Vado a passo veloce, quasi corro. I negozi che ho intorno non dicono nulla da fuori, non sai se entrare oppure no. Poi qualcosa sulla destra mi richiama. Il bancone è visibile dalla strada, mi avvicino e chiedo una bottiglia di vino. La ragazza del bar mi dice che ha già fatto i conti ma me la darà lo stesso.
Se non altro ho trovato da bere per la cena, sono snervata dal ritardo. Più di un’ora per tornare dal mare, ancora in testa le canzoni pompate dallo stereo del tizio nel bus. Tu in attesa, mentre sfilano mezzi stipati di baccano che ormai saltano le fermate, tanto sarebbe inutile.
La uaua lo chiamano qui: il bus cittadino dove le finestre sono sempre aperte, qualunque pretesa impensabile, il biglietto inutile. Ogni comitiva porta con sé il suo speaker. A volte, due o più in contemporanea si contendono il silenzio, ma soprattutto a vincere è il più forte. Ballano e cantano quasi tutti, mentre si muovono in una sgargiante cagnara, reggendosi per non cadere.
La Habana
Sono a La Habana da due giorni, conoscevo Orquidea e Michel già prima di arrivare, ma solo indirettamente. Sono partita da Berlino con in tasca una breve lista di contatti che mi ha dato un’amica. La casa particular si trova al sesto piano di una palazzina malandata, al centro dell’Habana vieja. Qui tutto è ubicato tra una cosa e un’altra, non basta il nome di una strada, se ne usano due. Io vivo a San Rafael y Galiano. Sotto c’è il Parque Fe del Valle, una piazzetta che ospita uno degli hotspot internet. Dal balcone del palazzo, mi sono fermata ad osservare la miriade di schermi illuminati che punteggiano il buio della sera.
Io vivo a casa loro. Ho una stanza da letto, un bagno personale e posso utilizzare il frigorifero che è in cucina. Pago 25 CUC a notte, la moneta per i turisti, circa 22 euro. Per la colazione di Michel, altri cinque. Adoro il piatto colorato da tre tipi di frutta, il pan torreja e il succo di Guayaba. Ma c’è molto altro.
In ascensore, osservo scivolare i blocchi di cemento armato e porte celesti malridotte, dietro i rombi del cancello a soffietto. C’è un piano a cui non si può accedere, la porta è bloccata e il pulsante di chiamata è sradicato. Accanto, una scritta consumata dal tempo precisa qualcosa, ma non riesco a tradurlo.
Raggiungo il sesto, faccio scorrere la griglia verso sinistra, esco e la richiudo, arrivo alla porta di casa e apro con le mie chiavi. Dentro mi stanno aspettando, in cucina hanno quasi finito: mi preparano una “cena in famiglia”, non vogliono una ricompensa ma gliela lascerò lo stesso. Mi scuso per il ritardo e Orquidea me lo fa notare con una battuta pungente, poi mi chiede “vuoi fare prima la doccia o vuoi mangiare?”.
La tavola è apparecchiata. Ci sono alcune scodelle con una zuppa di fagioli rossi, riso in bianco, pezzi di pollo arrosto, un’insalata fatta di cetrioli, cavolo bianco, pomodori. Forse altro. Racconto che sulla spiaggia ci ha fermato la polizia, ci ha chiesto i documenti. Non a me, ma a Yandri e Alquimede sì.
Mi rispondono che è ordinario, erano insieme ad un`europea.
E’ la Policia Nacional Revolutcionaria, un corpo creato da Fidel Castro per rimpiazzare la polizia nazionale repubblicana sporca di corruzione. Difesa della sicurezza e mantenimento dell’ordine sociale, questo è il loro compito. Il turista è sacro a Cuba: “se sei cubano e sei insieme ad un turista, devi avere e mostrare il tuo documento, spiegare cosa stai facendo lì”.
Quando gli dico che abbiamo viaggiato con la uaua ridono, come divertiti dall’idea di me in mezzo a quella giungla umana.
I miei nuovi amici prendono posto ai due capi del tavolo rettangolare e io mi siedo in uno di quelli lunghi al centro. Michel mi indica le portate una ad una e mi spiega di cosa si tratta, o come le ha cucinate. Davanti a loro, già pronti, due piatti fatti di piccole porzioni di ogni cosa. Dicono che questo è quanto sono abituati a mangiare e che il resto è tutto mio. Gli rispondo che per me è tantissimo, e che dovremo dividere.
Trinidad
Arrivo a bussare alla porta di Antonieta insieme all’autista del taxi collettivo. Un uomo di una settantina d’anni. Durante il viaggio siedo davanti, al suo fianco, nella Cadillac anni cinquanta di colore blu. Parliamo e mi descrive i posti che stiamo attraversando. Mi dice che incontreremo tre fiumi, mentre li sorpassiamo me li indica tutti e mi dice i nomi. Gli chiedo se conosce qualcuno che affitta una stanza in casa particular a Trinidad, mi dice “sì” c’è una sua amica, una signora per bene, ora la chiamiamo.
Antonieta ci aspetta sull’uscio della porta di casa. Mi saluta e sorride. Per primo nota la lunga cicatrice che porto in petto, la indica e mi chiede cosa ho fatto, rispondo che da bambina sono stata operata al cuore. Mi abbraccia e mi dice che da poco si è operata anche sua figlia. Lei non ha una stanza per me, ma forse la sua amica. Prende il telefono e la chiama, mi annuncia come una chica especial, lei ha una stanza vuota e abita solo due blocchi più in giù, su Calle Colón.
Vedo la casa in stile coloniale, la finestra con grata sporgente in ferro che dà sulla strada, la tenda ondulata dal vento che a tratti sfiora l’inferriata, e mi sento in un luogo perfetto.
Apre la porta Dulce, vive qui da sola. Ha un modo di fare più che vivace, parla ad alta voce, a volte stride. Antonieta le mostra la mia cicatrice. Lei fa un suono come stupita, mi mette una mano sulla spalla, mi spinge ad entrare e posare le mie cose, mi offre un succo di frutta, acqua fresca. Mi dice di togliermi i pantaloni per dare aria alle gambe bruciate dal sole. Mentre parla, si avvicina al tegame posato sul fornello della cucina, riempie un piatto con un pezzo di carne che affonda in una sorta di zuppa di legumi, poi lo mette a tavola, “hai fame?”.
Anche il suo nipotino di due anni è stato operato al cuore, ora sta guarendo. Indica con il braccio la foto appesa al muro: un bambino biondo con la sindrome di down. Sorride. Mi spiega che è biondo perché suo padre è europeo.
Tutta la casa è al piano terra. La camera mi piace, ha mobili di legno in stile antico come il resto della casa, un piccolo bagno personale, una finestra che dà sul cortile interno, con tutte quelle piante, un tavolo e sedie. Delle scale portano al piano di sopra, che però è ancora in costruzione.
Esco per comprare prodotti di prima necessità, poi mi dicono che devo arrivare alla Clinica Internacional per connettermi ad internet. Per strada vedo un minuscolo magazzino che vende frutta, ha una finestra che dà sulla strada. Sul piccolo bancone in pietra, poggiano tre diversi esemplari di ciò che è disponibile oggi: un ananas, delle mini banane, qualcos’altro che non conosco.
Mi avvicino per comprare. Prima che riesca a chiamare il negoziante, un uomo fermo in bici là davanti, mi chiama con la mano. Discreto, mi chiede se può farmi una domanda, gli dico di si. Si scusa per dovermi chiedere: che cos’è quella cicatrice che porto in petto. La cosa inizia ad inquietarmi. “Sono stata operata al cuore”, dico. Mi risponde che ne era sicuro, che anche sua moglie ha subito due operazioni di recente. Mi domanda se fumo. Gli dico di si. Mi tratta male con un gesto e mi dice che non va bene. Alla fine compro un ananas, saluto tutti e vado via. Mi chiedo se dovrei prendere tutto questo come un segno.
Quando rientro trovo il camion dell’acqua parcheggiato all’esterno. Una pompa di plastica si fa strada in casa attraversando l’ingresso e la cucina, fino a giungere in terrazza, dove c’è la cisterna. Dulce intanto parla al telefono fisso con quel tono di voce alto e indaffarato, mi mette a mio agio. Posa la cornetta e, dopo avermi avvertito, esce di casa. Rientra dopo poco, porta in mano una lunga e grassa foglia di aloe, dice che devo usarla per guarire la mia pelle bruciata, l’ha presa in “prestito” dalla vicina. Mi mostra come tagliarne i bordi spinosi e ricavarne il gel, poi me la porge e mi lascia sola.
Baracoa
Non ho un itinerario di viaggio preciso, ma ho deciso da subito che arriverò a Baracoa, la città all’estrema punta est dell’isola. È dove Cristoforo Colombo sbarcò quando scoprì Cuba, lo definì uno dei posti più belli al mondo. Io del giudizio di Cristoforo mi fido.
Ci si arriva con il bus o, come me, in taxi collettivo. Da Santiago de Cuba ci vogliono cinque ore, anche se non dista molto, 230 km circa. La strada è un continuo saliscendi per oltrepassare l’Alto de Cotilla. Mentre siamo parte di questo scenario, ci sorprende un acquazzone, non sembra vero che riusciamo ancora ad andare. Uno dei passeggeri è chiaramente in panico, ma non lo dice. Nel taxi siamo in sei: una coppia di francesi, una donna tedesca in età avanzata, un uomo brizzolato e mezzo sdentato al volante, un ragazzo forse minorenne padrone dell’auto. Ed io. Discendiamo verso il livello del mare, attraversiamo el campo, assaliti da una vegetazione superba, e infine si apre la città.
Come scendo dalla macchina, il ragazzetto mi dice che devo segnarmi il suo numero di telefono e chiamarlo se voglio andare da qualche parte, mi verrà a prendere. Gli do il mio quaderno e lascio scrivere lui.
Maira mi aspetta in piazza da oltre un’ora. Insieme a lei, un amico e il suo bici-taxi. Prendo il mio zaino e partiamo in direzione della casa particular. Nel tragitto dico a Maira che vorrei visitare una cascata.
“Abbiamo 28 fiumi a Baracoa, è pieno di cascate”. Sotto casa incrociamo un suo amico, il vicino, Maira lo chiama così, urlando il suo nome, e sempre strillando gli dice dell’escursione. Diego mi saluta come se già mi conoscesse, si ferma con noi e dice che può accompagnarmi a una delle cascate. Chiarisce quello che sarebbe stato il programma della giornata, sarebbe venuto a prendermi l’indomani alle 9:30. Chiedo quanto mi costerà e lui risponde di non pensare a questo, dieci, quindici CUC, poi vediamo. Dico ok.
Da sopra vedo Diego che mi aspetta in strada, sotto alla palazzina turchese a due piani dove vivo. Al primo ci abita Maira con la sua famiglia, al secondo piano c’è la mia stanza e un’ampia terrazza, sette colonne reggono la tettoia e deviano l’andamento del vento nello spazio. Da lì posso vedere la strada sotto e tutti i tetti intorno. Da un lato, si intravedono i galli da combattimento di Diego e il suo cortile.
Lascio i piatti vuoti della colazione sul grosso tavolo di legno e scendo. Ad attendermi insieme a lui, il taxi arrangiato che ci porterà fino al fiume. Per strada ci fermiamo a comprare una bottiglia di vino, delle verdure e un pollo intero. Ci va Diego al negozio, così da pagare il prezzo che farebbero a un cubano e non a me. Dopo poco l’aria viene invasa da un odore intenso di cacao, mi indicano una costruzione, è la fabbrica di cioccolato.
L’uomo al volante: “se vuoi fermo la macchina e fai una foto da fuori, dentro non si può visitare”. Rispondo che non ce n’è bisogno. Procediamo in salita, costeggiamo il fiume Miel, il più grande della zona, ci sono palme ovunque, ma non quelle reali che schizzano al cielo, altre più basse. Ci sono anche molti banani.
Dopo circa mezz’ora, Diego dice di fermarsi, siamo arrivati. Accostiamo sul lato destro della strada. Il taxi rimarrà ad aspettarci in quel preciso punto per tre ore. Chiedo a Diego se possiamo dargli un orario in modo che vada e poi torni a prenderci, mi risponde di non preoccuparmi.
Passiamo sul lato opposto della strada ed entriamo nei cespugli. Diego è agile e piccolo di statura, porta in spalla due borse piene dell’occorrente, io lo seguo con la mia. Incontriamo il fiume e lo percorriamo salendo. Lui si volta di tanto in tanto per assicurarsi che lo segua. Mi suggerisce come muovermi nei punti critici, ma sulle pietre me la cavo bene. Quando arriviamo alla cascata, resto ferma a guardare per qualche minuto.
Diego ha la mia età, chiacchieriamo molto, è sveglio, mi fa ascoltare della musica. Arriviamo a parlare della nostra vita come amici di vecchia data. Intanto lui arrostisce pollo, peperoni rossi, cipolla e platano, che mi invita ad assaggiare come qualcosa a me sconosciuto.
Mette le verdure grigliate e il platano a pezzi in una ciotola, a mo’ d’insalata, e condisce con il vino rosso e sale. In un altro piatto ammucchia i pezzi di pollo asado. Lascia che io mangi, lui non tocca nulla. Gli dico di farmi compagnia ma non riesco a convincerlo. Beviamo vino, ascoltiamo canzoni cubane, me ne piace una che si chiama Mi hermosa Habana. Gli chiedo di farmela riascoltare e lui la fa partire di nuovo.
Ride e mi dice che questa è meglio non farla suonare troppo in città. Domando “perché?”.
Sento qualcosa che avevo già intuito a Santiago. Cioè che tra loro, dell’est, e l’avanero c’è una sorta di rivalità. Qui la gente è più povera e più dura. Capisco che Santiago potrebbe essere la Napoli cubana, per certi versi opposta a La Habana. Come parlare del sud e del nord del mondo. Solo che qui si compete sull’asse est-ovest.
Poi mi chiede se penso di buttare via la parte di carne rimasta attaccata intorno all’osso, che ho messo da parte. Gli dico di si, che non è rimasto molto. Quella è la sua parte preferita, dice, afferra i resti del pollo con le mani e ripete “sei sicura di non volerlo?”.
Sono sazia, il cibo è buonissimo. Prima di andare, dico a Diego che quello che è rimasto ce lo portiamo via e che può tenerlo, se vuole, e mangiarlo quando ha fame. Mi dice di sì, che lo porterà a casa. Mettiamo da parte una porzione per il tassista, e prendiamo la via del ritorno.
Sono a Baracoa da cinque giorni, questa è l’ultima tappa dopo quasi un mese sull’isola. Conosco bene il centro città, qualcuno mi saluta per strada quando mi incontra, ho amici che vedo la sera in piazza, con cui bevo rum e passo il tempo.
Mi aspettano venti ore di viaggio verso La Habana, e un aereo per Berlino. Mi sento forte, fortissima. Piena di questa gente, di ogni vita che mi ha trascinata al suo interno, di luoghi affaticati.
Sono colma di un’umanità rara, ma c’è un volto oscuro che continua a fissarmi, non mi stacca gli occhi di dosso. E’ difficile, non si lascia smascherare facilmente, finché a un tratto non ne vedo chiaro il ghigno.
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