La mia attuale ricerca mi porta spesso a prendere in considerazione tutte le sfumature che concetti come la memoria individuale e collettiva, il passato e la storia portano con sé. Mantenendo una prospettiva puramente musicale e contemporanea, il mio lavoro è quello di analizzare gli artisti, gli ascoltatori e chiunque si occupi di musica mediante questi concetti, e dunque il modo in cui essi (ri)scoprono, costruiscono, diffondono, riarrangiano, fantasticano e condividono pezzi di una storia ormai lontana, per troppo tempo dimenticata o largamente ignorata. Questi processi creativi sono molteplici e vanno dal recupero di materiale prettamente musicale, con l’utilizzo di tecniche come, tra le altre, il sampling, il remix o l’uso di cover, fino alla riformulazione di specifici ricordi, aneddoti, eventi, storie e così via, nei testi di una canzone o nella concettualizzazione di un disco. Qualche mese fa ho scritto proprio per Yanez un articolo su quella bomba di disco che è Sirens di Nicolas Jaar. Ecco, lì il processo si fa piuttosto palese: c’è il recupero di un preciso momento storico, appartenente alla comunità cilena intera, che Nico riformula anche tramite aspetti più personali, scavando nella memoria individuale e collettiva per creare successivamente un disco che parli al passato quanto al presente.
Mi è però di recente capitato di mettere momentaneamente da parte la musica e di rivolgere la mia attenzione alla letteratura, analizzando questi concetti attraverso scelte linguistiche, figure retoriche, sintassi e costruzione di frasi e paragrafi interi. In particolare, ho letto The Emigrants di W.G. Sebald, Mrs. Dalloway di Virginia Woolf, Corazon tan blanco di Javier Marías, e infine El Pasado di Alan Pauls. Volendo fare un commento grossolano e complessivo, alla fine di queste letture ciò che viene da pensare è che tutti questi autori hanno raccontato la memoria tramite le vicende personali e più intime del personaggio principale. Che sia la voce di un narratore un po’ ambiguo, come nel caso del testo di Sebald, o lo stream of consciousness della mente della signora Dalloway, il lettore viene invitato ad assistere al ricordo degli eventi già vissuti e allo sviluppo di quelli in corso nelle vite di questi personaggi, riflettendo a ogni ricordo sul modo unico e strettamente individuale di porsi rispetto al passato e alla memoria. C’è nel modo di porsi di Juan Ranz di Corazón tan blanco, ad esempio, una sensibilità piuttosto malinconica che sfocia in un malessere dovuto non solo al lento scorrere del tempo, ma anche alla sua inevitabile incertezza e ripetizione.
Nelle pagine di Corazón tan blanco, pubblicato nel 1992 in Spagna, si intrecciano pensieri e riflessioni legate al nostro rapporto con il passato, con la realtà del presente e con l’idealizzazione del futuro, così come alla distanza tra il sentimento d’amore e le responsabilità del matrimonio, alla difficoltà delle relazioni interpersonali, in larga parte incentrate sul rapporto padre-figlio e marito-moglie, e infine la violenza e la morte. Perfino il dubitare stesso della realtà, se non viene essa narrata, sviscerata con le parole e il racconto. Si ha inoltre molto spesso la sensazione di leggere una storia che parla di storie, di ricordi che sono una scusa per altri ricordi. Fino quasi a perdere il filo principale del discorso.
«No he querido saber, pero he sabido» (Non ho voluto sapere, ma ho saputo): così Juan comincia la narrazione. Si riferisce al suicidio di Teresa, la prima moglie del padre di Juan, Ranz, nonché sorella maggiore della mamma di Juan. Qualche giorno dopo essere tornata dalla luna di miele con Ranz, Teresa è nel bagno della casa di suo padre: si apre la camicetta, si cerca il cuore e fa partire il colpo. Al piano di sotto c’è proprio il padre, a pranzo assieme ad altri familiari. Sentendo il colpo, di scatto si alzano e corrono verso il piano di sopra, dove trovano una enorme pozza di sangue. Ranz arriverà di lì a poco.
All’inizio del secondo capitolo la narrazione torna al presente. Juan precisa che al tempo lui non era nemmeno nato: difatti questo è quello che ricorda e che può essere raccontato grazie ai ricordi che altre persone, quasi mai però il padre o la madre, gli hanno lasciato nel corso del tempo. Lo sforzo che Juan fa nel ricordare e nel raccontare la morte di sua zia è un momento anche per lui per riflettere sul suo presente e su un passato non così remoto. È passato quasi un anno dal suo matrimonio con Luisa e dalla loro luna di miele, tra le spiagge della Florida e quelle cubane, ed ora Juan sente un enorme peso, che lui pensa derivi proprio dal suo matrimonio. Il racconto torna a guardare al passato e ripercorre la luna di miele di Juan e Luisa, cominciando in particolar modo a narrare di quella volta a La Habana quando Luisa, influenzata, riposava in stanza d’albergo e Juan origliava i vicini. Nella stanza accanto ci sono Guillermo e Miriam che litigano: lui sposato e con una moglie molto malata che vive in Spagna, lei che sogna una vita insieme a lui e che, stanca di sentire le sue scuse, o bugie, per non aver ancora lasciato la moglie, progetta di ucciderla. Juan si sente quasi obbligato ad ascoltare la loro conversazione, a prendere parte anche solo come testimone silenzioso e nascosto: si sente obbligato perché sa che ciò che diranno verrà detto solo in quel momento, non ci sarà una seconda volta, non verrà registrato da nessuno.
“No he querido saber, pero he sabido”
Un aspetto che caratterizza Corazón tan blanco in maniera decisiva è il modo in cui Marías unisce il quotidiano con l’universale. Proveniente da una tradizione letteraria, quella spagnola, che predilige maggiormente una prosa semplice e asciutta ma allo stesso tempo ricca di importanti tematiche, Marías costruisce dei periodi nei quali Juan trasforma una sensazione o una semplice banalità della vita di tutti i giorni in una questione esistenziale e filosofica più ampia. Marías lascia quindi che sia il lettore da solo a navigare tra le parole, in uno stato continuo di smarrimento e di frustrazione nei confronti della realtà, ma anche di perfetta identificazione con i personaggi e con i loro sentimenti, di semplice quasi infantile stupore.
Questa sorta di flusso, più o meno ordinato, di pensieri continua con il racconto del primo incontro tra Juan e Luisa, traduttrice e interprete come lui, e con una pungente, sincera, rassegnata riflessione sulla loro relazione, in particolar modo ora che sono marito e moglie. Il matrimonio, pensa, è un cambiamento totale, è come una malattia. Non ti permette di lasciare al caso molte cose: per esempio, di chiederti se sia opportuno accompagnare o meno Luisa a casa dopo una cena, perché è ovvio ormai che dovrai tornare nella stessa casa, perché così è deciso. Non ti permette di pensare a Luisa, di sentire la sua mancanza, di fantasticare su cosa stia facendo ora senza di te, di dove sia adesso, di cosa si sia messa addosso questa mattina. Annulla ogni vago fantasticare, ogni disinteressato pensare rispetto al futuro, perché tutto è lì, è deciso. Il futuro così come lo vede Juan può essere concreto o astratto e il matrimonio, tramite il quale tutto finisce e tutto nuovamente comincia, avvolge gli sposi di un futuro concreto, dà loro certezze, prefigura un comune destino.
Passando da un ricordo ad un altro poi, Juan racconta dei suoi viaggi di lavoro, a Ginevra e a New York dove rimane a dormire a casa della sua amica Berta. Delle lettere che Berta riceve da sconosciuti spasimanti e le richieste di Nick o Jack o Bill, che la forzano a mandare foto e video personali in cambio di qualche informazione in più sulla loro identità, mandando di risposta altri video e foto. A tale proposito Juan commenta che i video sono un’invenzione «infernale» perché hanno «acabado con la fugacidad de lo que sucede, con la posibilidad de engañarse y contarse después las cosas de manera distinta de como ocurrieron […] con el recuerdo, que era imperfecto y manipulable, selectivo y variable» (hanno eliminato la fugacità del momento, con la possibilità di mentire e di raccontarsi in seguito le cose in maniera differente da come sono successe […] il ricordo, che era imperfetto e manipolabile, selettivo e variabile).
E poi ancora, della cena con uno degli amici più cari e di lunga data di suo padre, il quale rivela a Luisa e Juan ulteriori dettagli sul mistero che circonda la morte di Teresa. Della profonda amicizia e stima che cresce tra Luisa e Ranz, quando Juan è all’estero per lavoro, e di una intimità maggiore che Ranz ha con Luisa anziché averla con suo figlio. Dell’inappagabile curiosità di Luisa di sapere e di estrapolare i ricordi dall’affascinante passato di Ranz. E del momento in cui Ranz cede alle richieste di Luisa e le racconta infine le cause che hanno portato al suicidio di Teresa. Juan era nuovamente nascosto ad origliare perché altrimenti avrebbe perso il racconto per sempre, e nuovamente ha saputo senza probabilmente aver voglia di sapere.
L’andare ripetitivo e quasi monotono delle azioni di Juan viene lasciato cogliere al lettore anche attraverso la scrittura di Marías. Quando Juan si trova nuovamente a dover origliare, stavolta la conversazione tra Luisa e suo padre, nel testo viene ripetuta la stessa identica frase incontrata nei capitoli precedenti, che serve non solo a dare il senso di un ritmo ripetitivo, ma anche a far sì che il lettore paragoni mentalmente i due eventi e le sensazioni legate a essi insieme al narratore stesso. Chiaramente l’uso di tale tecnica presuppone anche la capacità del lettore di ricordare parola per parola quanto letto finora. Insomma, sia nel contenuto sia nella forma il libro si dimostra profondamente senza tempo, e quindi molto contemporaneo. Il suo sguardo sulla la memoria e il ricordo, attraverso la quotidianità dei personaggi e il loro personale legame con il proprio passato, si allinea in modo naturale all’attenzione data a questi due concetti da sempre. Basta pensare anche alla riflessione sul rapporto tra la tecnologia e il ricordo che fa Juan, per essere immediatamente trasportati a una qualsiasi discussione attuale, sia essa accademica o tra amici, della stessa portata.
Tornando alle parole scritte inizialmente, tra tutti quei testi che mi è capitato di leggere mi è sembrato che Marías riuscisse più degli altri a trasmettere un’idea di frustrazione temporale che noi stessi oggi affrontiamo. Tutto infatti, dal flusso di pensieri che scorre nella testa di Juan, all’aiuto delle tecniche come il flashback, alle riflessioni sulla tecnologia fino alle continue ripetizioni, ricordano quel senso di vicolo cieco in cui l’oggi sembra essere finito, sia esso artistico, politico o profondamente personale. Non c’è più quella visione del tempo che nettamente definisce il passato dal presente e dal futuro, ma viene tutto contestualmente vissuto, o così pare. Il presente oggi sembra essere affascinato molto più dal passato: è uno sguardo sempre rivolto a ciò che è stato, un anno fa o trenta non fa differenza. Si guarda sempre indietro a ciò che è familiare, conosciuto, facilmente raggiungibile, e allora ci si interessa e lo si osserva, facciamo domande ossessive come Luisa a Ranz, lo si idealizza. Ma, cosa più importante, lo si colleziona e lo si organizza tramite risorse tecnologiche, video, foto, audio, perché abbiamo paura che prima o poi sparirà e con lui le nostre certezze in questo nostro presente incerto che continua a fuggire via. Mentre il futuro, distante e oscuro, viene messo da parte, profondamente secondario, ma in un certo senso anche piuttosto prevedibile.
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin