illustrazioni di Andrea Caligaris*
“Prima della famiglia, dei genitori, dei fratelli, delle sorelle, viene l’interesse e l’onore della società, essa da questo momento è la vostra famiglia e se commetterete infamità, sarete punito con la morte. Come voi sarete fedele alla società, così la società sarà fedele con voi e vi assisterà nel bisogno. Questo giuramento può essere infranto solo con la morte. Siete disposto a questo?”.
“Io giuro dinanzi a questa società di essere fedele con i miei compagni e di rinnegare padre, madre, sorelle e fratelli e se necessario, anche il mio stesso sangue”.
Così comincia il giuramento di iniziazione di ogni contrasto onorato che vuole diventare picciotto d’onore ed entrare a far parte dell’Onorata Società, la ‘Ndrangheta. Nella notte di Ferragosto del 2007, dopo la chiusura del ristorante “Da Bruno” di Duisburg, in Germania, queste e altre parole del rito sono state pronunciate da Tommaso Venturi, mentre la fiamma di una candela bruciava un santino di San Michele Arcangelo, la cui testa era stata prima bagnata col sangue del pollice sinistro del ragazzo, e poi tagliata. Quella notte, insieme ad altri cinque amici, Tommaso aveva appena celebrato il suo diciottesimo compleanno e, con molta probabilità, anche il suo battesimo. Possiamo supporre che il giovane fosse appena diventato un affiliato perché il giorno dopo in una delle sue tasche viene trovata l’immagine sacra mangiata dal fuoco. Tuttavia, possiamo solo supporre, perché a raccontare quello che è successo quella sera tra i tavoli del ristorante non è rimasto nessuno. Gli altri possibili testimoni, tutti calabresi dai 16 ai 39 anni, sono morti insieme a Tommaso, nel parcheggio del locale, poco dopo le 2:00, crivellati da oltre settanta colpi. L’ultimo, per ognuno di loro, alla testa. Ma, se ci fossero stati sopravvissuti, con ancora maggiore probabilità, non sarebbero stati testimoni, non avrebbero commesso infamità: avrebbero scelto il silenzio.
Sono le 2:24 circa, una donna telefona alla polizia da Mülheimer Straße, nei pressi della stazione di Duisburg. È spaventata, si è appena imbattuta nell’orrore lasciato dalla strage. Nel vicoletto accanto al ristorante ha visto due auto: una Golf e un furgoncino Opel. Nella prima ci sono i corpi insanguinati di Marco Marmo, alla guida, di Francesco Giorgi, al suo fianco, e di Francesco Pergola e Tommaso Venturi, seduti sui sedili posteriori. Sebastiano Strangio e Marco Pergola sono sul furgoncino. Uno di loro è ancora vivo, ma muore in ambulanza durante il tragitto in ospedale.
Il mattino dopo, la Germania è sotto shock: ha appena scoperto la ‘Ndrangheta. Ha visto il suo vero volto, quello che di solito viene mostrato solo in Calabria e che, anche nel resto d’Italia, viene spesso considerato come qualcosa di lontano, di cupo e folkloristico allo stesso tempo. Al massimo uno spunto buono per una serie tv. “La Germania è il Paese europeo dove la ‘Ndrangheta è riuscita a penetrare in maniera più efficace, nonostante l’apparente incompatibilità culturale. La strage di Ferragosto – si legge sul sito dell’associazione Mafia? Nein danke!, nata all’indomani della carneficina – ha mostrato tutta la facilità di azione e la sicurezza dell’organizzazione criminale di origine calabrese che sta, un passo alla volta, colonizzando il territorio tedesco. Questo episodio, però, ha rivelato a tutto il mondo la natura feroce e criminale della ‘Ndrangheta”. Si ipotizza, all’inizio, una guerra tra italiani, turchi e albanesi per il controllo del territorio. Presto, però, risulta chiaro che non si tratta di un problema di business, ma di una vendetta. È una cosa personale. Per comprenderla, si deve tornare indietro di sedici anni e di 2.140 chilometri.
Siamo a San Luca, sul versante jonico dell’Aspromonte, un centro abitato da meno di 4.000 anime, famoso per aver dato i natali a Corrado Alvaro, per il Santuario della Madonna di Polsi e perché è qui che nasce la regola dell’Onorata Società. San Luca, per la ‘Ndrangheta, è la capitale. La chiamano “la mamma”, colei che ti accudisce e ti punisce. È il 10 febbraio del 1991, il giorno di Carnevale. Alcuni ragazzi lanciano delle uova davanti a un circolo ARCI, di proprietà di Domenico Pelle, figlio del boss Antonio, detto Ntoni Gambazza (era stato azzoppato da un colpo di fucile). Le uova sporcano i vetri del locale e una macchina. Una bravata che poteva finire lì, se i ragazzi non fossero legati al clan Nirta-Strangio, rivale delle famiglie Pelle-Vottari-Romeo. Lo scherzo viene quindi inteso come sfottò, una provocazione che non può restare impunita. Pochi giorni dopo, Antonio Vottari, la cui auto è stata colpita dal lancio di uova, spara ai responsabili: due morti e due feriti. Ha inizio la faida di San Luca.
Avendo ucciso in seguito a un’offesa, i boss decidono che a Vottari è consentito vivere, a patto che lasci il paese. Non deve andare lontano, basta spostarsi anche di pochi chilometri: lì non può restare. Così è deciso, ma ad Antonio non sta bene e rimane dov’è. Viene ucciso con dodici colpi di pistola al volto, nel luglio del ’92. Si dice che ogni famiglia avversaria gli sparò un colpo in faccia.
Tra le numerose vittime di quegli anni, ce n’è una eccellente. Si tratta del boss Giuseppe Nirta, che da anni si era trasferito nel vicino comune di Bianco. Ha 82 anni quando un sicario lo va a trovare, nel giorno del suo onomastico, e gli spara in faccia per cinque volte. È plausibile che l’omicidio sia legato alla faida, ma potrebbe trattarsi di una vendetta voluta da altre parti, forse da tanto tempo. Quello che è certo è che il posto di Capo Crimine di San Luca rimane vuoto. Gli succede il rivale Antonio Pelle, uno che nell’Onorata Società ci era entrato non perché nato in un clan, ma grazie a un sacrificio. Quando era solo un semplice pastore, con l’ambizione di diventare qualcuno, si prese tutta la colpa di un delitto che non aveva compiuto da solo e che forse non aveva compiuto affatto, in “omaggio” al boss Ficara, che aveva avuto contrasti con l’uomo assassinato. La galera fu il prezzo da pagare. Pelle, che come Nirta faceva parte degli ultimi patriarchi, conosceva bene il valore del silenzio e della pace per gli affari. La forza della ‘Ndrangheta era stata proprio espandersi lavorando sotto traccia, negli anni in cui Cosa Nostra, al contrario, attirava l’attenzione con i suoi gesti eclatanti. Ntoni Gambazza, latitante, riesce a imporre una tregua che dura dieci anni. Fino al 6 gennaio 2005, quando si ricomincia a sparare. Viene ucciso Salvatore Favasuli, parente di Francesco Pelle, detto Ciccio Pakistan (per la pelle scura e i lineamenti marcati), il quale è vittima a sua volta di un agguato che lo lascia sulla sedia a rotelle, nel giorno della nascita del figlio. Poco tempo dopo arriva la vendetta e si sceglie, ancora, una ricorrenza. Non è un caso: così facendo, si costringe chi subisce la perdita a rinunciare a un giorno di festa, perché ogni anno rivivrà il dramma del lutto e la rabbia della sconfitta.
Sono le cinque di pomeriggio del 25 dicembre 2006. Alcune persone sono riunite per strada, fuori da una casa al centro di San Luca, dopo aver passato insieme il pranzo di Natale. Appartengono alla famiglia Nirta-Strangio. Dal buio arrivano due uomini a volto coperto e aprono il fuoco. È un ritmo continuo di rumori sordi che tagliano l’aria, in pochi minuti la paura chiude le finestre e le porte delle abitazioni in festa. Dopo c’è il silenzio e poi le urla, mentre il commando si volatilizza. Il boss Giovanni Luca Nirta, il bersaglio principale, è illeso. Il fratello e un bambino di 5 anni sono feriti. Anche la moglie, Maria Strangio, lo è. Muore poco dopo, su un’ambulanza, a 33 anni, al posto del marito. È il punto di non ritorno. Poiché ci si aspetta una reazione da un momento all’altro, il prefetto vieta i botti di Capodanno nel centro abitato. La mattina di San Silvestro, la Gazzetta del Sud pubblica una lettera di uno dei figli di Antonio Pelle che dichiara l’estraneità della sua famiglia alla “strage di Natale”, come l’hanno ribatezzata i giornali. Il nuovo obiettivo è la pace, ma è alquanto inverosimile che una lettera inviata alla stampa sia sufficiente a riparare uno sgarro di tale portata. Tanto più che la leggenda vuole che le mafie non tocchino le donne e i bambini, nonostante la cronaca dica il contrario. I bambini vittime delle mafie in Italia, secondo l’associazione Libera, sono almeno 108. Le donne almeno 150, come spiega Cinzia Paolillo, curatrice insieme a Irene Cortese e Sara Di Bella del dossier Sdisonorate: “Non è affatto vero, come alcuni ancora credono, che in virtù di un presunto codice d’onore, la mafia non uccida le donne. Lo ha fatto almeno per 150 volte fino ad oggi e spesso con modalità brutali, perché mentre per far fuori un uomo spesso basta un colpo di pistola, sul corpo di una donna c’è un accanimento particolare”. Tuttavia, questi numeri si riferiscono per lo più a donne che agli occhi dei loro stessi clan conducevano una vita “dissoluta”: ad esempio, non avevano seguito le imposizioni della ‘ndrina, avevano tradito o semplicemente lasciato il marito per ricominciare a vivere. Maria Strangio è un altro tipo di vittima, perché non viene giustiziata dalla sua famiglia, che non ha mai dubitato della sua innocenza e fedeltà. E, quindi, per i codici dell’Onorata Società, il suo assassinio non ammette perdono.
La vendetta esplode a Duisburg otto mesi dopo e il suo boato è così forte e inaspettato da svegliare la Germania, che apre gli occhi e guarda con orrore quello che aveva tollerato con simpatia e noncuranza fino a quel momento. “La ‘Ndrangheta è uno stile di vita – scriveva Der Spiegel già nel 2000 – Mentre la polizia fa un cordone sulla strada per controllare l’avviso di bollo dell’autoradio, la ‘Ndrangheta si occupa dei permessi di costruzione nel centro storico, risolve le controversie e concede prestiti. Spesso nulla funziona senza l’intercessione di un capo. L’impenetrabile burocrazia è il miglior terreno di coltura per la società sussidiaria criminale, i cui membri sono attivi anche in Germania”. Nello Stato tedesco, l’Onorata Società ha investito circa 45 miliardi, per la maggior parte riciclati. È riuscita a radicarsi e a muoversi con libertà per diversi motivi. Innanzitutto, non sono mai mancati gli appoggi, visto il gran numero di immigrati calabresi fin dagli anni ’50. In secondo luogo, la Germania ha una legge economica lacunosa sul tema dell’antiriciclaggio: non è facile dimostrare che il denaro sia illegale. Il governo è stato riluttante a istituire registri che rendano pubblici i beneficiari finali di holding e scatole societarie. Inoltre, le denunce di pagamenti in nero sono poche: si è abituati a ricevere in contanti anche grosse somme di denaro e, per la verità, fa comodo anche alle casse dello Stato, dal momento che i soldi sono investiti in “lavanderie” legali per cui le tasse vengono pagate con solerzia. D’altronde, come spiega il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri in un’intervista al Corriere della Sera nel 2015, “la ‘Ndrangheta non investe per arricchirsi, ma per giustificare la sua ricchezza”. Basta dare un’occhiata a quello che avviene da anni a Erfurt. Qui, l’Onorata Società ha investito milioni di Euro in immobili. Ha acquistato interi quartieri, ha sovvenzionato la città, supportato economicamente la squadra di calcio e regalato una facciata nuova al palazzo del Comune. Ha comprato, così, anche il benvolere dei cittadini. A indagare e denunciare pubblicamente le attività criminali nella capitale della Turingia è stata l’emittente locale MDR, che ha stimato il giro d’affari del cosiddetto Gruppo Erfurt intorno ai 110 milioni. Uno dei ristoratori ripresi dalla telecamera per la realizzazione del documentario-denuncia ha presentato una querela, riuscendo a ottenere una censura del materiale.
Secondo l’ONG Tax Justice Network, nella classifica dei paradisi fiscali la Germania è piazzata attualmente al quattordicesimo posto, prima di Panama. Nel 2019, però, si trovava al settimo. Negli ultimi anni, le leggi fiscali sono state inasprite, ma la strada è ancora lunga. Secondo il report annuale che accompagna la pubblicazione del Financial Secrecy Index (Indice di Segretezza Finanziaria), la posizione tedesca è migliorata grazie alla decisione di rendere, finalmente, accessibile al pubblico e alle forze dell’ordine il registro della proprietà effettiva (che, tuttavia, non è ancora open data); a quella di obbligare i consulenti fiscali, altri fornitori di servizi e aziende a riferire i modelli fiscali transfrontalieri (ma tralasciando i modelli nazionali); all’approvazione, infine, del ministro delle finanze per la pubblicazione di report di diversi Paesi e la preparazione all’accessibilità dei loro dati, in forma anonima, per gli scienziati. “Ciononostante – si legge ancora nel documento – gravi lacune per quanto riguarda la trasparenza della proprietà aziendale (inclusa l’esistenza delle azioni al portatore), scappatoie nella legislazione e scarsa applicazione delle norme antiriciclaggio e delle normative fiscali rimangono un grosso problema”.
Ma torniamo per un momento a San Luca, la notte di Ferragosto del 2017. A casa di Achille Marmo, fratello di Marco, squilla il telefono. La chiamata parte da Duisburg e dall’altra parte c’è Giovanni Strangio, proprietario di “Da Bruno”, insieme al fratello Sebastiano, morto nel regolamento di conti. In una storia in cui i nomi e i cognomi spesso si ripetono, è bene ricordare che i due fratelli Strangio erano affiliati al clan Pelle-Vottari-Romeo e non agli Strangio-Nirta. Quando Achille risponde alla chiamata, Giovanni sta ancora cercando di mantenere la calma e chiede solo se “la mamma” è lì. Sta usando il nome in codice di Antonio Pelle. “Che è successo?”. “Ma la mamma è lì, vicino a te?” ripete Strangio. “No, non è qui, devo andare proprio lì a casa”. “E vai a dirglielo, vai”. “Cosa?”. La voce di Giovanni si rompe: “È morto mio fratello, mio nipote, tuo fratello. Sono morti tutti”. “Anche mio fratello?”. “Sì”.La conversazione si chiude tra lacrime e bestemmie.
La telefonata è stata intercettata dagli investigatori italiani che stavano indagando sulla faida e che hanno avuto così la certezza che quella strage compiuta in Germania la stavano piangendo in Calabria, da cui provenivano le vittime (e i killer).
“In realtà Marco Marmo non avrebbe dovuto essere presente alla festa di compleanno improvvisata di Tommaso Venturi – scrive Die Zeit il 18 agosto 2007 – È stata una fatale circostanza che sia andata così. Perché Marco Marmo non aveva molto in comune con le altre vittime, anche se i media parlano clamorosamente della nuova guardia dal grilletto facile della ‘Ndrangheta. Il corpulento Marco Marmo era un peso massimo nella gerarchia della mafia calabrese”. È probabile, però, che fosse proprio lui il vero obiettivo dell’agguato: si sospetta, infatti, che fosse uno dei responsabili della morte di Maria Strangio. Che ci faceva a Duisburg? Secondo le intercettazioni compiute in Italia, era partito (su un auto a noleggio) per rifornirsi di armi, nel ristorante “Da Bruno” dov’erano custodite. Le forze dell’ordine tedesche tenevano sotto osservazione il ristorante, il via vai di macchine e le persone che vi entravano e uscivano. Ma in Germania è praticamente impossibile ottenere un permesso per le intercettazioni ambientali all’interno di case, uffici e, in generale, proprietà private. Pertanto, la sorveglianza finiva lì, nonostante fosse già da tempo arrivata dall’Italia la notizia che un biglietto da visita di “Da Bruno” fosse stato trovato durante una perquisizione nell’abitazione di Sandro Vottari, a San Luca. Ancora una volta, la legislazione tedesca si dimostra inadeguata a fronteggiare l’infiltrazione mafiosa nel suo territorio, che per il 60% viene gestita dalla ‘Ndrangheta, per il 20% dalla Camorra e per il 14% da Cosa Nostra, come rivela a TG2 Dossier l’ex Capo della Sezione criminalità organizzata di Berlino, Bernd Finger. La ‘Ndrangheta, inoltre, gestisce l’80% del traffico di cocaina. D’altronde, la criminalità organizzata calabrese tratta direttamente con i cartelli messicani e colombiani, con i quali ha stabilito rapporti privilegiati fin dagli anni ’90. E, in Sud America ha creato delle cellule strategiche utilissime per la gestione del mercato di stupefacenti, in particolare della blanca, in cui la sua egemonia è ormai indiscussa.
La Bundesrepublik è un paradiso fiscale, ma anche una terra franca in cui non è contemplato il reato di associazione mafiosa. Il massimo della pena è quella prevista per associazione a delinquere, fino a cinque anni di reclusione. E, se non esiste il reato, non esiste neanche il crimine. Questa carenza del codice penale complica, e addirittura può ostacolare, la lotta alla criminalità organizzata. “In questi decenni non hanno voluto capire - racconta ancora al Corriere Nicola Gratteri – Dieci anni prima della strage di Duisburg, quando sono stato in Germania e mi hanno fatto ascoltare delle intercettazioni in cui si parlava di locali, ho spiegato che il Locale non è un magazzino. Il Locale è l’organizzazione base della ‘Ndrangheta e ho detto chiaramente: ‘Voi tra 10 anni avrete lo stesso problema che abbiamo noi in Italia’. Purtroppo però la Germania non si è attrezzata sul piano normativo”. Il procuratore di Catanzaro accusa senza mezzi termini la politica tedesca: “Se il potere politico dovesse ammettere l’esistenza e la presenza della mafia in Germania, dovrebbe dire pure che c’è da venticinque-trent’anni. E a questo punto è legittimo chiedersi: in questi venticinque-trent’anni cosa ha fatto la politica? Per quale motivo l’ha nascosta? Per non spaventare gli abitanti? Per non scoraggiare gli investitori stranieri?”.
Le indagini per scovare i colpevoli della strage e consegnarli alla giustizia si muovono tra la Renania Settentrionale-Vestfalia, Land in cui si trova Duisburg, e San Luca. A Kaars, nel 2007, un giovane dalla faccia pulita e dai modi gentili gestisce la pizzeria Toni’s Pizza. Di tanto in tanto, lo stesso giovane chiama la sua famiglia nel paesino della Locride. Le comunicazioni vengono intercettate dalla polizia italiana. Lui è Giovanni Strangio, cugino della Maria Strangio vittima del fuoco del clan nemico, nel Natale del 2006. E le telefonate a San Luca lo inchiodano a Duisburg la notte di Ferragosto del 2007, nel parcheggio del ristorante “Da Bruno”, con il dito indice sul grilletto. Dopo la strage, Giovanni è uccel di bosco. Nel 2009, le forze dell’ordine lo trovano ad Amsterdam, da dove viene estradato in Italia. Riconosciuto non solo come uno degli esecutori, ma anche come l’ideatore del massacro, viene condannato all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Locri, durante il processo “Fehida”. La stessa pena viene stabilita per altri sette uomini, giudicati responsabili degli eventi della faida di San Luca. Anche il secondo killer, Sebastiano Nirta, viene condannato al carcere a vita in primo grado, ma poi viene assolto in Appello. Tuttavia, nel 2019 si riesce a dimostrare la presenza del boss nel luogo della strage, grazie a una perizia sulla “traccia 710”, riconducibile a Nirta e rinvenuta sul tappo della benzina della Renault Clio utilizzata da lui e Strangio per allontanarsi da Duisburg, poi abbandonata in Belgio. Un’altra traccia era stata trovata sul pomello del cambio della stessa auto. La Cassazione mette il sigillo sulla pena.
Ogni 2 settembre, una fiumana di gente celebra la Madonna di Polsi nel suo santuario e per le strade del paese, tra canti e ruote di tarantella. Nel frattempo, secondo quanto svelato ancora una volta delle intercettazioni, per la festa della Madonna della Montagna, si tiene un summit tra i Capi Crimine dell’Onorata Società, fatto di rituali massonici e religiosi. Eppure, la maggior parte delle persone che ogni anno risale l’Aspromonte e si ritrova a San Luca non lo fa per ratificare la nomina di un Capo Crimine, ma per prendere parte ai festeggiamenti. Allo stesso modo, non si deve pensare che tutti i sanlucoti siano ‘ndranghetisti. Quasi tutti, però, sono disoccupati e non vedono un futuro. Dire che le mafie hanno occupato il vuoto lasciato dallo Stato è ormai diventato un cliché. Anche dire che le mafie sono all’interno delle strutture stesse dello Stato è diventato un cliché. Sono considerati concetti banali, privi di fascino. Invece, non dovremmo mai dimenticare che il primo passo nella lotta alla criminalità organizzata è prendere coscienza delle cause del suo radicamento, per quanto possa apparire consueto e ineluttabile. A San Luca, e in troppi altri centri della Calabria e del Sud Italia, si vive nel degrado e nella disperazione (intesa come mancanza di speranza). Fare la guerra a queste condizioni di vita significa combattere le mafie. Perché, come scrisse Corrado Alvaro nel suo diario pubblicato postumo: “La disperazione più grave che possa impadronirsi d’una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile”.
*Originario del ponente ligure, Andrea Caligaris (AKA Teniafamelica) vive e lavora a Torino come illustratore e fumettista. Mondi cupi, province tossiche e deserti postapocalittici sono il suo pane quotidiano.
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