Ci sarebbe in parte da chiedersi se Angela Merkel, nel settembre del 2015, avesse realmente compreso la portata della sua decisione. Quando la cancelliera decise di sfidare ogni logica politica, aprendo le porte della Germania a 1 milione e mezzo di rifugiati, proprio nel momento di maggiore pressione dei movimenti populisti in Europa, forse pensava che, alla lunga, il senso civico tedesco avrebbe avuto la meglio contro la propaganda della paura. Oppure, che dopo una lunga carriera alla guida del paese più forte del Vecchio Continente, una carriera durante la quale si era guadagnata, in maniera più o meno omogenea, l’odio di tutti i paesi latini e mediterranei (Grecia in primis), sarebbe stato bello essere ricordata come “la cancelliera dell’accoglienza”. Non è andata come previsto.
Quel settembre del 2015 resterà una data decisiva per le sorti politiche dell’Europa.
L’inizio della crisi migratoria di quel periodo è ben ricordato da tutti attraverso l’immagine di Aylan Kurdi, il bambino siriano di tre anni riverso sul bagnasciuga della spiaggia turca di Bodrum, riportato a riva, morto, dopo che il gommone con il quale la sua famiglia stava tentando di raggiungere l’isola greca di Kos si era capovolto: rimarrà vivo solo il padre.
E’ in questo spazio temporale che comincia ad aprirsi una frattura sempre più profonda nell’idea di Europa liberale a egemonia franco-tedesca. Un’idea che nel giro di pochi mesi dimostra la totale inedeguatezza a confrontarsi con un progetto di integrazione comunitaria che la popolazione europea avverte come un tema cruciale. A partire da questo concetto è inevitabile chiedersi se, alla fine dei conti, la politica di accoglienza merkeliana, indubbiamente encomiabile sul piano umanitario, abbia in verità contribuito in maniera determinante all’accelerazione che ha portato al centro del dibattito sociale europeo quegli ideali di difesa identitaria e protezione della famiglia e della civiltà giudaico-cristiana, fondamentali per gli exploit di partiti come AFD in Germania e Lega Nord in Italia, e il cui riferimento politico è il premier ungherese Viktor Orban. Viene anche da chiedersi se Angela Merkel e la sua CDU avessero davvero immaginato la portata sociopolitica della loro decisione, in divenire.
Si è menzionato poco sopra Orban non a caso. Spesso, infatti, il suo ruolo nella deriva sovranista dentro cui è stata risucchiata l’Europa viene sottovalutato. A ben vedere, è proprio il leader ungherese ad aver compreso per primo le possibilità politiche di proporre al pubblico elettorale la necessità di un’Europa sovrana e identitaria, un progetto che ha prima contagiato i paesi del blocco di Visegrad e che da Budapest ha poi raggiunto tutta l’Europa centro-orientale. Il populismo di Orban, come spiega bene Stefano Bottoni nell’articolo “Accidente storico o ritorno alla storia”, pubblicato su Il Mulino 3/18, “si distingue da quello di altri leader carismatici europei perché viene dall’interno dei meccanismi istituzionali europei. Il partito del premier ungherese fa parte del Partito Popolare Europeo e le sue posizioni sull’immigrazione sono discretamente condivise da molti esponenti (tedeschi inclusi, nonostante le apparenze) del principale gruppo parlamentare d’Europa. Ma soprattutto, Orban ha sdoganato in patria (e all’estero ha milioni di ammiratori) la pulsione identitaria, anche nelle forme ripugnanti delle campagne d’odio sui media, in pensiero dominante.”
La comprensione di quanto sia cruciale, nelle dinamiche politiche tedesche, il ruolo della pulsione identitaria, si concretizza nel momento in cui si analizzano i dati su disoccupazione e andamento economico della Germania degli ultimi 10 anni. Il tasso di non impiegati in Germania, al 7.7% nel 2009, è oggi al 3.4% (dati Eurostat), più alto solo di quello della Repubblica Ceca (2.6 %) nella UE. C’è però una considerazione, decisamente importante, da fare in merito: la Germania, con quasi 83 milioni di abitanti, è il paese più popoloso dell’Unione Europea.
Il prodotto interno lordo è invece di 4,029.140 miliardi di dollari, il più alto in Europa e già da un triennio in pieno ritmo pre-crisi.
L’implosione dei grandi partiti di massa e il successo di formazioni come Alternative fuer Deutschland non sono dunque ascrivibili a un malcontento popolare legato a questioni di natura economica, perlomeno non su grandi numeri. A spiegarlo perfettamente è il voto in Baviera di due settimane fa, che ha visto un crollo verticale della SPD e un ridimensionamento storico per la CSU/CDU. In un Land in cui il tasso di disoccupazione è più basso (3%) della media nazionale e il cui PIL, 594 miliardi di euro secondo l’Istituto Federale Tedesco di Statistica, è comparabile a quello di tutta la Svizzera, è difficile capire perché gli elettori votino contro partiti politici che hanno tutto sommato garantito un discreto benessere in un arco di tempo abbastanza ampio.
La risposta sta nella crisi ideologica del modello euroccidentale e delle sue parole d’ordine chiave: mercato e democrazia liberale.
L’evidenza è dunque quella di un voto non direttamente collegato a una valutazione secca dell’operato di governo, ma connesso invece a una retrocessione dei partiti di massa in Europa e ad una crescita dei movimenti populisti a tendenza marcatamente sovranista. Si tratta di elementi che si sono sedimentati in un contesto socio-mediatico nel quale la propoganda assume un ruolo centrale e il cui risultato finale è una disintegrazione, pezzo per pezzo, di tutte le illusioni europee della transitologia occidentale.
Tornando alle conseguenze concrete della polverizzazione dei grandi partiti di massa (cui quest’articolo si approccia solo lateralmente) è chiaro come la Germania, e con essa il cancellierato di Angela Merkel, siano ormai arrivate a un momento di definitiva saturazione.
Se, come pare, le elezioni regionali di domenica 28 ottobre in Assia (il Land di Francoforte sul Meno, la capitale finanziaria del paese) dovessero confermare la crescita di Verdi e AFD e l’ennesimo crollo di CDU e SDP, la Grosse Koalition più disastrosa della storia federale tedesca potrebbe finalmente giungere al capolinea.
Nei socialdemocratici le spinte interne per abbandonare il governo sono infatti ormai sempre più pressanti e d’altro canto, la sensazione è che sia necessario staccare la spina, anche a costo di subire una batosta elettorale pesantissima, per poter ricostruire da zero.
Il successo dei Verdi in Baviera e quello previsto dai sondaggi in Assia dimostra che l’elettorato di sinistra in Germania non è scomparso, come avvenuto ad esempio in Italia, ma si è piuttosto spostato verso una proposta politica più fluida e dinamica, che può evidentemente giovarsi del campo libero lasciato da un partito, la SPD, che dall’addio di Gerhard Schroeder in avanti ha vissuto una lenta e ineluttabile deriva. La doppia Große Koalition, che vede i socialdemocratici partner di minoranza di Angela Merkel dal 2013, è stata avallata, nel tempo, da un senso di responsabilità dietro cui, invero, si è nascosta l’incapacità di riformare il partito, quella stessa incapacità di cui sono state vittima tutte le formazioni socialiste e democratiche della sinistra europea.
Se anche una crisi di governo venisse scongiurata, o qualora Angela Merkel decidesse di andare avanti con un esecutivo di minoranza o riprovando a trovare un accordo con Verdi e liberali dell’FDP, il destino della cancelliera si deciderà fra il 6 e l’8 dicembre ad Amburgo. In quei tre giorni si terrà infatti il congresso nazionale della CDU che potrebbe destituirla come leader del partito, aprendo definitivamente la lotta per la successione e un crollo del governo che nel giro di pochi mesi porterebbe a nuove elezioni. La Merkel cercherà sino alla fine di scongiurare spaccature drammatiche sia dentro il suo partito che nell’esecutivo, anche per evitare di lasciare, esautorata, nel peggiore dei modi.
A differenza di quanto accaduto in passato, la sua leadership non è però oggi così solida e per questo, con margini di manovra così ridotti, potremmo essere di fronte ai momenti finali di un lungo addio dall’amaro sapore chandleriano.
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