C’è una foto in bianco e nero, sopra un tavolo di legno.
Un tavolo da bettola, con incisi sopra i solchi che ne raccontano la storia. La superficie sbiadita dai culi di bicchiere che ci sono scivolati sopra, tra bestemmie e vino.
Nella foto si vedono due mani, solo due mani, con i palmi rivolti verso l’alto.
Mio nonno, con i capelli canuti e il viso pieno di rughe, la guarda con gli occhi liquidi e azzurri.
Queste sono le mie mani, dice, da circa settanta anni mi alzo all’alba e inizio il mio giorno, fatto di fatica e sudore. Lavoro la terra e lei in cambio mi regala i suoi frutti.
Se le guardi bene le mie mani ti parlano. Se le osservi con attenzione, non devo raccontare nulla.
Toccale! E potrai sentire nella loro durezza la forza del seme che buca la terra. Annusale e sentirai il profumo dell’umido che rimane sotto le unghie.
Sono intessute di linee le mie mani e ognuna rappresenta il lavoro di una vita: un giorno di aratro, un colpo di vanga, un’erbaccia strappata, un raccolto buono e uno cattivo.
Quando accarezzano dolcemente il volto fanno male.
La storia che raccontano le mie mani è bella, piace anche alla vecchia zingara del villaggio.
Lei ci vede sopra la vita che scorre al contrario: un vecchio con la schiena gobba, un uomo chino sulla terra che usa la falce, un ragazzo che ha i fili di grano sui capelli dopo aver fatto l’amore nel fienile, un bambino gioca a nascondersi e una giovane donna allatta al seno un neonato.
Sono forti queste mani.
Molti dicono che quella che raccontano è una storia di vita, di generazioni, semplicità e sopravvivenza.
Una narrazione che profuma di pane e olio e di cantine.
Raccontano anche dell’odio e della guerra, di quando le mani hanno lasciato la vanga per imbracciare il fucile; non era più il tempo di lavorare, ma di resistere.
La terra ora veniva calpestata dagli anfibi pesanti e percossa dalle bombe. I graffi scavati dal trattore venivano coperti dai cingoli dei carri armati. Le mani scavano buche che non accolgono più semi, ma corpi. Il nuovo raccolto si chiama libertà.
Mani coperte di terra per l’ultima volta.
Mio nonno continua a raccontare, mentre stringe la fotografia in bianco e nero. Mi parla di quando portava i suoi figli in montagna, dicendo loro che si andava a tagliare legna. Mentiva per non spaventarli, in realtà si andava su alle grotte per evitare le granate.
Si stava tutti insieme nel freddo e si aspettava di sentire gli aerei allontanarsi per poter tornare a casa.
I bambini piangevano con il moccio al naso e i volti sporchi, le madri pregavano e gli uomini bestemmiavano.
Venne il tempo della resistenza, gli uomini combattevano sui monti e le donne facevano le staffette. Si moriva, lassù in montagna, e le mani cominciavano a scavare seminando giovani corpi.
Alza lo sguardo, il nonno, e con voce tremante racconta della partigiana Laura, e del comandante Lupo. E poi la Mimma, la Francesca, la Gina.
Dice che le donne avevano una forza superiore perché, oltre ad essere ammazzate come gli uomini, subivano delle violenze che lui non avrebbe sopportato, grande e grosso com’era.
Dice che le botte e le torture non lasciavano i segni che una violenza sessuale lascia nell’anima delle donne. Per questo ha un profondo rispetto per il loro coraggio, dice che era molto più grande di quello degli uomini.
Poi appoggia la foto sul tavolo, afferra il bicchiere del vino, ne beve un lungo sorso e si asciuga la bocca con il dorso della mano.
E inizia a parlare della staffetta Dina.
La Dina era capace di fare centocinque chilometri con la sua bicicletta, dice, da Milano fino su in montagna, per portare i viveri e i messaggi ai suoi compagni. E poi giù, tornava indietro.
Non aveva paura – che mica era scema a mettere i messaggi nella borsa con il doppiofondo, se li metteva nelle scarpe, nascosti nella suola di cuoio sotto la pianta dei piedi.
Aveva diciassette anni. Le avevano ammazzato il padre e il fratello davanti agli occhi in un’alba amara, quando la svegliarono a colpi di fucile sulla porta di casa. Le grida furono meno dei proiettili che le tolsero le persone a lei care. L’avevano portata via scalza, indossava solo la camicia da notte e la mantellina di lana fatta ai ferri da sua mamma, che gliela mise sulle spalle rischiando di essere ammazzata per un gesto d’amore.
La portarono alla scuola e rinchiusa in una stanza.
Sentiva le urla di dolore di quelli che stavano torturando, una porta dopo.
Riuscì a scappare da una finestrella dell’aula numero cinque, dove l’avevano rinchiusa.
Raggiunse i compagni su in montagna e diventò una staffetta partigiana.
Diceva sempre: noi non facciamo la guerra delle armi signori, noi facciamo solo quello che le donne sanno fare; le donne!
Al nonno si bagnano le guance di lacrime quando la ricorda. Dice che non l’hanno fermata i piedi congelati e neanche la paura ma un gruppo di soldati tedeschi che, dopo averla violentata e pestata per giorni, la buttarono ancora viva in un fosso. Mori’ sui cadaveri dei suoi compagni.
Poi venne il 25 aprile.
Sui monti l’aria cominciava ad essere gentile e la neve era quasi del tutto sciolta.
Si vedevano i primi fiori spuntare dalla terra e il rumore dei bombardamenti era più lontano. Le staffette portavano la notizia che la guerra era finita.
Poi il nonno, come a voler chiudere la storia in un bel modo, racconta di quando catturarono il fascista colonnello Colombo, responsabile delle camere di tortura, e lo portarono in quella scuola dove aveva fatto martoriare e ammazzare molti resistenti. Proprio in quelle stessa stanza. E di come Francesco, il comandante della brigata di resistenza lombarda, invece di sparargli un colpo in testa, intona la canzone dei partigiani, davanti a tutti, e la staffetta Rosa apre una fiaschetta di grappa e al colonnello gli offre un bicchiere, perché aveva avuto paura, diceva. Allora la Rosa gli chiese se sapeva l’origine del suo cognome, tremava e piangeva davanti a tutte quelle persone che lo volevano ammazzare.
Lei lo guardò negli occhi e disse, ti racconto una storia colonnello, che questa di sicuro non la sai”.
Gli raccontò dell’abitudine di battezzare con il cognome Colombo i bimbi abbandonati davanti alla casa degli esposti e delle partorienti, in Santa Caterina, alla ruota di Milano. Il simbolo era proprio una colomba.
Gli disse che forse era stato un bimbo fortunato, ma un uomo vuoto e alzò la fiaschetta al cielo per brindare alla Dina e tutte le donne combattenti che hanno regalato la vita per la libertà.
Il nonno dice che questa è la differenza tra un fascista che uccide e un partigiano che lotta per la libertà:che non si deve diventare come loro con la cattiveria nel cuore, perché altrimenti hanno vinto.
Aggiunge anche che la morte non è solo un epilogo. Ha visto la morte liberare un uomo dalle sofferenze più atroci e essere necessaria come sacrificio umano per raggiungere la libertà. Soprattutto, la morte, si lascia dietro i ricordi. Ricordare è memoria e memoria è resistenza. Lui è ancora vivo e quello che vuole fare è trasmettere la sua memoria.
Lo guardo e mi viene voglia di abbracciarlo, lo faccio e sento il suo vecchio corpo tremare.
Il suo alito sa di tabacco da pipa e Lambrusco.
Si allontana da me per guardarmi negli occhi, le braccia continuano a stringere le mie spalle.
Sprofondo in quell’azzurro liquido e ci vedo la speranza.
Gegia Collettini vive a Berlino dal 2000. Romana. Ha vissuto per due anni in Nicaragua, facendo l’infermiera volontaria per un’organizzazione di rifugiati Salvadoregni vittime di mutilazioni e ferite da guerra. Ora è maestra d’asilo.
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