Ho conosciuto A. un giorno di maggio.
Ero appena arrivata in quella cittadina balneare che sembrava una copia ferma agli anni 80 dell’altra più celebre località dove ero cresciuta. Ora che ci penso, anche la mia città di origine era ferma agli anni 80, quando si costruivano alberghi alti e brutti sulla costa, con delle decorazioni un po’ Miami, e si usavano i risciò coi pedali per quattro persone, rossi, sponsorizzati dalla coca-cola. Poi si era fermata, come un’adolescente con la crescita bloccata da qualche evento traumatico.
Il posto in cui ero approdata per quel lavoro poteva essere in un certo senso la copia della pietrificazione temporale del mio luogo natio, ma ancora più remota. Dovevano essere i marciapiedi rotti e tutte le palme in fila sul lungomare che le davano quell’aria dimenticata. Anche lì c’erano i risciò e avevo proposto ad un certo punto al coordinatore della ONG in cui lavoravo di usarli per andare a fare le visite e le analisi del sangue all’ospedale nel centro, invece che muoverci con le nostre macchine, piccole e senza aria condizionata. In fondo, era una forma di locomozione collaborativa e pulita, che poteva inserire delicatamente i richiedenti asilo nel paesaggio balneare come fruitori casuali dei servizi turistici. Allora erano invece additati come scandalo visivo da albergatori e bagnini, che non li volevano in spiaggia, non li volevano sul lungomare e non li volevano neanche sul terrazzo dell’albergo riconvertito a centro di accoglienza, perché, come ci avevano detto i proprietari dell’albergo di fronte, “è proprio brutto per i nostri ospiti vedere appena svegli quelle gambe nere a penzoloni sui vostri terrazzi”.
A. era comparso un giorno nel cortile con un altro operatore. Ricordo che era vestito di bianco, pantaloni larghi da rapper e t-shirt con un teschio arcobaleno, o qualcosa del genere, era alto e snello, con dei dread sottili e folti.
Eravamo andati nel parco lì a fianco, in cui c’erano i pini e gli attrezzi per fare esercizi di ginnastica.
Il sole filtrava dai rami, saranno state le sei del pomeriggio ed ero quasi alla fine delle mia giornata lavorativa, che in quel primo periodo rimaneva ancora dentro le otto ore al giorno.
Mi ero appesa con le gambe alle barre di metallo per fare gli addominali, oscillando a testa in giù come un pipistrello. A. si era messo a ridere, guardando per terra, con un pudore pieno di grazia.
Da allora aveva cominciato a salutarmi con sempre maggiore entusiasmo, parlava un inglese frammentato, veloce e semi-incomprensibile. Ci misi dei mesi per capire almeno l’80% di quello che diceva, e capire anche la sua lieve balbuzie.
Mi mandava i messaggi al cellulare, chiedendomi di vederci. Io gli rispondevo di no, o non gli rispondevo affatto. Lui reagiva con rassegnazione ma senza nascondere la sua tristezza e dichiarando le sue pene d’amore in modo un po’ melò. Protestavo dicendo che in quanto operatori ci era assolutamente vietato vedere gli utenti al di là di questioni prettamente lavorative. Lui allora rideva ancora in quel modo pudico, un po’ soffocato, guardando per terra.
Un giorno, dopo avermi chiesto che cosa avessi fatto nel weekend, gli avevo risposto descrivendogli un giro nella campagna circostante con il mio ragazzo che era in visita. Puntando gli occhi sul pavimento mentre dondolava sulla sedia della sala da pranzo mi aveva detto “You know that while you have fun people suffer”. Io ero scoppiata a ridere per la tragedia immane provocata da una passeggiata sulle colline e non mi era sembrato di fare qualcosa di insensibile, avevo intravisto una virgola di sorriso nell’angolo destro della sua bocca. I messaggi romantici si diradarono e scomparvero nel giro di qualche settimana, al suo posto subentrò un atteggiamento da vecchio amico, un po’ complice e un pò triste. Anche quando andavamo sulla spiaggia davanti all’hotel a giocare a bocce con le solite squadre Bangladesh contro Africa Subsahariana, era presente ma riservato. Un giorno vidi che lo screensaver del suo telefono era una mia foto scattata durante una partita, mentre urlo il nome di qualcuno con gli occhiali da sole cercando di arbitrare.
Ad un certo punto cominciò a venire tutti i giorni nel cortile dell’hotel, anche dopo essersi spostato negli appartamenti della ONG a 700 metri da lì. Se ne stava sulle sedie di plastica del cortile, guardando il telefono o guardando per terra.
Un giorno mi avvicinai e gli cercai gli occhi:
“Cosa c’è? Ti vedo strano, sei sempre da solo, hai perso tanti chili”
“Eh Viò.”
“È successo qualcosa in famiglia? Sei preoccupato per qualcuno?”
Lui aveva distolto lo sguardo e lo aveva gettato verso l’orizzonte invisibile di chi cerca di non piangere.
“Senti, io te lo dico, poi tu fai come vuoi, ma adesso se volete potete parlare con una signora, che può ascoltare i vostri problemi e darvi dei consigli”
“No io non voglio parlare con nessuno, nessun dottore”
“Va bene, io te lo volevo solo dire perché mi sembra che non stai tanto bene e l’altro giorno alla riunione è venuto fuori che c’è questa signora, fai come vuoi”
Per tutta risposta si era messo a fissare intensamente la ghiaia del cortile, scuotendo lievemente la testa mentre si diceva qualcosa di incomprensibile fra i denti. Avevo continuato ad osservarlo per un paio di minuti, sperando che si girasse e mi dicesse qualcosa, ma i suoi occhi erano rimasti incollati al selciato e io ero tornata a compilare i moduli della questura per il rinnovo dei permessi di soggiorno, impilati sul tavolo della reception.
Poco dopo era tornato a cercarmi, e mi aveva detto va bene parliamo con la signora.
Io avevo sorriso e lo avevo portato nella sala da pranzo, dove faceva troppo caldo e non c’era nessuno e gli avevo spiegato che per richiedere l’appuntamento avrei dovuto scrivere un piccolo rapporto da inviarle, per giustificare la richiesta e darle la possibilità di prepararsi un po’. Lui aveva annuito e ci eravamo seduti in un tavolo in fondo alla stanza, le tende luride e la tovaglia cerata unta dello stesso sugo di tutti i giorni.
Non ricordo bene come avesse messo in fila gli argomenti ma, dal suo parlare concitato, dall’intensificarsi della sua balbuzie ed infine da un pianto sommesso, avevo capito che la versione della sua storia e del motivo per cui era fuggito dal Gambia depositato in questura non erano veri.
La storia ufficiale, una fotocopia di una pagina di quaderno a righe di quinta riempita con una calligrafia tondeggiante, era il solito copia incolla da dissidente politico dell’APRC (Alliance for Patriotic Reorientation and Construction), il partito del dittatore Yayha Jammeh, con relativa fuga a seguito dell’identificazione e breve periodo di prigionia. Jammeh era ancora al potere ma i commissari italiani che valutavano la richiesta di asilo solitamente non consideravano i gambiani all’opposizione di Jammeh soggetti a persecuzione politica, giudicando il regime ancora dentro misteriosi parametri democratici, salvo poi salutare la sua successiva sconfitta come la fine di una feroce dittatura e il ristabilirsi delle condizioni migliori per un pacifico sviluppo del paese (niente visti per nessuno a quel punto). A. ci aveva provato, sapeva che qualcuno era riuscito a prendere lo status di rifugiato così, e si era fatto scrivere la storia da un altro gambiano, che aveva lavorato negli apparati statali e sapeva riprodurre vicende di persecuzione verosimili ispirandosi alle molte di cui era stato testimone.
Quando gli chiesi quale fosse la sua vera storia e perché non l’avesse raccontata, lui mi disse che nessuno avrebbe dovuto saperla. Mi spaventai un po’, pensando a qualcosa di criminale. Lui invece cominciò a raccontarmi della sua infanzia, trascorsa in relativa serenità in un villaggio della North Bank Region del Gambia. A tredici anni la madre era morta, e, a seguito di lotte per l’eredità, alcuni famigliari gli svelarono di essere stato adottato, una cosa che i genitori adottivi non avevano mai fatto trapelare.
Questi sapevano benissimo infatti che se nel villaggio si fosse saputo lo status di figlio illegittimo di A., la piena appartenenza alla comunità gli sarebbe stata preclusa: niente moglie, niente figli, niente vita pubblica. Senza una famiglia alle spalle, A. sarebbe diventato un elemento socialmente illeggibile, come se la sua figura fosse visibile solo se collocata in una rete di relazioni che davano senso al suo essere lì. Prima che la zia gli confermasse le sue origini, A. era venuto a sapere di non appartenere a quella che aveva sempre pensato come la sua famiglia durante una lite con il fratellastro più grande, che lo accoltellò allo sterno. A. venne cacciato di casa e la notizia delle sue vere origini divenne di dominio pubblico nel villaggio. Quando successivamente lo portai dal medico legale, nel tentativo di accumulare prove oggettive che corroborassero la sua storia da portare in commissione, questo scrisse che la cicatrice mostrava segni inequivocabili di ferita da arma da taglio e “ben si attanagliava al racconto fornito dal richiedente”, lasciandomi con curiosità lessicali importanti sul gergo della medicina forense.
Dopo essere stato ripudiato dalla sua famiglia e dal suo villaggio, A. era scappato in un’area al confine col Senegal, e lì aveva incontrato un pastore che lo aveva preso a lavorare con sé. A. viaggiò e visse con lui e sua moglie la sua adolescenza, perseguitato dall’idea di avere il destino per sempre segnato da ciò che era successo. Dopo 7 anni chiese la sua ricompensa al pastore, un certo numero di pecore che gli erano state promesse per i suoi anni di lavoro sostanzialmente non retribuito, ormai adulto e deciso ad intraprendere la sua strada. Il pastore aveva acconsentito, rimandando però sempre il momento della consegna degli animali. Dopo numerosi tentativi A., esasperato, aveva approfittato della sua assenza un giorno per rubargli un po’ di soldi e scappare. Se n’era andato in un’altra parte del Senegal, ma ad una fiera di paese un amico del pastore l’aveva riconosciuto, costringendolo a ricominciare la sua fuga.
Finì in Libia a fare il manovale, dopo peregrinazioni varie in Niger, in Mali e Burkina Faso. Lì gli Asma boys, un gruppo di miliziani dedito a praticare ogni forma di sopruso nei confronti dei migranti subsahariani, fecero irruzione nella casa in cui abitava, uccidendo un paio di persone che vivevano con lui e spingendolo infine ad imbarcarsi per l’Italia.
Nella storia di A. c’è sempre stato qualcosa di indicibile, qualcosa che riguardava la fine della sua vita di persona a 13 anni, quando gli è stato negato l’accesso, la possibilità di esserci e raccontarsi. A. si vergognava così tanto della sua vicenda personale che si era inventato una famiglia virtuale anche con gli altri migranti. Simulava telefonate con la madre e la sorella, raccontava storie minime sui genitori quando gli altri facevano domande. Nel periodo in cui faceva il pastore, fingeva di tornare al villaggio durante le festività musulmane, mentre in realtà se ne stava nascosto a casa di un amico. Quando lavoravo ancora e assistevo la psicologa come traduttrice durante le sedute di A., cercavo di rimanere composta ma ero goffa ed inesperta, la voce mi tremava e mi si appannava la vista a volte mentre cercavo le parole. A. aveva rifiutato il mediatore culturale senegalese, che poteva parlare wolof con lui, per lo stesso identico motivo per cui aveva inizialmente mentito sulla sua storia: nessuno, soprattutto nessun africano, doveva sapere.
A. capisce le persone, senza sforzo, osservandole con curiosità. Una volta, mentre gli raccontavo del mio lavoro da docente, disse che sicuramente le mie lezioni dovevano essere divertenti, perché le facevo attraverso le mani, e aveva mimato il mio gesticolare febbrile quando sono impegnata in una spiegazione. Gli ero stata grata per avermi svelato questo particolare di me, per avere avuto la voglia di vedermi. A. non aveva mai potuto essere visto, si era trasformato in un fantasma nel momento in cui era diventato consapevole di essere il figlio di nessuno. Quando lavoravamo al suo caso, avevo cercato informazioni sulla discriminazione dei figli illegittimi fra i fula, il suo gruppo etnico-linguistico di origine, trovando report di Amnesty International e dell’UNHCR che confermarono la stessa cosa che vedevo nel fondo degli occhi sempre strizzati in un sorriso di A.: la scomparsa sociale del “bastardo”, del senza famiglia, una sorta di morte nella vita, di separazione radicale dalla partecipazione vitale condivisa.
Per A. l’Italia era un posto in cui gli era stata data una nuova possibilità, una sorta di seconda nascita. Ancora adesso ha pochi e stretti rapporti con alcuni connazionali ma per la maggior parte le sue amicizie sono con gli italiani. Ha lavorato come operatore h24 nella stessa ONG in cui era utente, perché tutti sapevano che era svelto, efficiente e ostinatamente ottimista. Si è fatto in quattro per più di un anno, con la speranza che sarebbe stato pagato una volta rinnovato il suo visto. Non è mai successo, la stessa ONG gli ha negato il pagamento, dicendo che per un anno gli avevano fornito vitto e alloggio, approfittando della sua posizione di precarietà.
Ora lavora in un albergo nelle Alpi del bellunese in cucina, l’altro giorno mi ha mandato una foto di lui che ride con un cappello da cuoco.
Fra un mese il suo ultimo visto scade, dopodiché non si sa cosa potrebbe succedere. Potrebbe vivere senza documenti lavorando in nero e abitando in alloggi di fortuna, finendo probabilmente nelle mani del caporalato. Potrebbe finire in un CPR, un Centro di Permanenza per il Rimpatrio, sostanzialmente un carcere in cui potrebbe rimanere fino ad un anno e mezzo, per poi essere rimpatriato in Gambia. Allo stigma della condizione di bastardo si sommerebbe quindi quella di migrante fallito, e A. tornerebbe ad essere un’ombra, sfruttato e invisibile, fino al resto dei suoi giorni. Anche il suo contratto lavorativo di tre anni non gli permette di richiedere un visto di lavoro (a causa della legge Bossi-Fini) e una serie di commissari e giudici di vari organi giuridici hanno sentenziato che A. non ha diritto a rimanere, che non ci sono le condizioni per giustificare la sua presenza sul territorio.
L’unica sua speranza è conoscere una donna italiana, innamorarsi e sposarsi, coronando il suo sogno di diventare padre, ricostruendo lui stesso la sua famiglia spezzata. Ma queste non sono cose per cui puoi fissare una scadenza.
Quando ci siamo visti l’ultima volta, siamo andati a farci i giri in città e poi ci siamo seduti in una pasticceria un po’ chic del centro. La barista ha sbagliato il toast e ci ha messo dentro il prosciutto, ma poi l’ha rifatto solo con il formaggio. Lui ha cercato di farmi riappacificare con un amico che non sento più, chiamandolo a tradimento e passandomelo. Mi sono sorbita la telefonata imbarazzante e poi l’ho rimproverato ridendo, mentre beveva la sua coca.
Sia io che il mio reticente interlocutore apparteniamo ad una delle famiglie possibili di A., quella che ha voluto vedere appena arrivato in Italia: fra di noi non vuole litigi e non detti, controlla e ci chiede se ci vediamo, è felice quando gli mandiamo i selfie insieme.
Quel pomeriggio abbiamo anche scherzato sui gambiani, sul loro amore per la marijuana che non è proprio compatibile con la situazione in cui si ritrovano in Italia. Abbiamo parlato come sempre delle persone che conosciamo, che fine ha fatto lui, che combina tizio, ma caio alla fine è andato in Germania? Lui sa sempre tutto, l’avevamo soprannominato la portinaia. Ma è una portinaia discreta, rispettosa.
Una volta, mentre prendevamo il tram ad Ancona, mi ha indicato una ragazza, molto bella, e mi ha detto “Lo vedi come si dipinge le labbra di nero? È una ragazza fula”. Il suo sguardo su di lei era un raggio di nostalgia che veniva da distanze siderali. I fula sono quelli famosi con le facce dipinte che stanno sulle copertine dei libri di antropologia da decenni, sono per lo più pastori nomadi, estremamente credenti, anzi usano il loro nomadismo come una forma di proselitismo. Ci sono due gruppi, uno con la pelle più chiara che è un incrocio fra bantu e berberi, e uno con la pelle più scura, che era quello a cui lui appartiene A. Il modo in cui le donne si intrecciano i capelli è stato copiato dalle persone famose, come Kim Kardashian. Un carnevale, un altro ragazzo fula mi aveva disegnato con la matita nera le croci che si fanno le donne sulle guance, ma che nel loro caso sono tatuate.
Spero di rivedere A. quando tornerò in primavera in Italia, spero che tutto vada bene, che trovi il modo di rimanere. Su facebook ha messo una sua foto con gli occhiali da sole e la tuta acetata, mi sembra un buon segno, ma sono preoccupata per la sua situazione legale, mi sembra senza via di fuga.
Quando facevamo le sedute con la psicologa, avevamo provato a fare un gioco per portarlo lontano dalla sua ossessione: “facciamo finta che sei rimasto orfano,” gli aveva proposto la psicologa “che tutta la tua famiglia sia morta in un terribile incidente quando avevi 13 anni. Se pensi così, se ne parli così con gli altri, magari nel tempo quella diventerà una realtà”. A. aveva scosso la testa, dicendo che era impossibile, perché lui sapeva. Ma qualcosa mi dice che ad A. manca poco, che è quasi lì, che da quando è in Italia ha avuto tante famiglie temporanee, ha fatto le prove per progettare la sua rinascita definitiva, ed ora è libero di smettere di scomparire e sorride con gli occhiali da sole o il cappello da cuoco, nonostante tutto.
Non so perché anche i giudici non l’abbiano capito, forse non ci hanno bevuto abbastanza coca-cola insieme.
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L’immagine di copertina è di Rostyslav Savchyn / CC
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