John Negroponte è stato per oltre quarant’anni l’uomo chiave della diplomazia americana e uno dei personaggi più in vista dell’amministrazione di George W. Bush. Vice di Condoleeza Rice al Dipartimento di Stato dal 2007 al 2009, direttore dell’Intelligence Nazionale che supervisiona tutte le agenzie di sicurezza statunitensi, fra cui la Cia, dal 2005 al 2007, Negroponte è oggi Senior Fellow al Jackson Institute dell’università di Yale e, da figura di spicco del partito repubblicano, ha scelto di sostenere la candidatura presidenziale di Joe Biden, convinto che una vittoria di Donald Trump trascinerebbe il paese in un baratro senza precedenti.
Quali saranno le priorità assolute per il prossimo presidente degli Stati Uniti?
La gestione del Covid-19, prima di tutto. Se Biden dovesse vincere implementerà una politica di contrasto alla pandemia molto sistematica, a livello nazionale, diversamente da quanto ha fatto Trump, il cui impegno principale rispetto al coronavirus è stato quello di minimizzare e far finta che la malattia non esista. Dirò di più, la mia opinione è che un’eventuale sconfitta di Trump sia totalmente legata alla maniera in cui ha gestito la pandemia; diversamente, non ci sarebbero stati i dubbi che ci sono oggi sulla sua rielezione. L’economia è un’altra delle nostre priorità, come per tutti ovunque nel mondo, cercando di lavorare sul deficit per far ripartire le nostre aziende. Con una vittoria di Biden vedremmo però, a differenza che in caso di successo di Trump, una presidenza molto concentrata anche sugli affari esteri, per ricostruire le alleanze e la fiducia internazionale negli Stati Uniti.
Su che fronti, soprattutto, potremmo vedere dei cambiamenti in politica estera qualora Biden dovesse essere eletto?
Biden cercherà di rientrare nell’accordo sul nucleare iraniano. Bisognerà confrontarsi con Israele, e, se eletto, Biden proverà a utilizzare la pressione esercitata da Trump su Teheran ampliando il discorso ben oltre la questione nucleare. Il comportamento dell’Iran sullo scenario diplomatico mediorientale è stato trascurato dal primo accordo e per questo bisognerà capire se un rientro degli Stati Uniti sarà senza condizioni o a partire da un nuovo tavolo di trattative che includa un impegno iraniano più ampio che la sola non proliferazione nucleare.
Se Trump verrà rieletto, invece, continuerà nello scontro frontale con l’Iran e a ridurre la presenza americana in Medio Oriente. È chiaro quanto sia cruciale nel suo piano di politica estera la necessità di chiudere le cosiddette “guerre infinite”, soprattutto in Iraq e Afghanistan. Ma è davvero possibile portare a zero la presenza americana in queste aree? La mia opinione è che un numero limitato di truppe dovrebbe rimanere in queste zone. Non sono truppe che vinceranno le guerre, ma che potranno risultare decisive per il supporto in termini di intelligence, logistica e, la cosa più importante, manderebbero un segnale rispetto all’interesse degli Stati Uniti in questa parte del mondo, garantendo la sicurezza. Senza dimenticare la NATO: se gli Stati Uniti restano, allora anche gli altri paesi rimarranno, ma è chiaro che il giorno in cui l’esercito americano dovesse definitivamente abbandonare Siria, Afghanistan, Iraq, anche gli altri paesi NATO si ritireranno, e questo potrebbe scatenare il caos.
Donald Trump ha trasformato la comunicazione politica americana: qual è stato, in questo senso, il ruolo dei social media e delle nuove tecnologie di diffusione delle informazioni?
Se guardiamo ai social media attraverso la lente della filosofia politica ci accorgiamo che quanto accade oggi online si collega alle teorie di Rousseau. Viviamo in una grande “town-hall politics”, il mondo intero è un’enorme sala conferenze e, se sei in grado di pubblicare un tweet, un post, puoi comunicare con tutto il pubblico interessato ad ascoltare ciò che hai da dire. Questo è molto diverso, chiaramente, da un sistema in cui sono i media a filtrare le dichiarazioni della politica, così come trasforma il ruolo dei collaboratori di un candidato alla presidenza, che hanno meno spazio nella trasmissione pubblica delle policy. Il sistema di comunicazione contemporaneo indebolisce, in parte, la democrazia rappresentativa. Siamo delle repubbliche, non viviamo nel sistema politico immaginato da Rousseau, ma in paesi nei quali vengono eletti dei rappresentanti che si prendono la responsabilità di decidere in nostra vece su questioni fondamentali. Trump, invece, è un populista e vuole parlare direttamente con le persone per influenzarle e guadagnare consenso individuale sulle sue politiche. Questi due sistemi presentano due concetti diversi di filosofia politica e mi pare di poter dire che il meccanismo dei social media confligga con l’idea di repubblica rappresentativa. La dinamica della conversazione politica è profondamente cambiata con l’avvento di queste piattaforme online di condivisione, che hanno accorciato la discussione e tolto il tempo di “coltivare” i temi politici all’interno del confronto. È una sfida al dialogo politico tradizionale, con i partiti e i presidenti che, tramite i loro leader, si rivolgono costantemente agli elettori, ai cittadini.È possibile immaginare Donald Trump candidato e presidente degli Stati Uniti d’America in un’epoca pre-social media? Non è dato saperlo ma, di certo, in altri momenti storici gli sarebbe stato richiesto di capire e conoscere le cose di cui parla e si occupa in maniera molto più dettagliata e approfondita rispetto all’approccio estremamente generico che invece lo contraddistingue. La polarizzazione in cui si trovano oggi gli Stati Uniti è parte di questo grande cambiamento nella conversazione politica. I cittadini, individualmente, hanno fatto proprie le tensioni, le distanze, che in questo momento separano i due candidati, Trump e Biden. Centinaia di americani hanno sviluppato l’abitudine di confrontarsi soltanto con chi la pensa come loro e questo, francamente, non è molto “americano” e mi lascia sorpreso. Lo scenario politico statunitense è sempre stato moderato e la domanda che mi faccio è: viviamo un fenomeno temporaneo, qualcosa di unico legato al populismo dei candidati, o è parte di un cambiamento di lungo termine del quale stiamo sperimentando in diretta le conseguenze? Non è possibile adesso dare una risposta, bisognerà analizzare i sistemi politici nei prossimi dieci, quindici anni.
Parlando di social media, gli amministratori di Google, Facebook e Twitter stanno discutendo in questi mesi con il Senato sulla trasparenza delle politiche di moderazione dei contenuti sulle loro piattaforme.
Le grandi aziende della comunicazione online in questo momento sono trattate dalla legislazione americana come se fossero compagnie pubbliche, ma non lo sono e guadagnano moltissimo denaro attraverso la pubblicità. Questo apre una questione legittima: se queste società guadagnano soldi attraverso la sponsorizzazione di contenuti, non dovrebbero essere ritenute responsabili, a qualche livello, per la pubblicazione dei contenuti? Non so come andrà a finire, si tratta di grande discussione, ci sono tanti interessi in gioco, ma posso dire una cosa: sono lieto che il tema sia sul tavolo e che se ne stia parlando, era ormai ora di confrontarsi su questi temi. Un eventuale cambiamento delle norme avrà bisogno di molto tempo, queste sono aziende potenti, aiutate da lobbisti dentro le istituzioni, ma è comunque importante iniziare a discuterne, il solo fatto di chiamare i dirigenti di queste società a giustificare l’operato delle loro piattaforme non ha precedenti ed è fantastico che si sia aperto un dibattito di scala nazionale su questo tema.
Negli ultimi mesi abbiamo assistito a una grande crescita delle tensioni razziali negli Stati Uniti, con movimenti come Black Lives Matter diventati ormai una realtà planetaria. Ci sono delle responsabilità politiche dietro quanto sta succedendo?
Credo sia difficile addossare al presidente Trump la responsabilità delle tensioni razziali. Conosciamo tutti la storia di questo paese e sappiamo che la questione del razzismo non è mai stata completamente risolta, sin dai tempi della Prima Guerra Civile, nel 1865. Le leggi Jim Crow sulla segregazione razziale sono state definitivamente abolite solo nel 1964, siamo andati a combattere la Seconda Guerra Mondiale con unità militari segregate e tutto questo, la schiavitù, il razzismo endemico, costituisce una sorta di peccato originale degli Stati Uniti d’America. Ci sono ancora tanti pregiudizi, forze di polizia problematiche, c’è bisogno di tempo. Il governo federale deve intervenire, utilizzando il Dipartimento di Giustizia per far rispettare i diritti civili: se questo non avviene, con un impegno a livello nazionale da parte della Casa Bianca, è difficile equilibrare la situazione. Certo, Trump avrebbe potuto mostrarsi più proattivo, più forte, ma non gli si può dare la colpa di tutto ciò che sta alla base di queste tensioni. La soluzione passa attraverso dinamiche locali, e la politica deve garantire le stesse opportunità a tutti i cittadini americani. Il problema è che se oggi nasci in una famiglia nera, in un quartiere di periferia di una grande città, la tua vita è segnata per sempre, senza che tu possa farci nulla. Su questo la politica deve lavorare: una buona educazione per tutti, pari opportunità per ogni cittadino americano.
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