Da un’idea di Paola Moretti
Illustrato da Lorenzo Farris
Nella letteratura le profondità degli abissi, popolati in genere da creature spaventose e affascianti, sono spesso simbolo dei recessi della mente, dei luoghi oscuri della fantasia. Non per niente la narrativa pullula di animali marini inquietanti, temibili o volte solo misteriosi. In questo collage letterario mettiamo insieme un po’ di bestiole subacquee guizzate fuori dalle penne di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Dino Buzzati, Curzio Malaparte, David Foster Wallace e Franz Kafka, tutti remixati in un unico testo.
Quando Stefano Roi compì i dodici anni, chiese in regalo a suo padre, capitano di mare e padrone di un bel veliero, che lo portasse con sé a bordo.
“Quando sarò grande” disse “voglio andare per mare come te. E comanderò delle navi ancora più belle e grandi delle tua”.
“Che Dio ti benedica, figliolo” rispose il padre. E siccome proprio quel giorno il suo bastimento doveva partire, portò il ragazzo con sé.
Era una giornata splendida di sole; e il mare tranquillo. Stefano, che non era mai stato sulla nave, girava felice in coperta, ammirando le complicate manovre delle vele. E chiedeva di questo e di quello ai marinai che, sorridendo, gli davano tutte le spiegazioni.
Come fu giunto a poppa, il ragazzo si fermò, incuriosito, a osservare una cosa che spuntava a intermittenza in superficie, a distanza di due-trecento metri, in corrispondenza della scia della nave. Benché il bastimento già volasse, portato da un magnifico vento al giardinetto, quella cosa manteneva sempre la stessa distanza. E sebbene egli non ne comprendeva la natura, aveva qualcosa di indefinibile, che lo attraeva intensamente.
Il padre, non vedendo Stefano più in giro, dopo averlo chiamato a gran voce invano, scese dalla plancia e andò a cercarlo.
“Stefano, che cosa fai lì impalato?” gli chiese scorgendolo infine a poppa, in piedi, che fissava le onde.
“Papà, vieni qui a vedere”.
Il padre venne e guardò anche lui, nella direzione indicata dal ragazzo, ma non riuscì a vedere niente.
“C’é una cosa scura che spunta ogni tanto dalla scia” disse “e che ci viene dietro”.
Poiché il figlio insisteva, andò a prendere il cannocchiale e scrutò la superficie del mare, in corrispondenza della scia. Stefano lo vide impallidire.
“Cos’é? Perché fai quella faccia?”
“Oh, non ti avessi ascoltato” esclamò il capitano. “Io adesso temo per te. Quella cosa che tu vedi spuntare dalle acque e che ci segue, non è una cosa. Quella è una sirena. È il pesce che i marinai sopra tutti temono, in ogni mare del mondo. È uno animale tremendo e misterioso, più astuto dell’uomo. Per motivi che forse non saprà mai, sceglie la sua vittima e quando l’ha scelta la insegue per anni e anni, per un’intera vita, finché non è riuscito a divorarla”.
“Ma io, papà, l’ammazzo! Come ha fatto Odisseo, non ascolterò il suo canto e la sirena si sfracellerà buttandosi giù da una rupe come scrisse Omero”.
“Frottole queste, Stefano, frottole piccole-borghesi dei poeti, nessuno sfugge e quand’anche qualcuno fosse scampato, una sirena non sarebbe morta per così poco. Del resto, come avrebbe fatto a morire?”
“Allora io, papà, prendo la fiocina e l’arpiono, la tiro su sulla nave e poi la butto nell’olio bollente!”.
“Oh, figlio mio, caro figlio mio” disse il padre sconsolato, “Intanto metti questi” disse porgendo a Stefano dei turaccioli di cera facendo cenno di infilarseli nelle orecchie. Sennonché il vecchio uomo sapeva che le sirene possiedono un’arma ancor più terribile del canto, cioè il loro silenzio. Non è avvenuto, no, ma si potrebbe pensare che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma non certo dal loro silenzio. Nessun mortale può resistere al sentimento di averle sconfitte con la propria porta e al travolgente orgoglio che ne deriva.
Di fatti all’arrivo di Odisseo, le potenti cantatrici non cantarono, sia credendo che tanto avversario si potesse sopraffare solo col silenzio, sia dimenticando affatto di cantare alla vista della beatitudine che spirava il viso di Ulisse, il quale, non pensava ad altro che a cera e catene.
Egli invece, diciamo così, non udì il loro silenzio, credette che cantassero e immaginò che lui solo fosse preservato dall’udirle. Di sfuggita le vide girare il collo, respirare profondamente; notò i loro occhi piedi di lacrime, le labbra socchiuse, e reputò che tutto ciò facesse parte delle melodie che, non udite, si perdevano intorno a lui. Ma tutto ciò sfiorò soltanto il suo sguardo fisso alla lontananza, le sirene scomparvero, per così dire, di fronte alla sua risolutezza, e proprio quando era loro più vicino, egli non sapeva più nulla di loro.
Esse invece, più belle che mai, si stirarono, si girarono, esposero al vento i terrificanti capelli sciolti e allargarono gli artigli sopra le rocce. Non avevano più voglia di sedurre, volevano soltanto ghermire il più a lungo possibile lo splendore riflesso dagli occhi di Odisseo.
Il padre si riebbe dai suoi pensieri e disse al figlio: “Ascoltami: ora noi torniamo subito a terra, tu sbarcherai e non ti staccherai mai più dalla riva, per nessuna ragione al mondo. Me lo devi promettere. Il mestiere del mare non è per te, figliolo. Devi rassegnarti. Del resto, anche a terra potrai fare fortuna.” Ciò detto, fece immediatamente invertire la rotta, entrò in porto e, col pretesto di un improvviso malessere, sbarcò il figliolo. Quindi ripartì senza di lui.
Da allora il ragazzo con ogni espediente fu distolto dal desiderio del mare. Il padre lo mandò a studiare in una città dell’interno, lontana centinaia di chilometri. E per qualche tempo, distratto dal nuovo ambiente, Stefano non pensò più al mostro marino. Tuttavia, per le vacanze estive, tornò a casa e per prima cosa, appena ebbe un minuto libero, si affrettò a raggiungere l’estremità del molo, per una specie di controllo, benché in fondo lo ritenesse superfluo. Dopo tanto tempo, la sirena, ammesso anche che tutta la storia narratagli dal padre fosse vera, aveva certo rinunciato all’assedio. Ma Stefano rimase là, attonito, col cuore che gli batteva. A distanza di due-trecento metri dal molo, nell’aperto mare, il sinistro pesce andava su e giù, lentamente, ogni tanto sollevando il muso dall’acqua e volgendolo a terra, quasi con ansia guardasse se Stefano Roi finalmente veniva.
Così l’idea di quella creatura nemica che lo aspettava giorno e notte divenne per Stefano una segreta ossessione. E anche nella lontana città gli capitava di svegliarsi in piena notte con inquietudine.
Stefano, che era un ragazzo serio e volenteroso, continuò con profitto gli studi e, appena fu uomo trovò un impiego dignitoso e remunerativo in un emporio di quella città di mare. Intanto il padre venne a morire per malattia, il suo magnifico veliero fu dalla vedova venduto e il figlio si trovò ad essere erede di una discreta fortuna. Il lavoro, le amicizie, gli svaghi, i primi amori: Stefano si era ormai fatto la sua vita, ciononostante il pensiero della sirena lo assillava come un funesto e insieme affascinante miraggio; e, passando i giorni, anziché svanire, sembrava farsi più insistente.
Grandi sono le soddisfazioni di una vita laboriosa, agiata e tranquilla, ma ancora più grande è l’attrazione dell’abisso. Aveva appena ventidue anni Stefano, quando prese in affitto una barchetta che un pescatore gli portò nel pomeriggio insieme a una nassa, qualche amo e la fiocina. La mattina successiva, quella del cinque agosto, si era svegliato alle sei e subito era salito in barca; pochi colpi di remo lo avevano allontanato dai ciottoli della spiaggia e si era fermato sotto un roccione la cui ombra lo avrebbe protetto dal sole che già saliva, gonfio di bella furia, e mutava in oro e azzurro il candore del mare aurorale. Fischiava per allontanare la paura, quando sentì un brusco abbassamento dell’orlo della barca, a destra, dietro di lui, come se qualcheduno vi si fosse aggrappato per salire. Si voltò e la vide: il volto liscio di una sedicenne emergeva dal mare, due piccole mani stringevano il fasciame. Quell’adolescente sorrideva, una leggera piega scostava le labbra pallide e lasciava intravedere destini aguzzi e bianchi, come quelli dei cani. Non era però uno di quei sorrisi come se ne vedono fra gli uomini, sempre imbastarditi da un’espressione accessoria, di benevolenza o d’ironia, di pietà, crudeltà o quel che sia; esso esprimeva solo se stesso, cioè una quasi bestiale gioia di esistere, una quasi divina letizia. Questo sorriso fu il primo dei sortilegi che agì su di lui, rivelandogli paradisi di dimenticate serenità. Dai disordinati capelli color di sole l’acqua di mare colava sugli occhi verdi apertissimi, sui lineamenti d’infantile purezza. Stefano volle credere di aver incontrato una bagnante e, muovendosi con precauzione, si portò all’altezza di lei, si curvò e le tese le mani per farla salire. Ma essa, con stupefacente vigoria emerse dritta dall’acqua sino alla cintola, gli cinse il collo con le braccia, lo avvolse in un profumo mai sentito, si lasciò scivolare nella barca: sotto l’inguine, sotto i glutei, il suo corpo era quello di un pesce, rivestito di minutissime squame madreperlacee e azzurre, e terminava in una coda biforcuta che batteva lenta il fondo della barca. Riversa poggiava la testa sulle mani incrociate, mostrava con tranquilla impudicizia i delicati peluzzi sotto le ascelle, i seni divaricati, il ventre perfetto. La nudità quasi totale di Stefano nascondeva male la propria emozione. Lei parlò e così lui fu sommerso, dopo quello del sorriso e dell’odore, dal terzo, maggiore sortilegio, quella della voce. Essa era un po’ gutturale, velata, risonante di armonici innumerevoli. Stefano era ipnotizzato e la Sirena, approfittandone cercò di istillargli nella bocca quella voluttà che sta ai nostri baci terresti come il vino all’acqua sciapa. Sennonché, un’onda un poco più grossa, forse provvidenziale, fece oscillare la barca più forte, tanto che la fiocina, appoggiata in bilico di fianco a Stefano, rotolando, gli finì in mano. Non si sa quale prontezza di riflessi lo inspirò all’azione o se la sirena, giovane com’era, fosse ancora inesperta nell’arte della seduzione, ma accadde in pochi secondi che Stefano le arpionò la coda e con vigorosa lena vogò fino a tornare a riva. Gettò sulla sua preda la nassa intessuta di rame, spago e nylon, la abbrancò risoluto e la portò correndo nelle cucine di una locanda del porto. Lì l’affidò a un cuoco che ancora si dibatteva, terrorizzata ma esausta, e gliela lasciò dicendo che ne facesse ciò che voleva, purché la cuocesse.
Ora, Stefano, era un uomo che aveva studiato, tanto le scienze quanto la filosofia, quindi non indifferente al problema del se e come diversi tipi di animali provino dolore, e del se e perché possa essere giustificabile infliggere loro dolore al fine di mangiarli, si rivelava anche allora estremamente complesso e difficile. E la neuroanatomia comparativa era solo una parte del problema. Sapeva che dal momento che il dolore era un’esperienza mentale totalmente soggettiva, non si ha accesso diretto al dolore di niente e nessuno a parte il proprio; e persino i principi grazie ai quali si può dedurre che altri esseri umani provano dolore e hanno un interesse legittimo a non provarne chiamano in causa filosofia di quella pesa: metafisica, epistemologia, teoria dei valori, etica. Che persino i mammiferi non-umani più evoluti non possano usare il linguaggio per comunicare la loro esperienza mentale soggettiva era soltanto il primo strato di una serie di ulteriori complicazioni nel tentativo di estendere i ragionamenti del dolore e la moralità agli animali. Tutto poi era reso più complicato dal fatto che la sirena in particolare andava bollita viva e che per quanto potesse essere stordita dal tragitto fino a casa, per esempio, la sirena tendeva a riprendere vita in modo allarmante appena la si immergeva nell’acqua bollente. Se si calava nella pentola fumante inclinando il contenitore, qualche volta la sirena cercava di aggrapparsi ai bordi del contenitore, perfino agganciarsi con le mani all’orlo della pentola, come una persona che cerca di non cadere dal bordo di un tetto. E ancora peggio era quando veniva immersa del tutto. Anche se si copriva la pentola e ci si girava dall’altra parte, di solito si sentiva il coperchio che sbatacchiava e sferragliava mentre la sirena cercava di spingerlo via per uscire. Oppure si sentivano le unghie della creatura che grattavano i lati della pentola mentre si dibatteva. O almeno questo era quello che Stefano aveva letto su i suoi svariati manuali. Ce ne era uno in particolare che consigliava metodi differenti per evitare tali sofferenze, come mettere la sirena in acqua fredda salata e portarla molto lentamente a ebollizione. I cuochi in favore di questo metodo si basavano sull’analogia con le rane, che a quanto pare non saltavano fuori dalla pentola se l’acqua veniva scaldata gradualmente, ma altri sostenevano che se l’acqua nella pentola non era acqua marina aerata, la sirena in immersione avrebbe patito un lento soffocamento, anche se in genere non tale da impedirle di dibattersi e sbatacchiare comunque non appena l’acqua diventava abbastanza calda da ucciderla. Di fatto questi non erano problemi suoi, lui aveva fatta la sua parte ora se ne stava occupando il cuoco e poi sapeva che si trattava della sua vita o di quella della Sirena e non c’era morale che tenesse quando era questione di aver salva la pelle. Stefano era nel pieno di questi ragionamenti quando il cuoco, affannato e accaldato dopo quello che doveva essere stato un grande sforzo fisico, gli si presentò davanti con un vassoio d’argento che teneva a due mani su cui giaceva distesa a occhi aperti quella povera bambina morta, su un letto di foglie di lattuga in mezzo a una ghirlanda di rosei rami di corallo.
Se vuoi leggere le creature marine nel loro habitat naturale:
Buzzati, Dino – Il colombre (1966) Mondadori
Foster Wallace, David – Considera l’aragosta (2006) Einaudi
Kafka, Franz – Il silenzio delle sirene in Tutti i racconti (1970) Mondadori
Malaparte, Curzio – La pelle (1978) Mondadori
Tomasi di Lampedusa, Giuseppe- La sirena (1961) Feltrinelli
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Questo contenuto è stato illustrato da Lorenzo Farris, nato a Fiesole, una collina poco sopra Firenze. Disegna e scarabocchi da quando è nato, i suoi compagni preferiti sono matita, sketchbook e un tratto impulsivo e preciso. Adora il whiskey. Legge almeno tre libri in contemporanea, e ha una sua personale Biblioteca di Babele.
Vive a Berlino da un paio d’anni, ma potete trovarlo anche QUI, QUI e QUI
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