Testo e Illustrazioni di Francesco Gulina
Corre l’anno 2004 e io sono ancora uno sbarbo. E come ogni sbarbo mi appresto anche io ad inciampare, cadere, e a commettere errori da sbarbo.
Uno di essi, forse il più grande, ha influenzato la mia vita per anni. E tutt’oggi—che conservo l’aspetto da sbarbo pur essendo vecchio dentro—posso ancora sentirne l’eco rimbombare nei meandri della mia personalità.
Grazie ad una serie di sfortunati eventi mi avvicino ad una setta religiosa che non nominerò in questa sede. Una di quelle congregazioni dove la musica che non parla di quanto Gesù sia buono, bello, o di come e quanto ci ami, è considerata musica del diavolo.
Preso dal fervore religioso, sotto consiglio della mia guida spirituale, tutti i miei compact-disc musicali, etichettati come satanici o filo-satanici, finiscono nella pattumiera. Un gesto che riempie di orgoglio me e tutti i congregati.
Quando ripenso a questo episodio, vorrei poter tornare indietro nel tempo per incontrare quell’io-sbarbo così da dargli un bel calcio tra i denti, giusto per farlo rinsavire.
Dopo essermi finalmente liberato dalle cattive influenze di Satana, inizio a cercare nuova musica. Musica bianca per l’esattezza. Tra i vari forum trovo diverse rock band cristiane, scopro addirittura un genere denominato unblack metal: ovvero un black metal, con tanto di scream e growl, che racconta di quanto Gesù ci ami e ci voglia bene. Vengo a sapere di molte altre band di cui non avevo mai sentito parlare prima.
Ma soprattutto scopro un trio di Springfield, Missouri, che il bassista dei Pearl Jam, Jeff Ament, considera come l’inventore del grunge: i King’s X.
È amore a primo ascolto.
Stacco.
King’s X, It’s Love, Faith Hope Love, 1990.
I King’s X vengono marchiati fin da subito come band cristiana, anche se il trio preferisce tenersi alla larga da qualunque etichetta. I loro testi parlano di spiritualità, fede, speranza e amore, ma anche dell’accettazione di sé, e delle difficoltà dell’avere fede in dio, qualunque esso sia.
Nel 1988, dopo un primo esordio col nome di The Edge, il bassista Doug Pinnick, il chitarrista Ty Tabor, e il batterista Jerry Gaskill, debuttano con il loro primo album come King’s X: Out Of The Silent Planet.
Nei primi anni 90 aprono i concerti di Iron Maiden, AC/DC e Living Colour, raggiungendo il loro primo, e forse unico, picco di popolarità.
Nel 1998 Doug Pinnick fa outing durante un’intervista e il mondo del rock cristiano viene scosso da un terremoto di dimensioni bibliche. È un disastro. I loro album vengono banditi nei bookstore cristiani, e Pinnick riceve addirittura email di odio dai fan più religiosi.
Lo stesso trattamento viene riservato agli altri membri della band: pagano tutti il prezzo del coming-out di Pinnick. Il trio, però, rimane unito nonostante il divorzio dalla religione del bassista.
Nello stesso anno esce Tape Head, album che segna una nuova era per la band.
Stacco.
King’s X, Fade, Tape Head, 1998.
Gli anni passano. Il mio fervore religioso si spegne fino a sparire del tutto. L’amore per i King’s X è l’unica cosa che rimane della mia esperienza mistica e che mi accompagna fino al 2009, anno in cui i King’s X annunciano una data a Milano. Io non sto più nella pelle.
Nel 2009 non sono più uno sbarbo, ma sono un ragazzo instabile, con una relazione instabile con una ragazza instabile. Litighiamo spesso, ci lasciamo spesso, ma in fondo ci vogliamo un gran bene, o almeno questo è quanto ci diciamo dopo ogni litigio.
Mentre conto i giorni che mi separano all’esibizione live di una delle mie band preferite la mia ex decide di volermi accompagnare al concerto.
Quel giorno, però, il pomeriggio prende una brutta piega: una serie di fatti che non ricordo portano ad un litigio di dimensioni epiche, che finisce con lei piegata in due da dolori dovuti a coliti causate dal nervosismo. Il concerto salta. Lei si scusa, io divento di pietra. Il tutto porta ad una serata trascorsa a maledire e odiare con tutto me stesso quella ragazza che mi sta accanto, stesa sul letto, a cui vorrei tanto poter dire di sparire, in modo che io possa andare al concerto, ma alla quale non dico nulla.
E resto lì, immobile e in silenzio, con l’odio che mi scorre nelle vene.
Qualche mese dopo, lei mi regala il dvd del Live in London, per farsi perdonare. Dvd che non ho mai avuto il coraggio di guardare.
Stacco.
King’s X, Lost In Germany, Rock Palast, 1988
Oggi, 2017, i King’s X annunciano un tour europeo con tappa ad Amburgo. C’è solo un problema: lo scopro troppo tardi, e il concerto è già sold-out.
La cosa, però, non mi ferma.
Il giorno del concerto, zaino in spalla, prendo un autobus per Amburgo. Mi sento invincibile.
Raggiunto il Downtown Blues Club sfodero la mia arma vincente: un pezzo di cartone tagliato male con scritto altrettanto male ICH SUCHE 1 TICKET! sottolineato.
Le persone davanti al club mi guardano divertite, e io in effetti mi sento un po’ un invasato a stare lì, sorridente e con gli occhi sgranati, pieni di speranza, un pezzo di cartone in mano e lo sguardo di tutti puntato addosso. La mia sicurezza vacilla: nessuno ha biglietti in più.
Dopo qualche minuto vedo Doug Pinnick passarmi davanti. Lo saluto con un entusiasmo che spaventerebbe chiunque, ma non lui, che si ferma e ricambia il saluto, stringendomi la mano. Mi chiede cosa faccio, se vendo biglietti. Gli dico che no, non li vendo, e che ne cerco uno. Lui sorride, mi dice di scrivere il mio nome su un pezzo di carta, che può provare a mettermi nella guest list. Io non credo alle mie orecchie e inizio a tremare, e vengo colto da un attacco di tarantismo che mi porta a toccarlo dappertutto mentre lo ringrazio senza riuscire a smettere. Lui non si scompone, né si infastidisce. Continua a sorridere e a parlarmi come se mi conoscesse da sempre, mentre io ho le gambe che mi tremano.
Entra nel club ed esce con nonchalance dopo qualche minuto dicendo che è tutto ok, che io e gli altri due ragazzi che gli hanno dato il proprio nome possiamo entrare. Salto e urlo come un bambino, battendomi il cinque con gli altri due sconosciuti che entreranno con me in guest list.
Davanti al desk, dico al bouncer che non ho il biglietto, e che sono nella guest list di Doug. Lo dico con fierezza, senza nascondere il mio orgoglio. Lui mi scruta un po’ dubbioso, poi prende la lista. Nell’attesa che lui controlli la mia sicumera svanisce e per un istante sbianco, mentre immagino la mano del bouncer scorrere la tabella senza trovare il mio nome. E invece no.
Eccoti, mi dice lui, sorridendo.
Io mi rilasso, ringrazio, ed entro. E sono in guest list.
È un sogno che si avvera.
Stacco.
King’s X, Groove Machine, Rock Palast, 1988
L’inizio del concerto mi prende alla sprovvista. Avrebbe dovuto suonare un gruppo spalla che in realtà non si è mai esibito. Sul palco salgono Doug, Jerry e Ty, che scelgono Groove Machine come pezzo di apertura.
Il Downtown Blues Club di Amburgo trema.
Il suono riempie la sala e ogni suo angolo. Si insinua anche nello spazio che c’è tra una persona e l’altra del pubblico. Cominciano tutti a muovere la testa accompagnando il groove potente e massiccio della band.
I pezzi si susseguono uno dopo l’altro quasi senza sosta, se non per cambiare strumento. Non c’è tempo da perdere. I King’s X sono sul palco per spaccare. Un boato accompagna l’inizio di ogni canzone, e io al terzo pezzo sono già senza voce.
Quando attaccano con Lost In Germany il pubblico tedesco va in visibilio. Mi commuovo sulle note di Summerland, canzone che ho portato nel cuore durante gli ultimi dieci anni della mia vita; mentre Doug Pinnick e Ty Tabor spostano i microfoni in direzione del pubblico sulle note di Goldilox, che viene cantata interamente dalla platea, all’unisono, come fossimo un’unica persona.
Il concerto si chiude con We Were Born To Be Loved e Dogman, e i King’s X lasciano il palco ricordandoci che l’unica cosa che conta, nella vita, è l’amore. Non il colore della pelle, non la città di provenienza —Doug scherza sugli Stati Uniti, che per lui sono ormai diventati una barzelletta—non la religione.
Perché tutto passa, solo l’amore resta.
Stacco.
King’s X, We Were Born To Be Loved, Live in London, 2010
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