Cara Jhumpa,
Grazie per avermi concesso di partecipare alla tua indagine intima.
Attraverso te, ho saputo spiegare la mia condizione. In altre parole è un dono prezioso a tutti gli spaesati di ogni generazione.
La prima volta che ho letto il libro, tre anni fa, ero in Italia, su una spiaggia settembrina con pochi bagnanti. Ero andata di mattina, da sola, come spesso accade, con asciugamano, libro e la bottiglia d’acqua tirata fuori dal freezer prima di uscire. Mi trovavo lì in vacanza, dopo una settimana scarsa sarei ritornata a Londra. Allora ero la tua copia al rovescio: una italiana che scriveva in una lingua non sua, imparata da adulta. Il mio inglese, come il tuo italiano, era fatto di periodi corti, singhiozzi. Spiegati a rate in tante frasi minime: il timore di non essere capita che si trasformava in ritmo. E comprendevo bene, tutt’ora comprendo, la frustrazione mista a liberazione.
Da bambina dipingevo spesso, soprattutto ad acquerello. Mi ricordo di un giorno in cui venne a casa mio zio pittore con un suo maestro, un artista famoso, di cui ho dimenticato il nome. Per qualche ragione mi convinsero a fargli un ritratto. Stavo lì seduta al tavolo tondo, dando le spalle a entrambi, tanto che per guardare l’uomo dovevo ruotare la testa. Loro parlavano nel frattempo, delle loro cose e di quello che stavo facendo. Quel signore distinto, con la giacca di tweed verde oliva, disse che ero primitiva. Si entusiasmò quando asciugavo l’acqua in eccesso, che rischiava di uscire dai bordi, con un pezzo di Scottex piegato in quattro. Quell’aggettivo mi offese e la meraviglia per la carta assorbente non la capii. Il ritratto, alla fine, chiese di poterlo tenere. Mi descrisse con altri aggettivi che all’epoca non significavano per me niente di chiaro: grezza, non filtrata, istintiva. Questo episodio, seppellito nei ricordi di un’infanzia brianzola, è tornato a trovarmi mentre leggevo le tue parole, come a suggerirmi una chiave di interpretazione per esperienza diretta, più che per riflessione.
Durante la seconda, recente lettura mi venne il sospetto che non si sarebbe replicata la commozione della prima. Pensai che ai tempi ne rimasi tanto impressionata perché mi sentivo qualcosa di ibrido, sfocato, confuso. Non riuscivo a occupare un posto né geografico, né linguistico. Mi trovavo sempre nelle intersezioni, come polvere tra le tavole del parquet. Ma andando avanti, mentre leggevo, sottolineavo, facevo orecchie, disegnavo linee e crocette al lato di alcuni passaggi. Tanti. Se possibile vissi un’identificazione ancora più intensa, forte di ulteriori anni di estraniamento. Tu ed io, biograficamente, condividiamo alcune esperienze, seppur in maniera speculare. Ma non sono bilingue né ho un aspetto “altro” rispetto al posto in cui vivo. Non ho fatto però alcuna fatica a guardare queste condizioni attraverso i tuoi occhi: io divento Jhumpa e Jhumpa è me, insieme ripercorriamo le tappe, scavalchiamo gli ostacoli, ci avviciniamo a una lingua che abbiamo in comune. Perché in fondo, come dici tu, il significato di una parola, come quello di una persona è qualcosa di smisurato, di ineffabile, e ogni storia che parla di lingua parla anche di identità. Il resoconto di come hai appreso l’idioma, partendo dalla scoperta, passando per il desiderio, fino ad arrivare alla conquista, è un viaggio duplice e parallelo. Va di pari passo con una tenace riflessione sul proprio sé, che obbliga a mettere tutto in relazione, l’italiano esiste principalmente perché giustapposto all’inglese. L’altrove esiste contrapposto a un qui.
Il tuo decidere di scrivere in italiano, i tuoi perché, mi hanno fatto capire i miei, come mai in inglese mi sentissi un’altra persona, carne viva. Quella che c’è sotto a una vescica scoppiata, sotto a strati di abitudini, convenzioni e freni. Nell’altra lingua mi lascio andare, riesco a scrivere di cose che in italiano non avrei il coraggio di affrontare, per la stessa ragione per cui in inglese dire I love you o I’m sorry mi costa molta meno fatica. Il fatto che tra idiomi non esista una corrispondenza perfetta crea per me una zona franca, un divario in cui ormai ho imparato ad abitare.
Sono d’accordo quando dici che leggere in una lingua non propria è la forma più pura di avvicinarsi a un testo, e ora scusami se le citazioni saranno storpiate, o se il senso che ne ho dedotto è un altro, ma per me la bellezza sta nel non avere mai quella confidenza assoluta, quella sicurezza totale nei costrutti e nelle definizioni. L’assenza lascia spazio per immaginare, per dubitare, per inserire qualcosa di tuo in quei vuoti di comprensione. Queste intercapedini, fanno sì che tu rimanga sempre a una certa distanza, la distanza necessaria quando si ha bisogno di sviscerare.
Senza l’inglese rimarrei più in superficie, poiché dalla precisione di linguaggio deriva una sintesi che a volte sconfina nella sufficienza. Invece proprio perché non ho il lemma esatto o la frase perfetta, riesco ad avvicinarmi al cuore più vivido della questione, girandoci attorno concentricamente. Come se stessi smuovendo le zolle di un terreno indurito e secco, per renderlo di nuovo drenante e facilmente penetrabile.
Così anche nella lettura, poiché non avrò mai la certezza della madre lingua, mi spoglio di ogni presunzione, di ogni arroganza o superbia, e mi lascio attraversare.
La cosa più sorprendente della seconda volta è stato leggere quello che mi era sfuggito. Un esercizio di umiltà che dovrei fare più spesso. E non so, ma neanche davvero voglio sapere, se la sintassi spezzettata, il procedere per tentativi aggiustando il tiro di periodo in periodo siano poi diventati man mano più fluidi, in un processo organico e inarrestabile come avviene quando si apprende con dedizione una lingua, o se la forma volutamente imiti il contenuto. Quale che sia la risposta, l’effetto è stato quello di sfumare ancora di più i confini personali, muovendomi io da lettrice a tentoni, prima tra il tuo fraseggiare discontinuo, fino poi a passeggiare tra lunghe frasi distese. Ero te che imparavi a fidarti.
Quando si parla una nuova lingua, si acquisisce una nuova voce e si sperimentano nuovi sentieri di ragionamento, è come essere abitati da uno spirito estraneo, è come essere la marionetta di un ventriloquo senza riconoscere di essere l’uno e l’altro allo stesso tempo. Avere una nuova voce vuol dire anche re-imparare ad ascoltare, a darsi credito. Tornare a una fase più istintiva di linguaggio, libera sì, ma anche priva di protezione. Essere due in una. Essere molte.
Parole, professione, personalità, percezione, sono tutte facce del prisma che è l’io, sono tutti mezzi attraverso i quali si cerca di metterlo a fuoco. La scrittura è molto spesso uno strumento di comprensione, una maniera testarda di farcela da soli, un calibrare il proprio sguardo sul mondo, in un mondo in cui ci siamo anche noi. Definirlo, definirsi. Chi scrive per forza di cose si identifica con una lingua, ma cosa succede quando di lingue a disposizione ce ne sono tante? Una risposta a questa domanda non credo ci sia, c’è solo l’accettazione di essere soggetti frammentati. Cocci di porcellana che, seppure derivino dallo stesso vaso, non combaciano più.
Accettare la propria identità divisa, il proprio essere straniera in patria e altrove, riconoscere la non appartenenza è un esercizio di tolleranza. Perché credo che mai ci si senta più fragili e soli di quando alla nostra persona non corrisponde nessun luogo. Forse è per questo che troviamo appiglio nelle parole, nelle lingue, nelle lettere che come germogli neri cercano di perforare la pagina e radicare un senso di chi siamo.
Ma è importante comprendere anche che il punto di incontro tra un broken italian e un inglese dalla metrica latina siamo noi, ovunque.
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