Questa è la terza edizione del Festivalfilosofia che seguo. Me ne parlò Sebastiano per la prima volta; era l’inizio di settembre del 2012 e avevo incontrato questo ragazzo siciliano su un treno regionale che faceva un percorso lunghissimo, che per lui terminava a Modena, dove studiava. Credo tornasse quasi più per il festival che per l’inizio dei corsi.
Nel 2015 vivevo a Bologna e quando arrivò settembre mi ricordai di lui e mi ricordai del festival e un altro amico mi mise su un treno che arrivava a Modena, di mattina presto. C’era tanta gente. Tutti sfogliavano programmi dalla copertina rossa sotto una pioggia leggera, tra gli alberi del Giardino Ducale di nuovo vestiti d’autunno, trascinando i pensieri per le vie di un’Emilia chiara e profumata. Nel 2016 inzuppai “il gnocco fritto” nel caffelatte, puntando l’orecchio a Umberto Galimberti da sotto i portici di piazza Grande. Quest’anno ho optato per una fetta di torta alle tagliatelle prima di partire per Carpi, sulle tracce dell’antropologa Agnès Giard.
Il Festivalfilosofia, infatti, è “spalmato” sui comuni di Modena, Carpi e Sassuolo; per tre giorni (quest’anno 15, 16 e 17 settembre), oltre alla possibilità di visitare gratuitamente musei statali, mostre, gallerie e atelier, i pellegrini erranti, affamati di conoscenze più classiche ed estimatori delle tendenze speculative contemporanee, vanno calpestando il ciottolato che conduce alle aule en plein air di piazza Grande, piazza dei Martiri, piazza Garibaldi, e aprono taccuini e aggrottano sopracciglia concentrate, si rendono complici di un silenzio che diventa concordato, come la musica di un flash mob.
La prima edizione di questa manifestazione ideata da Michelina Borsari, nel 2001, aveva per tema la felicità. Un vocabolo alla volta, si è giunti quest’anno a discorrere delle arti, passando per i concetti, ogni volta soggettivamente declinati dai filosofi-oratori delle lezioni magistrali, di umanità, natura, eredità, agonismo, e così via.
I parametri del festival sono studiati per vertere sempre in modo naturale sulle condizioni attuali dell’uomo nel suo rapportarsi con se stesso, con gli altri, col tutto. La filosofia, in fondo, è un desiderio di conoscenza che necessita di un antropos al centro di questo qualcosa di cui siamo/facciamo parte – almeno dalla prima Rivoluzione Industriale in poi. E chi di noi, individui, non sceglierebbe se stesso come protagonista di questo centro? E chi, tra tutti gli uditori che si spingono e si accalcano con foga per conquistare una sedia sotto al palco, ha uno scopo che dèvi dalla ricerca di se stesso? Chi non fa uno specchio di quelle labbra in movimento, tramite di pensieri di uomo più che di maestro?
Lezioni diverse si svolgono ogni giorno in contemporanea nelle tre città, ma non importa non seguire proprio tutto; ognuno ha il suo percorso da creare, un labirinto di saperi combinati e penne da consumare e titoli di conferenze da segnare (ogni ora e mezza circa).
Tutto è bello nel kairòs, sentenzia Sofocle nell’Edipo Re. Kairòs, il tempo; tutto è bello nel tempo. Ma cosa è bello? E in quale tempo?
Nelle Confessioni – spiega Umberto Curi – Sant’Agostino si chiede cosa sia il tempo, ma non sa darne una definizione. Bellezza e tempo sono termini analoghi in tal senso, dal momento che anche la bellezza non si esprime a parole. Eppure vi è una disciplina che imperterrita produce sbocchi per questo vocabolo a ritmo di singhiozzo: anche per questo a volte s’impazzisce (letteralmente?) per l’Estetica, perché spalma una pretesa di assolutismo su una base di disomogeneo relativismo. Si dice che la moda cambia, cambia perché il tempo passa, scorre. Tutto scorre, panta rei, e così i minuti e la bellezza e la sua esplicitazione in enciclopedie e vocabolari.
Prima che si entrasse nell’era contemporanea l’arte e la bellezza non conoscevano un confine preciso. In Grecia allora si parlava di arte come téchne, ma i greci avevano molti vocaboli che il nostro riassumere e riassumere ha incorporato in sinonimi più o meno azzeccati. L’arte, la tecnica, la perizia, le proporzioni, dunque la bellezza. C’era un giudizio più diffuso, più simmetrico, che riusciva a incanalare gli uomini verso una visione limabile, fino ai confini del comune. Oggi siamo in una fase di ametria, sostiene Massimo Cacciari, dove il giudicare è di puro gusto personale, e i due termini “Giulietta e Romeo” vivono separati in casa: né si amano, né si accoltellano.
Nella contemporaneità un’evoluzione di quella téchne greca assume l’appellativo di tecnologia. Il connubio di arte e tecnologia è il risultato inevitabile di una trasformazione dell’essere umano, divenuto ormai completamente artificiale, secondo Roberto Mordacci; artificiale perché si adagia sulle sue stesse creazioni, artificiale perché potenzia la propria natura. La natura, modificata, a sua volta modifica i paradigmi che l’uomo si prefigge come regola.
Immaginare, darsi una regola, creare. Queste sono le tappe della creatività tecnica, dice Pietro Montani. Ma c’è un punto in cui questo rapporto tra arte e tecnica si spezza e si fa polvere nella storia: il prodotto artistico diventa a tutti gli effetti prodotto, diventa merce, e si innesca una reazione che Arthur Danto chiama Artworld, il Mondo dell’Arte. Questo mondo è autoreferenziale al punto da non necessitare il rapporto con il mondo nel quale si inserisce come sottoinsieme. Una scappatoia c’è da questo menefreghismo mercenario, sempre secondo Montani: negli ultimi trent’anni, quando all’esposizione e alla rappresentazione si è aggiunta l’installazione, l’Artworld ha sviluppato una caratteristica peculiare: l’interazione. L’interazione ha incrementato con una postilla la definizione di spettatore dell’opera, che ora diventa anche attore, performer, sperimentatore, fattore che ha permesso all’opera di scavallare l’ostacolo della sua stessa autoreferenzialità, sconfinando dai suoi contorni e riconnettendosi, infine, col mondo esterno.
L’interazione va qui intesa ad ampio spettro: le opere non sono fatte più solo per essere guardate, contemplate con una misurata distanza spaziale. Ora l’arte si può toccare, ascoltare, annusare, gustare anche. L’arte, nel suo essere esperibile sensorialmente, è ora concepita come multisensoriale. Il concetto di bellezza classica è surclassato. L’attrazione empatica ha preso il sopravvento. Ma allora oggi cosa è bello?
Andrea Pinotti cita l’hic et nunc benjaminiano, il qui e ora, il “questo tempo” e il “questo spazio”, che la riproducibilità tecnica (dalla fotografia in poi) non potrà mai restituire a chi, da spettatore, ne faccia domanda. C’è qualcosa, dice Benjamin, che circonda un’opera d’arte rendendola unica, e chiama questo qualcosa aura. L’aura è irriproducibile e pertanto irripetibile nello spazio e nel tempo, all’infuori dello spazio e del tempo dell’opera stessa.
Tutto è bello nel kairòs, nel tempo, ma quale tempo? Il tempo propizio.
I latini tradussero kairòs con Occasio, Fortuna, personificandola con una giovane calva se non per un ciuffo di capelli sulla fronte, a ricordare che se l’occasione non l’acchiappi, la perdi. Kairòs è il tempo qualitativo, è l’attimo fuggente, è il momento – dice Curi – in cui percepiamo che sta accadendo qualcosa di particolare, di peculiare.
Tutto sembra tornare: la fase empatica dello spettatore-performer con l’opera d’arte, il momento in cui si ritrova a sperimentarne l’aura, si sviluppa nel kairòs. E allora che non sia questo stesso momento – più che l’oggetto-prodotto in sé – ciò che noi oggi chiamiamo “bello”? In fondo la bellezza è una moda che cambia spesso i connotati nel tempo, ma nel tempo di Chronos, nel tempo quantitativo, nel tempo dell’orologio, nel tempo irreversibile.
La bellezza è effimera, ma incastrata nel kairòs, forse, riesce a conquistare l’eternità.
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