Praga, 1917, quattro di mattina. Ha appena finito di piovere. Le strade fradice, le pozzanghere a riflettere la luce gialla dei lampioni, i ratti negli anfratti a mendicare avanzi tra la spazzatura. Abbiamo accostato la sedia alla finestra per distrarre l’ennesima notte d’insonnia. L’aria entra fredda, umida, ultimo stralcio d’inverno. D’un tratto l’eco di passi in lontananza, un tacco di cuoio sulle piastrelle irregolari, il rimbombo che si propaga tra case, chiese, sinagoghe. Il suono si fa più vicino, siamo in piedi ormai, la faccia buttata fuori dalla finestra. Dall’Altstädter Ring gira l’angolo un’ombra, fatichiamo a distinguere il nero della sua figura dal nero della notte. L’ombra lentamente si fa sagoma, una sagoma alta, affusolata, allampanata. Il passo veloce, la falcata grande, quasi saltellante. La schiena curvata in avanti. I vestiti in buone condizioni ma fuori stagione, la giacca di cotone non adatta a questo gelido mese di marzo. Un volto d’uomo si disegna nell’oscurità sotto alla nostra finestra. Ossatura sporgente, orecchie a punta, capelli scuri con la riga nel mezzo. Degli occhi – grandi, intensi, ossessi – non riusciamo a distinguerne il colore. Poi, veloce com’è arrivato, saltella dietro l’angolo e sparisce nel labirinto di viuzze lastricate. L’eco di un colpo di tosse. Un vento gelido s’alza all’improvviso, le cartacce iniziano a vorticare in circolo, chiudiamo la finestra perché non entri la polvere.
***
Consumato tutto il carbone; vuoto il secchio; inutile la pala; freddo il respiro della stufa; la camera satura d’aria ghiacciata; davanti alla finestra, alberi irrigiditi sotto la brina; il cielo, uno scudo d’argento apposto a chi gli chiede aiuto. Debbo, ad ogni costo, avere carbone; non posso gelare; dietro di me, la stufa spietata, davanti a me, il cielo spietato; che altro mi resta se non infilarmi, di misura, tra i due, e cavalcare dal carbonaio, in cerca d’aiuto. Ma quello, ormai, è indifferente alle mie solite preghiere; gli debbo provare, con ogni evidenza, che non possiedo più neppure un grano di carbone, e che lui, quindi, rappresenta per me il sole nel firmamento. Dovrò farmi avanti come il mendicante che rantola, vicino a crepare, cui la cuoca si deciderà a infondere, goccia a goccia, i resti dell’ultimo caffè; così il carbonaio, furente, ma investito dal raggio del comandamento: “Non ammazzare” sarà costretto a gettarmi una palata nel secchio.
È nato il 3 luglio del 1883, nell’antica capitale boema, al tempo territorio Austro-ungarico. È il primo di sei figli. I due fratelli, Georg e Heinrich, muoiono prima che compia sette anni. Delle tre sorelle, Elli, Valli e Ottla, l’ultima è la favorita. Il padre, Herman, è il quarto figlio d’un macellaio kosher di Osek, il quale, secondo le leggende, disponeva d’una forza prodigiosa, da permettergli persino di sollevare sacchi di farina coi denti. A sedici anni Herman, povero e incolto, inizia a lavorare come commesso viaggiatore. Per sfuggire al clima antisemita diffuso nelle campagne boeme, decide di trasferirsi nella più tollerante Praga, dove un anno dopo sposa una Löwy. I Löwy sono una famiglia molto più altolocata, benestante e colta della sua, ciononostante Herman riesce a ottenere la mano di Julie, vuoi perché lei ha già 26 anni, vuoi perché i suoceri intuiscono in lui le qualità che non mancherà di dimostrare in futuro: un solido senso per gli affari e la determinazione a divenire un buon padre di famiglia. Grazie alla sua intraprendenza Herman riesce infatti ad aprire un negozio d’abbigliamento – un Galanteriewaren – sull’Altstädter Ring, che gli permetterà con gli anni di entrare a far parte della borghesia tedescofona ebrea, una classe sociale agiata, caratteristica della Praga di fine Ottocento. Herman ha ereditato la forza fisica del padre: è grosso, nerboruto, possente. È sicuro di sé, energico, un gran mangiatore e bevitore. Ebreo praticante per tradizione, ma non per devozione. Mosso da volontà di vita, di affari, di scoperta. Uomo severo, intransigente, sarcastico. Padre di famiglia autoritario e datore di lavoro dispotico.
Il primogenito, il nostro protagonista, cresce tutto al contrario. È gracile, pauroso, inquieto. Sensibile, pigro, titubante. Non riesce né a comprendere né a compiacere il padre, che per lui è misura di tutte le cose. I rimproveri, la mancanza d’incoraggiamento e il sarcasmo ne minano la fiducia in se stesso. Si sente un inetto, un buono a nulla, perennemente colpevole di fronte allo sguardo del genitore. È un ebreo tedescofono di Boemia: per strada parla ceco, a casa un misto di yiddish e tedesco, a scuola Hoch Deutsch. Non padroneggia però nessuna delle tre lingue e le donne della sua vita continueranno a correggerlo, ora in tedesco, ora in ceco, ora in yiddish. È un po’ di tutto, ma soprattutto un po’ di niente: escluso, diverso, straniero in casa, a scuola, a se stesso. È pieno di dubbi sulla realtà. La vita gli pare “semplicemente terribile”. Crescendo pensa spesso al suicidio, ma questo non si figura mai come un atto violento. Un volare piuttosto, un saltare nel vuoto, un fuggire dall’angustia della Terra disfacendosi nell’aria. Quando finisce le elementari, è sorpreso lui stesso di venir ammesso all’Altstädter Deutsches Gymnasium, liceo prestigioso della città. Finito il liceo, si iscrive a Chimica all’Università tedesca di Praga (oggi Università Carolina). Ha già capito di voler dedicare la sua vita alla letteratura, “di essere fatto di letteratura”, e vuole studiare qualcosa che gli permetta di trovare un impiego semplice, senza troppe fatiche, che gli lasci il tempo di dedicarsi alla scrittura. Dopo due settimane si rende però conto di non essere tagliato per le materie scientifiche e passa alla facoltà di giurisprudenza. Il rendimento scolastico è piuttosto mediocre, ma è in questi anni che conosce alcuni degli amici più importanti della sua vita, tra cui Max Brod, Felix Weltsch e Oskar Baum, tutti e tre scrittori e tutti e tre molto più affermati di lui in vita.
Nel 1906 si laurea in Legge, svolge il suo anno di servizio obbligatorio non retribuito e poi viene assunto da una ditta italiana, le Assicurazioni Generali di Trieste, dove resisterà meno di un anno. L’orario di lavoro – dalle 8 alle 18 – gli impedisce infatti di dedicarsi alla scrittura. Si dimette e viene assunto all’Istituto di Assicurazioni contro gli Infortuni per il Regno di Boemia, dove lavorerà per il resto della sua vita. Questo nuovo impiego è perfetto, perché finisce alle 14.30. La sua routine è maniacale: quando esce da lavoro va a casa, mangia, fa un pisolino fino alle 19.30 (anche se il più delle volte resta nel letto senza chiudere occhio), quindi dieci minuti di esercizi, nudo davanti alla finestra aperta, poi una passeggiata di un’ora, dunque cena con la famiglia e infine, alle 22.30, si siede alla scrivania. Quando non riesce più a scrivere, fa ancora un po’ di ginnastica, si lava e, normalmente con “un dolore leggero nel cuore e un formicolio nei muscoli dello stomaco”, si mette nel letto a litigare con l’insonnia. Sul lavoro è diligente, preciso, apprezzato da colleghi e superiori. Ciononostante vive il lavoro come un enorme spreco di tempo, che gli prosciuga le poche energie di cui dispone e che vorrebbe dedicare interamente alla letteratura. Non è solo il lavoro a impedirgli di scrivere, ma anche la salute e i rumori. Soffre di emicrania, insonnia, nevrosi. A ventiquattro anni dispone per la prima volta di “una stanza tutta per sé” – i successi del negozio paterno hanno permesso alla famiglia di acquistare un appartamento in un elegante edificio residenziale conosciuto come Oppelt-Haus – ma questa, più che una stanza, è un corridoio, che connette la camera dei genitori al bagno e alla sala. I bisbigli aldilà delle pareti, l’andirivieni delle persone e il continuo aprirsi e chiudersi delle porte, gli rendono impossibile concentrarsi. Ogni singolo rumore si amplifica nel suo cranio, ne alimenta le nevrosi. Verrebbe da chiedersi perché un uomo di ventiquattro anni, con un impiego fisso ed economicamente indipendente, non si trasferisca in un appartamento suo, dove possa lavorare indisturbato. O perché addirittura non lasci il lavoro e tenti di vivere scrivendo, come facevano tanti intorno a lui. La risposta è duplice: da una parte, per lui la letteratura e il guadagno vanno tenuti ben separati; dall’altra, l’opportunità di incolpare il lavoro e la famiglia per la sua mancata produttività, gli concede quantomeno di salvare l’autostima. Sia Max, che Felix, che Oskar (che peraltro è cieco) hanno infatti già pubblicato diverse opere, mentre lui riuscirà a pubblicare la prima striminzita collezione di pezzi in prosa sulla rivista Hyperion, a ventiquattro anni, solo grazie all’intervento di Max Brod.
Deve deciderlo la mia ascesa; per questo, vado da lui a cavallo del mio secchio, stringendo il manico, la più semplice delle briglie, scendo con difficoltà le scale; una volta in basso, magnifico, magnifico, il secchio comincia a salire; sotto il bastone del signore non si scuote, non si solleva con più leggiadria un cammello accovacciato al suolo. Lungo la strada indurita dal ghiaccio, si procede a trotto regolare; spesso salgo al livello dei primi piani, mai scendo fino agli usci. E, a un’altezza eccezionale, oscillo davanti all’antro del carbonaio, in fondo al quale l’uomo scrive, rannicchiato davanti al suo tavolinetto; la porta, per far uscire il calore eccessivo, è aperta.
A ventotto anni diventa vegetariano. Lo tormenta il pensiero di servirsi di altri esseri viventi per il suo sostentamento. Il padre – la bocca e le dita unte di salsiccia, i filamenti di grasso incastrati tra i denti – si copre gli occhi per non vedere lo scempio di cui si ciba il figlio: verdure, semi di zucca, uva passa, datteri. Diventa fanatico del fletcherizing, una moda nutrizionista californiana, che impone di masticare ogni boccone 32 volte prima di ingoiarlo. Da giovane non è mai stato atletico, anzi, uno dei ricordi più avvilenti dell’infanzia sono le volte in cui Herman lo portava a nuotare in piscina – il corpo robusto, taurino e gagliardo del padre a confronto con le sue quattro ossa tenute insieme da un pallido strato di pelle. L’ipocondria però lo induce a mantenersi in forma, facendo ginnastica con meticolosa regolarità, ogni giorno, per dieci minuti al giorno. È ossessionato dal sesso, dalle donne, dai corpi. Assiduo frequentatore di prostitute, nel 1910 scrive nel suo diario che “passare davanti al bordello è come passare davanti alla casa di un’amante”. I bordelli nella Praga del 1905 sono 35. Lui frequenta i migliori, ma gli piacciono anche i café che restano aperti fino a tardi, dove le cameriere a fine turno offrono un’altra serie di servizi. La sua preferita tra queste cameriere è una certa Hansi, di cui si conserva una foto insieme a lui nel 1906. Eppure non c’è niente che lo repella più dell’atto sessuale in sé. È qualcosa di sporco, di gretto, di volgare. L’attrattiva del sesso risiede per lui esattamente nel paradosso: il desiderio incontrollabile del corpo di immergersi in questa sporcizia, grettezza, volgarità. Ha paura delle malattie infettive, della carne viva, esposta. In fondo, lo disgustano gli esseri umani in generale, i loro umori, sudori e liquidi vari. Come scriveva in una lettera del 1913, dopo essere stato in villeggiatura con la sua famiglia: “Non posso vivere con la gente; odio a morte tutti i miei parenti, non perché siano malvagi […], ma semplicemente perché sono persone con le quali vivo in estrema vicinanza.” Soffre die Enge, la strettezza, la vicinanza, la chiusura del mondo. Non sopporta i limiti del suo corpo, della sua stanza, del suo ufficio, di Praga, della letteratura. L’universo intero e l’eternità lo opprimono.
È la sera del 13 agosto 1912 quando conosce Felice Bauer. Sta andando da Max Brod per discutere l’ordine dei diciotto racconti che sarebbero finalmente stati pubblicati nel volumetto della Rowohlt del 1913 con il titolo di Meditazione. Entra nel soggiorno e la vede seduta al tavolo. Di primo acchito gli pare una domestica. “Faccia larga, ossuta, che mostrava apertamente la sua vacuità. Collo nudo. Camicetta in disordine. […] Il naso quasi rotto. Capelli biondi, lisci, per niente attraenti, mento robusto.” Ne rimane folgorato. Anziché discutere della pubblicazione, quella sera i due parlano delle loro vite, si promettono di partire l’anno venturo per la Palestina, si stringono la mano per sancire l’accordo. Felice è una ragazza di famiglia ebrea, ha venticinque anni e vive a Berlino, dove lavora per un’azienda di dittafoni. È tutto il contrario di lui, o meglio, ha tutte le qualità che a lui mancano: è pratica, sicura, rapida, attiva, ma soprattutto realista. Forse è questo ad attrarlo così, o forse, più banalmente, è il fatto che viva a Berlino, a 800 chilometri di distanza da Praga. Tornando a casa quella notte, dopo averla accompagnata alla pensione dove pernotta, più che camminare corre, salta, vola. Il giorno dopo a svegliarlo è un’agitazione dolce, che niente ha a che vedere con l’ansia di sempre. Eppure passa un mese e mezzo prima che si decida a scriverle la prima lettera. È il 20 di settembre. Il tono è formale, le dai del Lei, si ripresenta nel caso si fosse dimenticata di averlo conosciuto. Inviare la lettera è adrenalina pura, l’attesa del responso, invece, è straziante. Però accade qualcosa, le croste emotive si smuovono, si apre una fessura e ne sgorga fuori la potenza creativa cui anela da ventinove anni. La sera del 22 settembre 1912 si siede alla sua scrivania, come ogni sera. Prende in mano carta e penna e inizia a scrivere La Sentenza. Non si allontana dal tavolo per ore, fino a quando la luce dell’alba non giunge a impallidire l’oscurità in cui scrive. Inizia alle 10 di sera e finisce alle 6 di mattina. Il racconto verrà pubblicato l’anno dopo con la dedica alla “Fräulein Felice B.”. Scriverà che “solo così si può scrivere, solo con questa coerenza, con questa apertura totale di corpo e anima.” È un momento fondamentale della sua vita, momento in cui comprende di essere destinato alle tenebre, di poter scrivere solo quando scende nel pozzo di se stesso, liberando i fantasmi che giacciono sul fondo. Talvolta pare di riuscire a vederlo, intento nell’atto di scrivere, curvo sul foglio. Il corpo ricoperto da uno strato di pellicola. Pare di riuscire a vederlo soffocare da quell’altra parte della realtà. Noi, da questa, guardiamo esterrefatti, fino a che non entriamo nelle sue storie e ogni cosa torna al proprio posto. L’autore soffoca nello sforzo di lasciarci intravedere cosa accade dall’altra parte. Scende per noi nelle tenebre, fa il viaggio al nostro posto, e ci lascia segni che probabilmente non finiremo mai di interpretare.
La risposta di Felice arriva il 28 settembre, l’emozione è incontenibile. Le scrive in ogni momento libero, a lavoro, alla sua scrivania, a letto. Vuole sapere ogni singolo e insignificante dettaglio della sua vita, quando esce di casa per andare al lavoro, cosa mangia, i nomi delle persone con cui esce. L’attesa delle risposte si fa sempre più tremenda. Se non risponde subito, la bombarda di telegrammi, pensa con ansia che si sia ammalata, o si tormenta all’idea di averla potuta offendere. Ogni ritardo è una falla nel sistema, l’ipotesi che le sue lettere vadano perdute non lo fa dormire la notte, la mancata risposta subitanea da parte di lei è pura malvagità. Ciononostante questo è uno dei periodi più floridi, sereni e leggeri della sua vita: è, per la prima volta, sicuro di sé. La scrittura delle lettere a Felice, le sue risposte che gli riconsegnano un posto nel mondo, la gioia elettrica delle incertezze amorose. L’insonnia si trasforma in opportunità, le ore della notte non sono più i minuti da sopportare col contagocce, ma il regno in cui nasce la sua opera. Tra l’ottobre e il novembre del 1912 inizia il suo primo romanzo, America. Il 17 novembre, una domenica, è chiuso in camera sua, angosciato dall’attesa delle lettere di Felice che non arrivano. Steso supino sul letto, s’immagina di venir espulso dal mondo, come un paria, come un parassita, come un insetto. Inizia a scrivere un racconto che finirà il 7 dicembre: è La Metamorfosi. È Gregor Samsa che “un mattino, al risveglio da sogni inquieti, si trovò trasformato in un enorme insetto”. Con La Metamorfosi inizia a delinearsi la tensione centrale della sua opera, quella tra l’io e il mondo, dove il polo “mondo” può indifferentemente venir sostituito dai termini di “padre”, “legge” o “dio”. Qui per la prima volta vediamo compiutamente la Realtà dello scrittore. Una Realtà altamente improbabile, se non totalmente impossibile. Una Realtà impossibile, che tuttavia non ammette stupore. Gregor si sveglia trasformato in un insetto, ma non si ferma un secondo ad interrogarsi sul perché. Piuttosto ragiona su come andare al lavoro, su come farsi comprendere, su come continuare ad aiutare la sua famiglia. L’assurdo è il quotidiano – le convenzioni, le regole, gli eventi. È il terreno dove si consuma la vita.
Nei due mesi in cui scrive La Metamorfosi, interrompe la stesura di America. Poi chiede la mano a Felice. Felice accetta, lui si emoziona, poi ci ripensa. Le scrive che non è adatto al matrimonio. Le elenca i motivi per cui lei non dovrebbe sposarlo. La ama al limite delle sue capacità, ma “questo amore giace sepolto fino all’asfissia sotto strati di paura e autoaccuse”. È convinto del fatto che il matrimonio sia un dovere che deve assumersi e che probabilmente sia l’unica via possibile per raggiungere la felicità. È la terra promessa a cui ambisce, dove finalmente verrà ammesso al mondo degli adulti responsabili, dove troverà pace il senso di colpa di non essere un figlio degno. Ma è al tempo stesso una gabbia, un’illusione, una finta giocata contro la sua stessa natura. Le poche energie di cui il suo debole corpo dispone vuole dedicarle alla sola letteratura. Tutto ciò che si pone d’intralcio tra la mente e la carta è da evitare: il lavoro, i rumori, la vita matrimoniale. Anche quando Felice gli propone di starsene seduta in silenzio di fianco a lui che scrive, il rifiuto è categorico, “perché scrivere comporta la rivelazione di se stessi all’eccesso: questa suprema autorivelazione e resa, nella quale un essere umano che si relazioni con un altro sentirebbe di perdere se stesso […] E nemmeno questo grado di autorivelazione e resa basta per scrivere. Per questo uno non è mai abbastanza solo quando scrive, per questo non c’è mai abbastanza silenzio intorno a chi scrive, per questo nemmeno di notte è abbastanza di notte. Per questo uno non ha mai tempo sufficiente, perché i cammini sono lunghi ed è facile deviare. […] Ho pensato molte volte che la modalità di vita idonea per me sarebbe sedermi nella stanza più interna di un seminterrato ampio e chiuso a chiave, con i miei utensili di scrittura e una lampada. […] E come scriverei! Da quali profondità lo trarrei! Senza sforzo! Perché la concentrazione estrema non conosce lo sforzo.”
“Carbonaio!” grido con voce cupa per la vampa del gelo, tra le nuvole di fumo del mio alito. “Carbonaio, ti prego, dammi un po’ di carbone. Il mio secchio è così vuoto, che posso andarci a cavallo. Sii buono! Ti pagherò appena posso”. Il carbonaio porta la mano all’orecchio. “Ho sentito bene?” chiede, senza voltarsi, alla moglie che lavora a maglia, accanto alla stufa. “Ho sentito bene? Clienti”. “Non sento nulla”, dice la moglie, respirando tranquilla sopra il suo lavoro, con un piacevole tepore sul dorso. “Ma sì!” grido io. “Sono io, un vecchio cliente, fedele, affezionato: per il momento, però, senza mezzi”. “Moglie,” dice il carbonaio, “guarda che c’è qualcuno; non posso sbagliarmi tanto: deve essere un vecchio, vecchissimo cliente, se sa parlare così al mio cuore”. “Cos’hai?” fa la donna, stringendo, per una breve pausa, il suo lavoro contro il petto. “Non c’è nessuno, la strada è vuota, i clienti sono tutti riforniti; potremmo tenere chiuso per due giorni, e riposare”.
Felice non demorde, lui le descrive il suo futuro di sposa di “un uomo malato, debole, scontroso, taciturno”, incatenato da catene invisibili a una letteratura invisibile. L’euforia, la fiducia in se stesso e la potenza creatrice lasciano posto ad una serie di notti insonni a ripetizione, un abbandono negli abissi della sua depressione e un’incapacità di continuare a scrivere. La pellicola si strappa e lui resta ad annaspare dalla nostra parte. Non scrive niente se non le lettere a Felice, che si fanno sempre più rade e in cui ribadisce l’impossibilità di sposarsi. Perché Felice persevera in questa situazione? Il suo obiettivo è probabilmente un matrimonio con un uomo decente, e si è ritrovata impantanata in uno scambio epistolare con un maniaco. Magari è convinta che sia un genio più che un pazzo, o è ammaliata dalla potenza delle sue lettere. Qualunque sia il motivo, non desiste. Anzi, Felice, la pragmatica, decide di prendere in mano le redini della situazione: a fine anno chiede alla sua amica viennese Grete Bloch di recarsi a Praga per aiutarla a ricomporre la relazione. Grete accetta, ma i piani non vanno esattamente come previsto: il promesso sposo inizia anche con lei uno scambio epistolare fittissimo. Non parlano troppo di Felice, ma le chiede piuttosto i dettagli più minuti della sua esistenza, secondo questa sua particolare maniera di esprimere affetto. Non ci sono certezze sulla natura del rapporto con Grete, ciò che sappiamo è che lui a tratti vaneggia sull’ipotesi di un matrimonio a tre, e che lei sostenne, anni dopo, di aver partorito un figlio da lui, morto da piccolo. I biografi ancora litigano sull’esistenza di questo ipotetico erede.
Qualunque fosse la vera natura del rapporto tra i due, Grete riesce in ogni caso nella sua missione. Ad aprile del 1914 infatti lo convince a recarsi a Berlino per organizzare ufficialmente il matrimonio, la cui data viene fissata per settembre. Tutto sembra procedere per il meglio, il matrimonio è in vista e le sue ansie si attenuano. Il 12 luglio però torna a Berlino e viene accolto nell’Askanischer Hof da Felice, Erna (sua sorella) e Grete. Ciò che accade di preciso durante questo incontro non si sa: l’unica certezza è che il promesso sposo viene giudicato (nel suo diario lui parlerà del “tribunale dell’hotel”) e condannato dalle tre donne. Di che natura siano le accuse non è chiaro, ma è probabile che Grete abbia mostrato a Felice le lettere ricevute dal suo promesso sposo. Il matrimonio salta e il processato torna tristissimo a Praga.
Ad agosto, dopo un anno e mezzo di silenzio, ricomincia a scrivere. Il Processo lo scrive in sei mesi, tutte le notti, senza sosta, rimanendo al tavolo da lavoro fino a dieci ore consecutive. A ottobre fa una cosa che non ha mai fatto prima e che non farà mai più in futuro: chiede due settimane di permesso per lavorare al romanzo. Dello stesso periodo sono anche Nella colonia penale e gli ultimi capitoli di America, abbandonato nel novembre del ‘13 per dedicarsi a La Metamorfosi. Scrive a questo ritmo fino al gennaio del 1915.
Ne Il Processo Josef K. si sveglia una mattina e scopre di essere stato arrestato. Nessuno gli rivela quale sia il capo d’accusa. Tutti sembrano essere al corrente della sua colpevolezza, nonostante lui si dichiari assolutamente innocente. Nel libro le scene sono dirette, il tempo è una somma di fermo-immagini, un vuoto di fondo colma gli spazi tra le righe. Il romanzo ha un ritmo inesistente, i capitoli sciolti descrivono due ore o al massimo una giornata, è tutto grigio, asfissiante, monotono, disperato. C’è un muro tra noi e Josef K., personaggio arrogante, presuntuoso ed egoista. Per la condanna de Il Processo non esistono assoluzioni o innocenti. L’unica liberazione dalla colpa sarà la morte, che il protagonista aspetterà per strada, come se una premonizione lo avesse avvisato dell’imminenza della sua condanna. Il Processo disegna l’assetto gerarchico del cosmo dell’autore: sulla cima della piramide c’è dio, o padre, o legge, onnipotente e irraggiungibile. Un gradino più in basso ci sono i custodi della legge, lontani e imperscrutabili. In fondo, alla base, ci siamo noi, che non capiamo nulla. Tra la base dove stiamo noi e la cima dove stanno loro, si dispiega una moltitudine infinita di intermediari, burocrati e funzionari, che non fanno che rendere impossibile la comunicazione tra un livello e l’altro.
A luglio del 1916 fa un meraviglioso viaggio di dieci giorni a Marienbad con Felice, con la quale era rimasto fino ad allora in un contatto sporadico e astioso. Durante quei dieci giorni, decidono nuovamente di fidanzarsi. Lo spinge il senso del dovere per un passo che ritiene necessario, nonostante la donna che dovrà sposare non abbia niente in comune con lui, nonostante lui sospetti che lei non l’abbia mai capito, nonostante il primo tentativo di matrimonio sia miseramente fallito. A novembre litigano a Monaco, dopo una lettura che lui fa de Nella colonia penale davanti ad un pubblico completamente indifferente, se non ostile.
“Ma sono qui, seduto sul secchio!” grido, mentre lacrime insensibili di freddo mi velano la vista. “Alzate gli occhi, per favore: mi vedrete subito; vi chiedo una palata sola; ma se me ne darete due, mi renderete felicissimo. Tutti gli altri clienti sono riforniti. Ah, che già odo lo strepito nel secchio!”. “Arrivo”, dice il carbonaio, e s’accinge a salire, con le sue gambe corte, la scala, quando la moglie gli è accanto, l’afferra per un braccio e dice: “Rimani qui. Se continui nella tua ostinazione, salirò io. Ricordati che hai tossito, stanotte. Ma per un affare, sia pure immaginario, dimentichi moglie e figlioli, sacrifichi i polmoni. Vado”. “Digli, allora, tutte le qualità che abbiamo in magazzino; i prezzi, te li grido io”. “Bene” dice la moglie, e sale in istrada. Naturalmente, mi vede subito.
La fine definitiva di questa relazione quasi esclusivamente epistolare la segna un evento esterno. Una notte di agosto del 1917 lo sveglia un violento attacco di tosse. Quando la tosse si quieta, intravede una macchia scura sul fazzoletto. Si mette a sedere, inclina il fazzoletto verso la finestra, affinché la luce riveli la natura della chiazza. È sangue. Si alza in piedi, il petto brucia, va verso la finestra. La apre e resta lì, così, a guardare il buio fuori. Qualche giorno dopo gli viene diagnosticata la tubercolosi. Secondo la sua interpretazione, la tubercolosi significa metaforicamente diverse cose: è una manifestazione psicosomatica dell’ansia, dell’insonnia, della tristezza; è una conseguenza dei cinque anni di tira e molla con Felice e un’opportunità per liberarlo definitivamente dal matrimonio imminente; è anche un castigo inflittogli dal corpo per le colpe commesse. Il dottore prescrive tre mesi di riposo. A settembre parte per Zürau, un paesino a cento chilometri di distanza da Praga, insieme all’amata sorella Ottla. A Zürau, isolato dal mondo, coccolato dalla sorella e spogliato di ogni responsabilità, sta benissimo. Descrive questo periodo come il più felice della sua vita. Il silenzio è un balsamo per la sua nevrosi. Non parla, di notte sta alla finestra, si sente libero dalla famiglia, dal lavoro, da Felice, dalla letteratura, dalla realtà e dal futuro, perché la tubercolosi quantomeno gli regala la consolazione di una morte relativamente imminente. L’idillio però non dura a lungo, inizia a tornare vittima dei suoi fantasmi, le ossessioni prendono possesso di lui anche nel luogo in cui è stato più sereno. In una notte d’insonnia sente il rumore di centinaia di piccoli passi, sono ratti onirici che mangiano le pareti, non chiude occhio all’idea di cosa potrebbero fargli. Si prende una gatta per scongiurare il pericolo dei ratti, ma scopre di avere paura anche di lei. Ottla si rende conto della salute precaria del fratello e organizza il rientro a Praga. Di questo periodo ci resteranno Gli Aforismi di Zürau, gli scritti in assoluto più metafisici, mistici e di difficile comprensione della sua intera produzione. Gli Aforismi di Zürau nascono da una furia autoanalitica, consumata guardando fuori dalla finestra nelle interminabili notti d’insonnia, che rischia di portarlo alla follia. Lo scrittore s’interroga sulla natura del bene e del male, e arriva alla conclusione che il bene è ingenuo e non conosce se stesso, mentre il male conosce i suoi abissi, le sue stesse macchinazioni, astuzie, enigmi. Il male conosce l’universo intero.
Nel 1918 entra ufficialmente in malattia, a causa del peggioramento costante della tubercolosi. L’anno dopo conosce a Praga Milena Jesenská, giovane giornalista, intenzionata a tradurre alcuni suoi racconti dal tedesco al ceco. Milena è una ragazza dell’élite ceca di Praga. Ha fama d’aver avuto un’adolescenza sfrenata tra droghe, sesso e ribellione ai costumi dell’epoca. Quando il padre, convinto antisemita, viene a sapere del suo flirt con Ernst Polak, un uomo ebreo di dieci anni più grande di lei, la fa internare in un ospedale psichiatrico. Quando esce dalla clinica, ormai maggiorenne, Milena sposa Ernst e si trasferisce con lui a Vienna, dove vivono in una forma di “matrimonio aperto”, che è per lei causa di molta sofferenza. Lo scrittore le scrive la prima volta quando è in una casa di cura a Merano. Nelle lettere, lei confessa quasi subito di essere profondamente triste a Vienna, di “respirare un’aria irrespirabile”. Di Milena ad attrarlo è proprio questa sua tristezza. Si innesca una nuova relazione d’amore epistolare, una valanga di lettere dove si apre come non fa mai nella vita di tutti i giorni. Lei gli propone di andare a trovarlo a Vienna. Lui accetta, poi rifiuta, poi ci ripensa. L’ansia della decisione lo attanaglia, l’ipotesi della vicinanza aldilà delle lettere gli fa perdere il sonno, si ossessiona cambiando ripetutamente idea. Infine, si decide e, sulla strada di ritorno dal sanatorio a Praga, passa da Vienna. Nella capitale austriaca stanno insieme quattro giorni: il primo giorno è consumato dall’incertezza, il secondo giorno è consumato da ancora più incertezza, il terzo giorno si pente di aver sprecato i due giorni passati a farsi consumare dall’incertezza e infine passano un quarto giorno felice insieme.
In questo stesso periodo, egli è teoricamente già promesso ad un’altra ragazza: Julie Wohryzek. Julie l’ha conosciuta durante un congedo medico nelle montagne di Schlesen: ha ventidue anni e fa la modista. Quando torna a Praga dal viaggio a Vienna, incontra Julie per strada e le racconta senza mezzi termini di Milena. Mentre Julie cerca disperatamente di salvare la relazione, lui muore di gelosia per le lettere in cui Milena gli parla del marito. La passione per Milena e il senso di colpa per aver fatto soffrire Julie non fanno che aggravarne le condizioni di salute. L’indecisione, la gelosia e i salti del cuore aumentano i colpi di tosse. Annota nel diario che tossisce regolarmente dalle 21.30 alle 23 ogni sera, poi si addormenta, si sveglia un’ora dopo e ricomincia a tossire. Decide di chiudere con entrambe. Scrive a Milena di non cercarlo più, però lei continua a scrivergli, a chiedergli di vedersi, vuole stargli vicina. Si incontreranno ancora ad agosto a Gmünd, al confine tra Austria e Cecoslovacchia, ma ormai sono quasi due sconosciuti agli occhi l’una dell’altro. Poi lui continua a chiederle di smettere di scrivergli, e lei insiste nel farlo, fino a che nel ‘21, una volta tornato a Praga dall’ennesimo ritiro in una casa di cura, le affida i suoi diari, come a sancire l’atto finale della relazione. È abbattuto, stanco, stremato. Si rende conto di non aver amato mai, se non epistolarmente. La sua intera vita amorosa, al di fuori di brevissimi soggiorni, sono state lettere. Lettere che hanno creato ombre, spettri, fantasmi di se stesso e delle persone amate. Per evitare la vicinanza, si è sepolto in un cimitero di fantasmi. “La facilità di scrivere lettere deve aver portato nel mondo uno spaventevole scompiglio delle anime. È infatti un contatto con fantasmi, e non solo col fantasma del destinatario, ma anche col proprio che si sviluppa tra le mani nella lettera che stiamo scrivendo, o magari in una successione di lettere, dove l’una conferma l’altra e ad essa può appellarsi per testimonianza. […] Scrivere lettere però significa denudarsi davanti ai fantasmi che stanno avidamente in agguato. Baci scritti che non arrivano a destinazione, ma vengono bevuti dai fantasmi lungo il tragitto.”
“Signora carbonaia,” grido, “la riverisco; solo una palata di carbone; qui nel secchio; ecco; la porterò io stesso a casa; una palata del peggiore. La pago, naturalmente, ma non ora, non ora, non ora”. Suono di campane delle due parole “non ora”; come si mescolano, sino a confondersi, con le note serotine che si odono dal campanile vicino! “Cosa vuole, dunque?” grida il carbonaio. “Nulla,” replica la moglie “proprio nulla; non vedo nulla, non sento nulla; suonano le sei, piuttosto, chiudiamo. Che freddo! Domani avremo ancora molto lavoro, penso”
A gennaio del ‘22 soffre di una fortissima crisi nervosa: non riesce a dormire, a stare sveglio, a sopportare la vita. A fine mese parte per Spindlermühle, nelle montagne al confine tra la Polonia e la Repubblica Ceca. Nella pensione lo registrano erroneamente come Josef K., come il protagonista de Il Processo scritto otto anni prima. Forse è proprio questa visita inaspettata di uno dei suoi personaggi a ridestare in lui la voglia di scrivere. Gli spettri della sua letteratura, i fantasmi che ha riesumato dall’altra parte della Realtà, tornano a perseguitarlo nei modi più beffardi. In questo paesino di montagna, lontano da ogni forma di civiltà, immerso nelle nebbie, inizia a scrivere Il Castello. La furia autoanalitica si trasforma in furia creatrice. In due mesi scrive 170 pagine stampate. Mai come ora l’atto di scrivere è stato dare voce ai demoni che giacciono sul fondo. Inizia però a stare male di nuovo. A dominarlo nella vita, ormai, è una paura enorme e, quando questa paura manca, è la paura della paura stessa ad assillarlo. Ha paura che l’angoscia torni, sente che deve proteggersi dal mondo e da se stesso. Abbandona Il Castello, terzo e ultimo romanzo rimasto incompiuto. Ne Il Castello dio non è più parte della quotidianità, come ne Il Processo, ma si è isolato sulla cima di un monte a cui ci è negato l’accesso. Questo nuovo dio è passivo, indifferente, ironico: ha perso qualsiasi relazione con noi. Restiamo soli nel mondo.
Lo scrittore non sopporta la felicità. Pensa che l’allegria di vivere lo distragga dalla voce del destino. Il suo compito su questa Terra è quello di ascoltare la voce della disperazione. L’anno de Il Castello è un anno dedito alla ricerca della disperazione. È un anno di cadute psichiche, ansia, terrori, nevrastenia, dissociazione, quasi pazzia. Ha la sensazione forte e vivida del suo orologio interiore che corre velocissimo rispetto alla regolarità del tempo esteriore. A giugno 1923, in una delle ultime pagine dei suoi diari, scrive: “passeggiate, notti, giorni, incapace di tutto, se non di dolore.” A settembre parte con sua sorella Elli e i suoi tre figli per Müritz, sul Mar Baltico. Di fronte alla pensione dove pernottano c’è un Judisches Volksheim, un luogo di aggregazione per giovani ebrei. Una sera al Volksheim organizzano una cena in suo onore, cucinata da una cuoca che non sa cucinare. È Dora Dymant, ragazza ebrea polacca di venticinque anni. Dora s’invaghisce subito di quest’uomo alto, dolce, riflessivo. Lo osserva da lontano, lo segue, lo spia quando sta sulla spiaggia a giocare coi nipoti. La sera della festa in suo onore, mentre lei è in cucina a preparare carne, lui la nota per la prima volta e le dice: “Che mani troppo tenere per un lavoro così sanguinolento!”. Nel giro di pochi giorni sono entrambi innamorati. Dopo tre settimane decidono di andare a vivere insieme a Berlino nell’autunno di quell’anno. A fine luglio del ‘23 però, benché sia andato a nascondersi sulle rive del Baltico e si sia innamorato, i fantasmi lo trovano una nuova volta. Inizia a pensare all’idea del trasferimento a Berlino come a una minaccia. Arriva a pesare 54 chili. Il 24 settembre, nonostante le valanghe di indecisione che lo sommergono a giorni alterni, si decide e parte per Berlino. Porta con sé pochi vestiti, pensa di fermarsi solo alcuni giorni. Resterà lì sei mesi.
A Berlino con Dora vive in tre case diverse. Le prime due case sono a Steglitz. A febbraio si trasferiscono a Zehlendorf. La Berlino del bienno ‘23-’24 è una città devastata dalla miseria, dagli scioperi, dall’inflazione dilagante. Il nostro ha paura di andare nel centro “crudele e terribile” della città. Nonostante i fragori, i pericoli e le insidie di una città così grande e così povera, l’autunno è meraviglioso. Tiepido e dorato. L’autunno più bello, l’ultimo della sua vita. Il vento spettina i mucchi di foglie secche agli angoli dei marciapiedi, i raggi del sole brillano tra i rami scuri degli alberi, che vanno via via spogliandosi. Il blu del cielo sfumato dai rossi, gialli e arancioni della terra. L’odore è dolce. Passeggia tra le villette e i giardini del suo quartiere, gli piace andare all’Orto Botanico dietro casa, alcune sere va a lezione di Talmud nella Scuola Superiore di Scienza Ebraica. Nello Stadtpark Steglitz, durante una passeggiata, incontra una bambina che piange, perché ha perso la sua bambola. Per consolarla, le dice che la sua bambola è partita per fare un viaggio e che sicuramente le scriverà presto per farle avere sue notizie. La bambina lo guarda perplessa, così lui torna a casa e si mette subito a lavorare alla lettera. Descrive i luoghi che vede, le persone che conosce e le manda tanti baci. Il giorno dopo torna al parco, trova la bambina e le legge la lettera. Ogni giorno, per tre settimane, scrive una lettera da parte della bambola alla bambina, inventandosi pensieri, itinerari e vicissitudini, fino a che la bambina ha completamente dimenticato la bambola ed è interessata solo alla storia che quest’uomo strambo, alto e dolce le narra giorno per giorno. Non sa come far finire questo gioco, ci pensa a lungo e si confronta con Dora: infine, decide di far sposare la bambola. Nell’ultima lettera descrive per filo e per segno il matrimonio, il vestito, gli invitati e chiude la corrispondenza dicendo che penserà sempre alla bambina e che le mancherà molto.
Non vuole tornare a Praga, né vuole che nessuno lo venga a trovare a Berlino. Dopo un periodo di calma e serenità, scrive a Brod ad ottobre che i fantasmi sono tornati. Questa volta però non vuole lasciarsi sopraffare dall’angoscia e ragiona sulle strategie per riuscirci. Una di queste, pensa, potrebbe essere quella di bruciare tutto ciò che ha scritto sotto l’influsso dei fantasmi. Non compie mai questo “rituale purificatore”, ma un giorno in cui sta particolarmente male, obbliga Dora a bruciare alcuni racconti e un’opera teatrale. Nel frattempo, l’autunno tiepido è diventato un inverno rigidissimo. Lui e Dora non hanno un soldo, la sua pensione si volatilizza con l’inflazione tedesca, sopravvivono dei pacchi che manda la famiglia di lui da Praga. La famiglia, allarmata dalla sua salute e dal freddo che non fa che peggiorarla, chiede allo zio Siegfried, un medico, di andare a visitarlo. Lo zio arriva in città il 21 febbraio, assiste entusiasta a una lettura di Karl Kraus e poi convince il nipote a farsi ricoverare in un bosco nei pressi di Vienna. A marzo, accompagnato da Brod, torna a Praga. Inizia a fargli male la gola e la sua voce diventa un bisbiglio. Non riesce quasi più a bere o mangiare. Pesa 49 chili. Va prima nel sanatorio consigliato dallo zio, poi viene spostato in una clinica specializzata. Il percorso dall’uno all’altra lo fa su una carrozza aperta, sotto la pioggia battente, con Dora che cerca di proteggere il corpo del malato con il suo. Infine, viene spostato una terza volta, a Kierling, da dove non se ne andrà mai.
Nella vita non gli era mai piaciuto ricordare, ora invece rammenta l’amicizia giovanile con Brod, l’infanzia coi genitori, Merano, Felice Bauer. Ha paura, piange, non vuole morire. Si fa leggere la bozza del suo ultimo racconto: Un digiunatore. Fa l’elogio dei liquidi che non può più bere, persino della birra scura che il padre ama e lui non ha mai bevuto con gusto. Tutto ciò che nella sua letteratura non ha mai trovato spazio – la natura, i fiori, l’acqua – assume ora un’importanza fondamentale. Dora e Klopstock, un amico di vecchia data, gli riempiono la stanza di fiori. Vuole riconciliarsi col padre, gli manda lettere affettuose, nelle quali vaneggia su quando andranno a bere insieme le Schwechat doppio malto. Ma non vuole in ogni caso che i genitori vengano a trovarlo. Un mattino impazzisce nel letto, la morfina non fa più effetto, caccia via l’infermiera in malo modo. Si strappa la sonda e la lancia lontano. Quando Klopstock si allontana dal letto per raccogliere l’ago, lui gli dice “Non se ne vada”. “Non me ne vado”, risponde Klopstock. “Sono io che me ne vado”, risponde Franz Kafka, le ultime parole prima di spegnersi, il 3 giugno del 1924, un mese esatto prima di compiere 41 anni.
“Tutto quello che muore ha avuto, prima, in certo modo uno scopo, un’attività in cui si è logorato.”
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Scrivere una biografia è una questione di scelte. Ogni scelta presuppone anche l’affermazione del suo negativo, del non scelto. Una vita che si dispiega in quarant’anni, non può venir narrata in un numero limitato di battute, se non a costo di attuare tagli consistenti, di sacrificare giorni, mesi, addirittura anni. È una violenza che si compie sulla vita di una persona, un’imposizione narrativa, un’amputazione non consensuale. Per compensare il taglio ingrato e arbitrario degli eventi che ho operato sulla vita di Franz Kafka, ho deciso di aggiungere un pezzo. Aggiungere un finale, quello che manca ai suoi tre grandi romanzi, quello che piace immaginare a me:
Non vede nulla e non sente nulla; tuttavia, si slaccia il grembiule e, agitandolo, cerca di cacciarmi via. Purtroppo, le riesce. Il mio secchio ha tutte le qualità di una buona cavalcatura; non ha resistenza; è troppo leggero; basta un grembiule, perché sollevi le zampe da terra. “Cattiva!” le grido dietro, mentre quella, accingendosi a rientrare nella bottega, a metà sprezzante, a metà soddisfatta, agita una mano per l’aria. “Cattiva! Ho chiesto solo una palata del peggiore, e tu non me l’hai data”. Quindi salgo nelle regioni delle Montagne di Ghiaccio e mi perdo, irrevocabilmente.
Bibliografia:
Linda Farata nasce nel 1994 a Milano. Studia filosofia e letteratura tra Milano, Berlino e Città del Messico. Lavora come editrice per la posterzine Lahar Berlin.
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