Ne sapevo così poco sulla poliomielite prima di conoscere mia moglie, che quasi me ne vergognavo. Mia suocera da bambina ne è stata colpita e ne porta gli esiti e, solo attraverso i suoi racconti, sono riuscito ad avere un buon quadro d’insieme riguardo quella che più comunemente viene chiamata polio oppure, meno comunemente, paralisi infantile.
Mi sono poi informato e, mano a mano che leggevo e studiavo, mi chiedevo come fosse possibile che la gente, soprattutto della mia generazione, avesse come me, una tale ignoranza sull’argomento.
Questo è determinante, a mio parere, al fine di comprendere molti degli aspetti legati alla terminologia epidemia e pandemia – è importante differenziare bene i due significati –, dato che proprio quell’ignoranza generale rispetto l’argomento le accorpa, rischiando di generare il caos, come sta accadendo con il COVID-19, più comunemente chiamato coronavirus.
Dunque, sia l’epidemia che la pandemia si riferiscono alla manifestazione collettiva di una malattia, la quale vede aumentare rapidamente il numero di casi, interessando una determinata area dove il numero di infetti supera la media.
Come ha spiegato Tedros Adhanom, direttore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la differenza fra le due terminologie risiede nel fatto che si parla di pandemia quando un nuovo agente patogeno, dal quale la comunità non è immune, si diffonde rapidamente e con facilità in una zona molto più vasta e diffusa rispetto a quella solitamente interessata da un’epidemia.
L’OMS identifica sei fasi che portano alla pandemia che, anche se osservate con grande superficialità, non posso non dare l’idea della differenza fra le due manifestazioni di contagio.
Arrivo da un week end faticoso, ho preso molto freddo viaggiando, ho parlato a lungo in pubblico, ho dormito male, lontano dal mio letto. Ho preso un brutto raffreddore e, per due giorni, ho perso quasi completamente la voce. Solo oggi, mentre scrivo, riesco a pronunciare le parole senza sembrare un misto fra Paperino e Clarabella e chi li ha mai ascoltati nella versione originale americana, non può che constatare con me che è come sentire sghignazzare il mostro ombra nascosto sotto il letto durante l’infanzia di quasi tutti noi.
Ieri sera sono andato a ritirare un vinile a casa di una persona contattata attraverso Discogs, piattaforma on line che permette l’acquisto di vinili, musicassette e CD da privati e negozi.
Citofono, mi aprono, salgo le scale e loro – un lui e una lei di mezza età – mi attendono davanti alla porta con un sorriso largo così.
È nel momento in cui pronuncio la parola Ciao, alzando la mia manina inguantata, che il loro sorriso scompare. Ma ormai mi hanno invitato ad entrare ed io sto entrando. Sono entrato.
Mi accorgo della mia voce da mostro ombra e provo a giustificarmi dicendo: scusate per la voce, sono un po’ raffreddato.
Lei è come se scappasse, la vedo volatilizzarsi, si scioglie come il T-1000 di Terminator 2 e scompare fra le fessure del parquet.
Lui invece mi dice: Non è il coronavirus, vero?
È terrorizzato, giuro, non ho mai visto uno sguardo tanto inerme, sconfitto, senza speranza.
Sì. Sono infetto, lo ammetto. Ho fatto gli esami, i tamponi, i prelievi e tutto il resto. Mi hanno confermato che sono portatore del virus. Bene. Sono uscito dall’ospedale, perché loro mi hanno fatto uscire, ti ho contattato su Discogs e sono venuto a casa tua per infettare te e tutta la tua famiglia, compresa il T-1000 e i vostri piccoli T-100, se ne avete. La mia missione è quella di infettare più iscritti a Discogs possibili.
No, gli ho risposto, non è il coronavirus, è un raffreddore. Sono raffreddato, non ho la febbre. Mi manca solo la voce.
Lui ha sorriso di un sorriso stretto così, tra le labbra secche dal terrore. Forse un sorriso ebete, o inebetito dal rendersi conto di cosa mi ha appena detto. Consegnandomi il disco e aspettando a mano aperta i miei soldi, tenta di giustificarsi “Sai, non è bello chiederlo, ma andiamo tutti in metropolitana e poi succede.”
Naturalmente, vuoi perché non avevo tutta questa voce da sprecare e vuoi perché non avevo nemmeno tutta questa attenzione da dare, ho fatto un cenno con il capo, ho consegnato i miei soldi e sono scomparso.
Il T-1000 non si è più palesato, nemmeno per salutarmi. L’ho immaginata in bagno a farsi una doccia di Amuchina, dopo essersi rasata a zero.
Di tutta questa tragicomica situazione, ho omesso la collocazione geografica: Berlino, Germania.
Questa cosa non è successa in Italia.
Perché ho aperto questo mio articolo parlando di polio? Perché per una coincidenza abbastanza buffa che non saprei nemmeno se chiamare coincidenza, mi sono ritrovato a iniziare a leggere Nemesi di Philip Roth appena prima che uscisse la notizia del coronavirus. Questo significa che ho cominciato a leggere e poi ho scoperto il problema strisciato fuori dai confini cinesi. Anche il modo in cui sono venuto a conoscenza del libro e l’ho acquistato è abbastanza strano: ho letto molte cose di Roth, ma non sapevo di questo Nemesi. Non sapevo quale che fosse la trama e l’ho comprato a scatola chiusa, senza leggere la quarta di copertina, senza informarmi. Così, perché a volte mi piace rischiare. Lo faccio anche con i dischi: li scelgo in base alla copertina, li compro senza ascoltarli e poi a casa, mettendoli sul giradischi, decido se ho vinto o se ho perso.
Oltretutto, per rendere tutto il processo di acquisizione del libro molto atipico, arrivato alla cassa con questo e altri due volumi, la proprietaria della libreria decide di farmi pagare gli altri due e non quello di Roth. Non mi dice il perché, dice solo: questo te lo regalo. Mistero.
Nemesi è un libro che racconta con precisione chirurgica il terrore della poliomielite in quei decenni, nel modo impietoso e crudo di cui solo Roth, a mio parere, è capace. Perché Roth è uno di quegli autori che non lascia niente al caso, ha la capacità di farti indossare le cose che racconta.
Nemesi è la storia di un giovane insegnante di ginnastica di una scuola di un quartiere povero di Newark che, durante l’estate del 1944, mentre prende l’incarico di animatore di campo giochi, si ritrova a dover combattere, insieme a suoi ragazzi, una brutale epidemia di polio.
Quindi succede questo, lo ripeto, giusto per sottolinearlo: io compro questo libro il cui focus è su una malattia che colpisce prevalentemente bambini e anziani e di cui, nel momento storico in cui è narrato, si sa molto poco e mentre lo sto leggendo scoppia il caso di una malattia di cui si sa ancora molto poco e che colpisce un po’ tutti, ma in modo grave prevalentemente gli anziani: il coronavirus.
Uno dei passaggi del libro che mi ha colpito di più si riferisce ad uno dei frequentatori del parco giochi dietro la scuola nella quale Bucky lavora come animatore: Horace, che è un adolescente affetto da un ritardo mentale grave. Per tutti è lo scemo del quartiere.
Si aggira nei pressi del parco giochi senza rivolgere mai la parola a nessuno. Ha solo un rituale: posizionarsi al fianco di uno dei ragazzini mentre questi sta giocando a softball. Fino a quando la vittima in questione non gli stringe la mano e gli chiede come sta, Horace non si muove. Resta lì, impalato ad aspettare che gli si stringa la mano. I ragazzi che frequentano il parco giochi lo sanno, lo accettano.
Il passaggio di cui sotto è collocato già nella parte centrale del libro, l’epidemia è esplosa all’interno del quartiere e ci sono già stati diversi casi, alcuni anche gravi, tra i ragazzi. Il panico collettivo, come e più del virus stesso, si sta facendo strada nell’organismo pulsante della città, diffondendosi a macchia d’olio.
Questo il passaggio, nello specifico:
“Intorno alle cinque, quando i ragazzi erano alla ripresa finale dell’ultima partita della giornata [di softball, nda], Mr Cantor udì un forte urlo da fondocampo. Era Kenny Blumenfeld, infuriato, di tutte le persone, con Horace. Qualche ora prima Mr Cantor aveva notato Horace al fondo della panchina, ma poi ne aveva perso le tracce e non ricordava di averlo più visto. Probabilmente era stato a zonzo per il quartiere ed era appena tornato alla Chancellor, dove, seguendo il suo solito impulso ad entrare in campo e piazzarsi zitto e fermo accanto ad uno dei giocatori, aveva scelto Kenny, il ragazzo più grosso di tutti. Al principio della giornata era stato Kenny che, insolitamente, era stato scosso dai singhiozzi per l’ecatombe dei suoi amici [a causa della polio, nda], e ora, di nuovo insolitamente, era Kenny a gridare contro Horace e a fargli gesti minacciosi con il guantone per cacciarlo via. […] All’istante Mr Cantor balzò in piedi dalla panchina dov’era seduto e corse a gran velocità verso il campo esterno, mentre tutti i ragazzi in partita o sugli spalti correvano con lui, e le tre bambine nella strada smettevano di saltare la corda […].
– Toglietemelo di torno! – Kenny, il ragazzo che era un modello di maturità per gli altri, il ragazzo che Mr Cantor non aveva mai avuto motivo di ammonire per mancanza di autocontrollo, quello stesso Kenny stava ora ululando: toglietemelo di torno se no lo ammazzo! –
– Che c’è? Cosa succede? – domandò Mr. Cantor.
Horace se ne stava a capo chino, con il viso rigato di lacrime, intonando il suo lamento, una sorta di acuto segnale radio dal retro della gola: uno stridulo, tentennante verso di angoscia.
– Sentite come puzza! – gridò Kenny – È pieno di merda! Toglietemelo di torno, miseria porca! È lui! È lui quello che porta la polio! –”
La vicenda termina con Mr. Cantor che riaccompagna a casa Kevin. Si chiude con questo dialogo:
“– Ne abbiamo tutti fin sopra i capelli, Ken. Qui nel quartiere non sei l’unico – gli disse – a sentire la pressione della polio. Fra la polio e il clima non c’è nessuno che non sia agli sgoccioli.
– Ma è lui che l’attacca, Mr Cantor. Ne sono sicuro. Non avrei dovuto dare i numeri, lo so che è solo uno scemo, ma è sporco e la sta attaccando. Se ne va in giro a lasciare le sue bave e stringe la mano a tutti e così sparge i germi di qui e di là.
– Prima di tutto, Ken, non lo sappiamo com’è che si attacca.
– Invece sì- Sudiciume, sporcizia e merda, – disse Kevin, di nuovo pieno di sdegno. – E lui è sudicio, sporco e merdoso, e la attacca. Lo so.
Sul marciapiedi davanti a casa di Kenny, Mr Cantor lo prese forte per le spalle e lui, fremendo di repulsione, si liberò all’istante dalle sue mani e gridò: – Non mi tocchi! Lo ha appena toccato!”
È un passaggio molto importante, per tutta una serie di cose che interessano la trama, ma anche per il messaggio che Roth vuole dare al lettore. Ciò che lascia lo semina fin dall’inizio della storia per poi spararlo fuori come dalla bocca di un cannone, nel finale, da maestro e killer professionista della narrativa quale è.
Come altri stralci del libro – come tutto il libro in realtà – mi ha fatto pensare molto. Ho provato ad accostare le due forme di fobia generate, quella della polio a metà del secolo scorso, che faceva a gara con l’altra grande piaga, la guerra mondiale, e quella del coronavirus che, al momento, non ha nulla a che vedere con la gravità della prima.
Ed è proprio questo che rende ancora più grave – perdonate il giro di parole – ciò che sta succedendo in Italia in queste settimane: il fatto che, allo stato attuale, secondo ciò che viene riportato dai professionisti, dai medici, da chi sta facendo ricerca per trovare un vaccino e per eliminarlo, il coronavirus è pericoloso, ma non così pericoloso.
Però la gente inizia a comportarsi come Kevin Blumenfeld.
Perché?
Paradossalmente, la risposta è, in entrambi i casi, la stessa: la disinformazione.
Mentre decidevo di scrivere questo articolo mi sono informato rispetto alcune cose. Per farlo ho dovuto leggere, chiedere e osservare, sono le cose base per riuscire a dare informazioni corrette e spero di averlo fatto. Spero, certo, perché la realtà dell’informazione intorno a tutta la vicenda è alquanto intricata e questo intrico non è altro che il figlio del modo che abbiamo di fare informazione nell’era contemporanea: ovvero attraverso i social e tramite la voce della gente che è la voce di chiunque.
Siamo abituati ad informarci soprattutto, talvolta esclusivamente, attraverso Facebook e Twitter, siamo abituati ad ascoltare come giudice imparziale di chi ha ragione e chi no e a trasformare in giornalisti, la gente, il popolo eletto a informatore informato.
Noi ascoltiamo, leggiamo, seguiamo, in moltissimi casi idolatriamo, delle figure che non sono nate nel ruolo che gli stiamo attribuendo, ma sono state messe inconsapelvol-democraticamente da noi stessi in quanto laggente, storpiatura tanto simpatica quanto reale.
È come se, ad un certo punto, entriamo in un ospedale seguendo un nostro famigliare che deve partorire. Forse è la nostra compagna, oppure nostra sorella. Dunque, i volontari della Croce Rossa stanno spingendo la barella verso l’interno, ma prima di entrare devono passare attraverso la sala d’aspetto del Pronto Soccorso.
“Che succede?” chiede uno che sta lì, seduto ad aspettare una radiografia, con il numero 81.
“Nulla, mi si sono rotte le acque. Sono pronta.”
“È sicura bella signora, di essere pronta? Ogni quanto ha le contrazioni? Quel pancione lì, mi sembra una femminuccia a me.” dice qualcuno al suo fianco, un altro signore di mezza età, con il numero 33. E conclude “Ma comunque io tra poco entro, cose di prostata. Si faccia dire da qualcuno se non è il caso di tornarsene a riposare a casa e magari domani capiamo meglio se è veramente arrivato il momento.”
Allora una ragazza che se ne sta lì, davanti alla macchinetta delle bibite, ad aspettare il padre che finisce di fare degli esami, salta su, si avvicina alla partoriente e dice “Eh no, signora mia, ma qui non va mica bene, guardi qui, la pancia pende tutta di un lato, il bambino sicuro ha il cordone ombelicale intorno al collo, bisogna aprire di urgenza. Io ho fatto l’ISEF e ho dato due esami di anatomia. Quella pancia lì, è una pancia da bambino-con-cordone-ombelicale-intorno-al-collo. Ne sono sicura.” Ne è sicura.
La ragazza cerca di sorridere, anche se è chiaro che si sta preoccupando un poco dalle parole di quella brava ragazza, perché si vede che è brava e ne sa, dopotutto ha fatto l’ISEF.
Ed ecco che si avvicina questo omaccione nerboruto, tutto tirato con i capelli tagliati a spazzola come i militari, che dice “Via via, lasciatela scendere, spostatevi, la dobbiamo portare dentro di urgenza, avete sentito, l’ha detto la dottoressa dell’ISEF.” Spintonando lontano i volontari increduli della Croce Rossa, prende in braccio la partoriente e, incoraggiato da un tifo sfrenato proveniente da tutta la sala d’aspetto del Pronto Soccorso e anche da qualcuno che sta fumando una sigaretta lì, all’angolo con l’entrata per le Ambulanze, si precipita all’interno, senza sapere bene dove sta andando, urlando senza chiedere veramente a nessuno “Dove si portano quelle che devono partorire?”
Ed è lì che un ricoverato, con tutto di flebo attaccata e pigiama e ciabattine che strisciano sul pavimento incolore del corridoio chiede “Che succede? Che succede?”
“La ragazza sta partorendo un bimbo impiccato!” dice qualcuno, forse addirittura una delle infermiere.
“E che cos’è un bimbo impiccato.” chiede qualcun altro, forse un dottore. Sì, è un dottore.
“È una cosa terribile, una cosa terribile. Purtroppo non ce la farà.” piange qualcuno disperato, probabilmente tu, il suo compagno, un suo parente.
“Mettetela laggiù, in quell’angolo e imbottitela di morfina. Non possiamo fare più nulla, se non aspettare che entrambi vadano dove staranno meglio. Povera lei, giovane ragazza, povero il piccolo che ancora non ha visto la luce e già aspetta, forse un paio d’ore oppure minuti, il buio eterno.”
“Ma non avvicinatevi e se vi avvicinate mettetevi guanti e mascherina” dice qualcun altro, sicuramente un dottore, forse è il primario anche se primario di cosa non si sa mica “il bambino impiccato è contagioso.”
E nessuno più si avvicina.
È un’estremizzazione, è Buzzatiano, lo ammetto, ma non fu proprio il grande Buzzati, a conti fatti, a rivelare attraverso i suoi meravigliosi deliri, tante delle verità che in molti non riuscivano a scovare intorno a loro e, soprattutto, dentro se stessi?
Quello che ho voluto dire, esasperando sia chiaro, è che siamo davanti ad un’epoca dove l’informazione non riesce più ad essere filtrata, perché anche se passa da menti eccelse – purtroppo sempre più raramente – e anche se arriva chiusa in scatole ermetiche, laggente riesce ad impossessarsene, a farla propria, a trasformarla e a soffiarla di nuovo fuori con una potenza straordinariamente e paradossalmente maggiore. Due, tre, quattro, cinque volte più incisiva, più vera anche se diventata falsa. Più legge sacra anche se partita come menzogna.
Sfogliando come un automa la home di Facebook, mi sono fermato a copia/incollare alcuni titoli di articoli postati dai miei contatti, quindi da un misto di gente che conosco da una vita e gente che non ho mai visto in faccia, con cui non ho mai parlato, pur essendo, alcuni da molti anni, dei miei contatti. Amici su Facebook.
Eccoli:
Coronavirus, il virologo: «Anziani più a rischio dei bambini, la quarantena è l’arma migliore» – Vanity Fair
Il coronavirus affonda i mercati. Sette i contagiati morti in Italia – Agi Italia
Il coronavirus è incontenibile? – Il Post
Coronavirus, il mondo ci osserva e decide la quarantena per l’Italia – Corriere della Sera
Titoli del genere sbocciano come la gramigna. Mi fermo sul primo, di Vanity Fair, in un titolo di quattordici parole ce ne sono tre che identificano ciò di cui parlerà l’articolo: coronavirus, anziani, bambini.
Ce ne sono poi altre tre che sono parole negative o volte a creare negatività: rischio, quarantena, arma. Se consideriamo anche Coronavirus come parola negativa, diventano quattro.
Quattro parole su quattordici, dove sei di queste sono composte da suffissi, articoli e verbi semplici. Quindi quattro parole su otto. La metà.
Il titolo de Il Post, invece, poteva forse essere ugualmente incisivo se fosse stato composto in questo modo: “Il coronavirus è contenibile?” oppure in questo “si può contenere il coronavirus?”
La risposta della gente alla domanda che il titolo pone è no, non è possibile contenere il coronavirus. Questo perché parte già dalla sfiducia di base piuttosto che dalla speranza, rafforzato poi dal fatto che i lettori semplici hanno preso l’abitudine a non avere tempo di leggere per intero un articolo, ma a soffermarsi solo sul titolo che tanto basta e avanza. Se abbiamo qualche secondo in più ci andiamo a leggere anche il sottotitolo, via.
A proposito, il sottotitolo dell’articolo de Il Post è questo: È uno scenario sempre più probabile secondo diversi epidemiologi: lo prenderemo in tanti e potrebbe diventare un ricorrente ospite indesiderato, come l’influenza
Lo prenderemo in tanti e potrebbe diventare un ricorrente ospite indesiderato.
A me sembra un altro titolo negativo, ma nella realtà, ciò che dice l’articolo, che non è nemmeno scritto e strutturato male, è che il coronavirus è contenibile, curabile e che, fondamentalmente, è una forte influenza a cui non è stata ancora trovata una cura.
Se fosse stato questo il titolo?
il coronavirus è contenibile, curabile. È una forte influenza.
La risposta è che sarebbe stato molto meno incisivo e quindi Google lo avrebbe penalizzato nelle chiavi di ricerca.
Sicuramente sarebbe anche stato additato in quanto articolo di merda, per utilizzare la terminologia social.
Attenzione, sarebbe stato anche un titolo non del tutto vero: perché non è vero che il coronavirus è solo un’influenza.
Non solo una cattiva informazione genera reazioni sbagliate nel popolo, ne laggente, ma anche e soprattutto una cattiva comunicazione.
Ascoltando e leggendo le reazioni delle persone che ho intorno, sia a livello personale che a livello mediatico, in molti lo definiscono “lo stupido coronavirus”, e di più “il vostro stupido coronavirus”.
Il nostro di chi? Il coronavirus non è affatto stupido, il coronavirus è un virus, è il modo in cui lo stiamo affrontando che è stupido. Non ci fidiamo di ciò che dicono le autorità, dei mezzi di prevenzione che stanno prendendo i quali, è vero, non sempre sono ponderati con accuratezza e spesso attivano ancora più panico o malcontento e quindi problemi, vedi il caso che sta interessando molti dei centri culturali di Milano e, più in generale, del Nord Italia. Però ci fidiamo di ciò che dice, profetizza, consiglia, pontifica, il nostro vicino di tastiera. Di un titolo costruito più per fare click che per informare. Di una fake news.
Siamo nell’era delle fake news, diosanto, e ancora non abbiamo capito cosa prendere e cosa lasciare, ancora non ci siamo fatti le ossa e adesso la subiamo tutta, con violenza. È un problema culturale, questo.
Un altro passaggio interessante del libro di Roth, con il quale mi piace dare un punto a questo mio pensiero, perché da solo, senza una spiegazione, credo possa bastare a chiudere un cerchio, a definire le parti, è l’incontro fra Bucky, il protagonista, e il padre della sua fidanzata, un medico.
Bucky è terrorizzato dal dilagare della polio nel suo quartiere e tra i suoi ragazzi. Non sa cosa fare, come comportarsi, come organizzare le sue stesse giornate al parco giochi. Una sera, camminando in preda a pensieri sempre più isterici, capita davanti a casa della sua fidanzata, la quale in quel momento è animatrice di un campo estivo vicino al lago, a diversi chilometri di distanza da dove si svolge la prima parte della storia.
Senza quasi accorgersene bussa e viene accolto dal padre, il quale lo fa entrare, gli offre da bere e, quasi subito, si sincera del fatto che Bucky stia bene, dato che ha sentito parlare dei molti ragazzi che hanno contratto la poliomielite nel parco giochi nel quale lavora come animatore.
Questo il dialogo:
“- Marcia [la fidanzata, nda] mi ha detto che hai perso alcuni dei tuoi ragazzi. Mi rincresce molto, Bucky. La morte non è così comune fra le vittime della polio.
– Per ora l’anno presa in quattro, e due sono morti. Due ragazzi. Ragazzi delle medie. Entrambi dodicenni.
– È una grossa responsabilità per te – disse il dottor Steinberg – badare a quei ragazzi, soprattutto in un momento come questo. Io pratico la medicina da più di venticinque anni, eppure quando perdo un paziente, anche solo di vecchiaia, ne risento sempre. Questo episodio deve’essere un grosso fardello sulle tue spalle.
– Il problema è che non so se faccio bene o faccio male a farli giocare a softball.
– Qualcuno ti ha detto che sbagli?
– Sì, la madre di due dei ragazzi, fratelli, che si sono presi la polio. Lo so che era in preda all’isteria. Lo so che mi ha attaccato per la frustrazione, però a quanto pare saperlo non mi basta.
– Capita anche ai medici. Hai ragione… le persone che hanno avuto un grosso dolore diventano isteriche e, di fronte all’ingiustizia dell’infermità, attaccano. Ma giocare a softball non fa venire la polio. La polio viene da un virus. Forse della polio non sappiamo molto, però questo lo sappiamo. Ovunque i ragazzi d’estate fanno giochi agitati all’aperto e, anche nel corso di un’epidemia, solo una percentuale molto piccola viene contagiata. E di questi solo una percentuale molto piccola muore…la morte deriva dalla paralisi respiratoria, che è relativamente rara. Mica tutti i bambini a cui viene un mal di testa si prendono una polio paralizzante. Per questo è importante non esagerare il pericolo e comportarsi normalmente. Tu non hai nulla di cui sentirti in colpa. Talvolta è una reazione naturale, ma nel tuo caso non ne hai motivo.
Puntandogli addosso con intenzione il cannello della pipa, diede al giovane un avvertimento: – Capita di diventare giudici troppo severi di noi stessi quando non è per niente giustificato. Un senso di responsabilità fuori luogo può essere sfibrante.
Il coronavirus è un virus che, come tutti i virus, sta provando a raggirare una cura, forse la sta semplicemente aspettando.
Il coronavirus non è stupido e non è intelligente. Siamo noi che lo stiamo aiutando a sopravvivere, a diventare una macchia sempre più larga sul nostro bel tappeto persiano, come spesso ci accade con tutto ciò che prima non ci riguarda e poi, improvvisamente, ci riguarda da molto vicino.
Come la plastica, i porti chiusi, gli aiutiamoli a casa loro, i venti gradi al Polo. Come.
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin