seguito fu così automatico e meccanico che mi sembra di averlo vissuto in un sogno. Invece lo feci, oh se lo feci. Corsi alla legnaia, presi senza precauzione una bracciata di scheggino di verderame e ridisceso in cantina li gettai dentro la botte: subito si udì uno sfrigolio, che non volli stabilire se dipendesse direttamente dall’ustione o se fosse un lamento collettivo. Illuminato dalla torcia, l’interno della botte scintillava di due opposti colori: il rosso delle lumache e il turchese del verderame, a contatto del quale le lumache si contorcevano e s’abbrunivano. Preso da un raptus afferrai un palo e mescolai, mescolai, mescolai, finché intrisi da tuta quella bava i pezzi di verderame incominciarono a sciogliersi. Alla fine rimase una poltiglia scura in cui non di distinguevano i singoli corpi delle bestie: in compenso però si poteva seguire con lo sguardo il grazioso arabesco formato da striature e macchie turchesi che davano al tutto un effetto marmorizzato.
Se volete leggere le lumache nel loro habitat naturale:
Calvino, Italo – Il barone rampante (1987) Einaudi
Mari, Michele – Verderame (2007) Einaudi
Pollan, Michael – Una seconda natura (2016) Adelphi
VanderMeer, Jeff – Annientamento, traduzione di Cristiana Mennella (2014) Einaudi
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Questo contenuto è stato illustrato da Lorenzo Farris, nato a Fiesole, una collina poco sopra Firenze. Disegna e scarabocchi da quando è nato, i suoi compagni preferiti sono matita, sketchbook e un tratto impulsivo e preciso. Adora il whiskey. Legge almeno tre libri in contemporanea, e ha una sua personale Biblioteca di Babele.
Vive a Berlino da un paio d’anni, ma potete trovarlo anche QUI, QUI e QUI
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