Quella di Jan Ullrich non è la storia classica di chi arriva sempre secondo, di atleti che, si dice, non vengono mai ricordati. Se molte medaglie d’argento sbiadiscono negli almanacchi, non viene invece dimenticato chi dell’arrivare alle spalle dei primi ha fatto un segno distintivo.
Nel calcio ricordiamo Hector Cuper, che dopo le due finali di Champions perse consecutivamente con il Valencia e prima della coppa d’Africa sfuggita all’ultimo atto sulla panchina dell’Egitto, ha guidato l’Inter nel nerissimo 5 maggio 2002. L’Hombre Vertical, un grande allenatore che pur qualche trofeo in bacheca l’ha messo, ha collezionato nella sua carriera da giramondo una quindicina di secondi posti, che gli sono valsi il soprannome di “eterno secondo”.
Un epiteto affibbiato anche a Michael Ballack, maestoso centrocampista tedesco dei primi anni 2000, che ha conquistato scudetti (storico quello con il neopromosso Kaiserslautern) e coppe, ma ha messo in fila anche tantissimi secondi posti. Il record nel 2002, quando in quindici giorni perde Bundesliga, Coppa di Germania e finale di Champions, per ripetersi un mese dopo in Giappone, uscendo sconfitto dalla finale mondiale (non giocata per squalifica) contro il Brasile.
Nel ciclismo sono molto diffuse queste figure di “campioni-perdenti”. Spesso grandi stelle della bicicletta sono state oscurate da un loro, imbattibile, rivale. È il caso di Jan Ullrich, passista potente, fortissimo cronoman e solido scalatore, ricordato oggi principalmente per i suoi secondi posti al Tour (cinque, di cui tre dietro ad Armstrong, a fronte di un solo successo)e per una carriera stroncata dalla squalifica per doping.
In molti si chiedono cosa sarebbe stato Kaiser Jan, primo tedesco a vincere la Grande Boucle, senza Lance Armstrong, il gigante americano che ha cannibalizzato tutti i rivali sulle strade francesi, prima di arrendersi alla commissione antidoping. Abbiamo provato a chiederlo a Gianni Mura, storica firma del ciclismo su Repubblica, che il 28 luglio 1997, il giorno dell’unico trionfo a Parigi di Jan, scriveva: «Un gran bel Tour, un gran bel vincitore. La prima volta di un tedesco giovane, che sin dall’anno prima aveva fatto capire (secondo a 1’41’’ dal danese Bjarne Riis) tutto il suo valore. Riis aveva vinto il suo Tour in salita, Ullrich lo ha vinto un po’ dappertutto, adattandosi alle tre fasi. Nella prima, di attesa, non cade mai, sta sempre nelle prime posizioni. Nella seconda, Pirenei per gente in salute e cronometro complicata, va all’attacco. Nella terza, altre montagne e cronometro banale, si difende bene».
Gianni Mura, come mai Jan Ullrich non ha mai battuto Lance Armstrong al Tour? L’americano era semplicemente superiore, o il tedesco lo soffriva?
«Sicuramente Ullrich lo soffriva, ma Armstrong era sia tatticamente che psicologicamente superiore, oltre che meglio guidato dall’ammiraglia. Forse con un team smaliziato sarebbe riuscito ad arrivare davanti a lui, almeno una volta».
Nato a Rostock nel 1973, nell’Est della Germania divisa, a vent’anni vince a Oslo il mondiale in linea nella categoria dilettanti, in quel 1993 in cui la sua nemesi americana si aggiudica la prova tra i pro. Nell’infanzia di Jan ci sono il fratello maggiore Stefan, da cui prende la passione per la bicicletta, e la madre, che deve mantenere da sola loro due e gli altri fratelli, Thomas e Felix: il padre abbandona la famiglia quando il futuro vincitore del Tour ha solo tre anni. Molto importanti diventano così il suo tecnico alla Dynamo Rostock, Peter Saager, sotto la cui guida inizia a pedalare e vince la prima gara a soli dieci anni, e l’allenatore federale Peter Becker, al comando dell’associazione sportiva della Ddr.
È proprio Saager a segnalare il talento di Ullrich a Becker, che va a visionarlo a Potsdam in una uggiosa gara di ciclocross nel novembre del 1986. L’allenatore della Ddr lo tessera immediatamente nello Sportclub Dynamo Berlin, e a soli tredici anni Jan si trasferisce in un grigio casermone della Berlino est, assieme ad altri giovani sportivi.
Gli agi non sono certo quelli di un hotel a cinque stelle: sveglia alle sei, doccia gelata, televisione spenta (il Tour si guarda di nascosto), eppure Jan trova da subito in Becker una guida fondamentale.
«Ullrich dava ciecamente retta al suo allenatore federale – racconta Gianni Mura, che ha seguito dal vivo tutti i Tour negli anni di Ullrich (e tuttora li segue) – Becker era per lui la figura paterna che non aveva avuto da piccolo. Forse anche per questo, quando nel salto al professionismo viene a mancare questo riferimento, la scarsa tenuta psicologica di Ullrich prende spesso il sopravvento: capita che al primo ostacolo Jan si guardi intorno, ciondolando disorientato, per poi gettare subito la spugna».
A Bonn, capitale della Germania Ovest fino alla caduta del muro, succede che il mercato comunale venga annullato solo due volte. La prima, in occasione di una visita di Gorbaciov nel 1989, la seconda nel 1997, quando la Deutsche Telekom, la squadra di Ullrich, festeggia la vittoria di quest’ultimo sulle strade del Tour. Il Kaiser diventa subito un fenomeno nazionale, che tiene milioni di persone davanti al televisore a vedere il ciclismo: un tedesco che vince in Francia, massimo orgoglio per la Germania. Le imprese di Ullrich accendono l’entusiasmo della gente e c’è grande speranza per quello che sembra poter essere il dominatore assoluto delle stagioni a venire. Una speranza che verrà purtroppo disattesa. Nonostante altri successi, come l’oro olimpico a Sidney 2000 e il doppio oro mondiale a cronometro (Treviso 1999 e Lisbona 2001), Jan Ullrich si trasforma, nel giro di pochi anni, in una promessa non mantenuta.
Mura, possiamo dire che Ullrich abbia raccolto meno di quanto ci si aspettasse?
«Assolutamente. Quando ha vinto il primo Tour, tutti qui dicevamo: “Abbiamo trovato il vincitore per i prossimi sei anni”. Ricordava un po’ Indurain, molto forte a cronometro, pesante, ma per nulla a disagio sulle salite, non era uno che si difendeva e basta. Certo, ha vinto trofei importanti, ma per quanto era forte avrebbe dovuto collezionare molte corse a tappe. Per anni ha avuto Armstrong come unico avversario, e Armstrong l’ha sempre battuto. E quando hanno revocato i Tour all’americano, anche lui ha finito per essere coinvolto nell’operacion Puerto (ndr una delle più grandi contro il doping della storia sportiva), e i titoli sono rimasti vacanti».
Cosa mancava a Ullrich per potersi sedere al tavolo delle leggende del ciclismo?
«Il suo problema non era tecnico o fisico: era un ciclista formidabile, oltretutto molto elegante e bello da vedere in bicicletta. La sua era una mancanza psicologica: non aveva la testa del campione, si scoraggiava con poco e faticava a reggere la pressione. A me ha sempre dato l’impressione di un bambino nascosto in un corpo da adulto. A cominciare da questa sua mania per i dolci, per la quale ingrassava ogni anno di 8-10 chili e si trovava costretto a spendere la prima parte di stagione a riguadagnare il peso forma, cosa che spiega il suo scarso feeling con il Giro d’Italia e con le grandi classiche».
Jan Ullrich si rivela al mondo del ciclismo nel 1996. Dopo la vittoria del campionato tedesco a cronometro 1995 e la prima partecipazione alla Vuelta de España, sempre in quell’anno, terminata con un ritiro a causa del mal di denti, al Tour del ’96 arriva l’exploit.
Pur correndo da gregario al servizio del capitano danese Bjarne Riis, Ullrich rischia quasi di vincere quella Grand Boucle, quando tra i vigneti di Saint-Emilion si aggiudica la penultima tappa (a cronometro) staccando di 56 secondo lo spagnolo Miguel Indurain e insidiando la maglia gialla di capitan Riis. La leggenda narra che lo staff della Deutsche Telekom abbia addirittura imposto a Ullrich di rallentare, per non sfilare il primo posto al danese.
Dopo il suo primo secondo posto al Tour (con vittoria della classifica giovani), l’anno successivo il Kaiser parte ancora da gregario, ma da subito fa vedere di essere superiore al suo capitano. L’obbligato passaggio di consegne avviene nel tappone con arrivo ad Andorra-Arcalis. Jan va in fuga staccando Pantani e Virenque e va a vincere a 2800 metri di alteezza, in quella che rimane probabilmente «la sua migliore impresa sui pedali», almeno agli occhi di Gianni Mura.
Il sigillo definitivo sulla prima vittoria di un tedesco al Tour giunge con la cronometro di Saint Etienne, in cui stacca di tre minuti i principali avversari. Nonostante Pantani e Virenque collezionino successi sulle tappe alpine, Ullrich si difende alla grande, arrivando sotto l’arco di Trionfo con nove minuti di vantaggio sul francese e oltre quattordici sul Pirata.
Il 1998 dovrebbe essere l’anno della definitiva consacrazione. Al netto dei dieci chili presi durante l’inverno, Kaiser Jan si presenta al Tour da grande favorito. Tuttavia, nonostante la vittoria nella prima cronometro e la maglia gialla conservata durante le tappe sui Pirenei, l’epico attacco di Marco Pantani sotto il diluvio del Galibier costringe Ullrich alla resa e a un altro secondo posto finale nella corsa a tappe francese: «Forse sarebbe bastato reagire per limitare i danni – ipotizza Gianni Mura – ma non ne ha avuto la forza, anche mentale, e ha dovuto cedere».
Il ’99 una caduta al Giro di Svizzera lo costringe a saltare il Tour, ma a settembre arriva la sorpresa della vittoria alla Vuelta, iniziata senza grandi aspettative, ma conquistata tappa dopo tappa, con un altro gran successo ad Andorra, salita che evidentemente porta fortuna al tedesco.
Il 2000 e il 2001 sono anni di affermazioni internazionali (Olimpiade e Mondiale), ma anche delle prime sfide con Armstrong, che si dimostra superiore al tedesco e lo relega al secondo posto in tutti e due i Tour: la vittoria a cinque cerchi e quella iridata non bastano per non far allargare intorno a Ullrich l’ombra dell’eterno secondo.
Sin dalle prime vittorie, Jan dimostra di avere la classe del campione, ma non il physique du rôle. E non solo per i problemi di peso: agli antipodi della superstar, Jan gestisce a fatica gli obblighi una volta sceso dalla bicicletta. Soffre il rapporto con i tifosi e non ama le interviste. «Era quasi robotizzato, faceva fatica ad aprirsi – ricorda Mura – rispondeva in maniera educata, ma dando risposte spaventosamente banali». Probabilmente ci aveva visto lungo il suo capitano Riis, che dopo il Tour del ’97 gli consigliava di andare a vivere in Australia, lontano dalla ribalta mediatica. Ma Jan non raccoglie l’invito del danese, e si sposta nella mansarda sopra la casa del padre viticoltore della futura prima moglie, Gaby, dalla quale nel 2003 ha avuto la prima figlia (Sarah Maria). Dal secondo matrimonio, quello con Sara Steinahuser, del 2006, nasceranno altri tre figli: Max, Benno e il piccolo Toni, arrivato nel 2012, quando le fatiche su Alpi e Pirenei e la tensione delle corse sono ormai un lontano ricordo.
Ullrich ha sempre dichiarato di non essere mai stato ossessionato dalla vittoria a tutti i costi, «il suo carattere era quello di uno che non riesce a essere quello che la gente vuole che lui sia. In Germania era motivo di grandissimo orgoglio e di grandi speranze, e quando non riusciva a mantenere le promesse, aveva dei rimorsi e psicologicamente non reggeva il pronostico» spiega ancora Mura. Un campione puro, ma fragile, come tanti se ne sono visti in sella a una bicicletta.
Dopo un infortunio che gli fa saltare l’intera stagione 2002, gli ultimi anni seguono la stessa falsa riga di tutta la carriera: soddisfazioni che si alternano a grandi delusioni, un altro secondo posto al Tour, nel 2003, stagione in cui viene nominato sportivo tedesco dell’anno. Di quella Grande Boucle si ricorda la tappa di Luz Ardiden, l’emblema della distanza agonistica e mentale che separerà per tutta la loro storia sportiva Jan Ullrich e Lance Armstrong. Un passaggio de “La Repubblica” del 21 luglio 2003 recita: «Lance Armstrong fa sua la quindicesima tappa del Tour de France nonostante una caduta nell’ultima salita. L’americano si conferma così maglia gialla mettendo una seria ipoteca sul successo finale che lo porterebbe a cinque Tour vinti. Drammatica la caduta, dovuta all’urto del manubrio della bicicletta del texano con la borsa di uno degli spettatori appostati sul ciglio della strada. Il campione si è subito ripreso, con un guizzo è balzato di nuovo in sella, ha rischiato ancora di cadere, per poi ripartire definitivamente verso la vittoria della tappa. “E’ stata una gran bella giornata per me. Prima di partire sapevo che se volevo vincere il Tour, oggi dovevo guadagnare qualcosa”. Così è stato, perché il texano tornasse a sorridere dopo le difficoltà delle prime due settimane della corsa francese. “Il giorno della cronometro e quello successivo sono stati così così, ma poi mi sono sentito sempre meglio”. E a farlo sorridere oggi è stata anche la prova di sportività del suo avversario numero uno, il tedesco Jan Ullrich che, invece di approfittare della caduta di Armstrong, per due volte non ha affondato, aspettando il ritorno del rivale nel gruppo di testa. Alla fine Ullrich è rimasto staccato di 52 secondi dall’americano che ha vinto da solo. “Il mio mestiere è quello di vincere” dice l’americano a caldo.»
Il 2004 si apre con la bella vittoria nel Giro di Svizzera, ma al Tour la dinasty di Armstrong non si scalfisce, e Jan finisce addirittura ai piedi del podio, quarto, criticato dal suo ds alla T-Mobile Godefroot, che lo punge: «Il talento da solo non basta». Same old story, Jan.
Nel 2005 arriva l’ultimo podio al Tour, conquistato eroicamente dietro a Armstrong e Basso dopo una polmonite in pre-stagione (oltre ai soliti problemi di peso) e a una caduta all’ottava tappa che lo obbliga al ricovero nell’ospedale di Grenoble.
Nel 2006, ultimo anno di carriera, vince la sua prima tappa al Giro (una cronometro) e si presenta finalmente come favorito al Tour dopo il ritiro del rivale texano. È proprio in quei giorni che scoppia però la bomba dell’operacion Puerto. Ullrich viene escluso dal Giro di Francia e licenziato dalla sua squadra, chiudendo la carriera a 33 anni. Pur dichiarandosi sempre innocente, le analisi dimostreranno il suo coinvolgimento nell’utilizzo di sostanze dopanti, e per questo non gli verranno assegnati a tavolino i Tour in cui era arrivato secondo, dopo la squalifica di Lance Armstrong.
Jan Ullrich è stato un eterno secondo con il talento da primo della classe, un ciclista capace di imprese estemporanee e di rumorose cadute, protagonista sui pedali e schivo una volta posata la bicicletta. Un kaiser, ma non un leader. Un bambino imprigionato nel corpo di un adulto, incapace di evadere dal peso delle aspettative.
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