“Io non ho mai amato un popolo né una comunità, in vita mia. Non il popolo tedesco, né quello francese e nemmeno quello americano. Non ho mai amato neppure la classe operaia. Io amo soltanto i miei amici e l’unico tipo di amore che conosco e in cui credo è quello per gli esseri umani.”
Seppur non filosofa, Hannah Arendt l’ho conosciuta studiando filosofia all’università, quando mi è capitato tra le mani il suo libro meno filosofico di tutti ma allo stesso tempo il più famoso: La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme. Avevo ventuno anni e, come lei, ero stufa della filosofia e dei suoi occhiali con le lenti sfocate per osservare la realtà. Leggevo il reportage di quel famoso processo – quello del nazista Eichmann appunto – pubblicato sul New Yorker nel 1963, e pensavo che avesse ragione quasi su tutto. E fu a quel punto che decisi di approfondire la sua storia, leggendo la biografia più avvincente che mi sia mai capitata tra le mani.
Presso il civico 2 di Marktplatz a Linden, sobborgo della città di Hannover situata nel nord della Germania, è appesa una targa di metallo dove si legge “The German-Jewish historian and political philosopher Hannah Arendt was born here on October 14, 1906. She fled National Socialism and left Germany in 1933. Her scholarly work is devoted to the study of the origins of totalitarianism and anti-semitism. She died on December 4, 1975 in New York.” Si tratta della commemorazione post-mortem offerta dallo Stato Tedesco a Hannah Arendt, filosofa e scrittrice di origini ebree naturalizzata americana. Probabilmente ad Hannah Arendt sarebbe importato molto poco di essere ricordata con una targa su quell’edificio, visto che ci rimase solo per i suoi primi tre anni di vita, prima che la sua famiglia decidesse di tornare a Königsberg (oggi la città russa Kaliningrad). Ma, quello che è sicuro, non sarebbe stata contenta di essere definita una filosofa.
Infatti, non si stancò mai di ripetere che il suo lavoro non era quello di filosofa ma di teorica della politica. Quando il 28 ottobre 1964 nel programma televisivo Zur Person, condotto da Günter Gaus, le fu chiesto come si sentisse a svolgere un lavoro considerato tipicamente maschile, quello di filosofa appunto, la risposta della Arendt spiazzò il conduttore: “Mein Beruf [… ] ist politische Theorie. Ich fühle mich keineswegs als Philosophin. Ich glaube auch nicht, dass ich in den Kreist der Philosophen aufgenommen worden bin” (Il mio lavoro è la teoria politica. Io non mi sento in alcun modo una filosofa e non penso di essere accettata nel circolo dei filosofi).
Non convinto dell’affermazione, Gaus cercò di insistere con la sua tesi, ma questo servì solo a far ribadire ad Arendt che no, lei non si considera una filosofa e che, seppur abbia studiato filosofia, se ne è allontanata da tempo. La filosofia politica è figlia di una tradizione e, per sua stessa natura, è in tensione con la politica. La teoria politica, invece, permette di analizzare la politica senza avere gli occhi offuscati dalla tradizione filosofica.
I genitori di Hannah, Martha Cohn e Paul Arendt, erano ebrei di ascendenza russa, i cui antenati si erano trasferiti in Germania tra il XVIII e il XIX secolo in quanto simpatizzanti dell’Illuminismo Tedesco e per svolgere la professione di mercanti. Gli Arendt si erano trasferiti a Hannover da pochi anni, perché il padre aveva accettato una posizione da ingegnere. Tuttavia, ammalatosi gravemente, la famiglia decise di tornare a Königsberg, dove vivevano alcuni parenti, tra cui i nonni di Hannah.
L’infanzia della bambina fu turbata da una serie di eventi drammatici. Innanzitutto, la prematura morte di Paul Arendt quando Hannah aveva solo sette anni. E, subito dopo, una serie di battaglie tra l’esercito tedesco e quello russo, combattute poco lontano da Königsberg. Inoltre, l’essere ebrea comportava essere bersaglio costante di razzismo. Come Arendt stessa ha spiegato in diverse interviste, aveva capito di essere diversa dagli altri bambini proprio per via di questi attacchi. All’inizio ne era persino sorpresa visto che, seppur cresciuta con un’educazione ebraica, non era realmente praticante, al contrario di sua madre.
Martha avrebbe desiderato ardentemente che la figlia avesse delle inclinazioni artistiche, ma Hannah non ne aveva nessuna, anzi pare fosse persino un pochino stonata. Però, non era certo una figlia senza interesse per la cultura e l’arte. Durante gli anni del ginnasio, racconta la sua biografa e allieva Elisabeth Young-Bruehl, Hannah era solita riunirsi con alcuni compagni e amici per leggere e tradurre il greco antico, oltre che per discorrere di filosofia. Il circolo Grumach, così si chiamavano queste riunioni, doveva il suo nome a Ernst Grumach, uno studente delle classi superiori, con cui ebbe anche una relazione che non si sforzò mai di nascondere, provocando scandalo nella piccolo-borghese Königsberg.
Ragazzina dal carattere estremamente vivace e impertinente, la giovane Arendt si cacciò in non pochi guai. Per esempio, durante una lezione di religione ebraica si alzò in piedi ed esclamò a gran voce di non credere in Dio, provocando l’ilarità della classe, ma non la reazione del rabbino Vogelstein che con tono finto-meravigliato rispose: “Chi te l’ha chiesto?”. Oppure esortò i compagni a boicottare le lezioni di un insegnante che l’aveva offesa. Insomma, diversi furono i guai che provocò Hannah, tanto da essere espulsa da scuola.
Martha Arendt protestò in tutti modi, ma non riuscì a far riammettere la figlia. La madre non si rassegnò e cercò di far finire la scuola alla figlia. Sfruttando le sue influenti amicizie, ottenne l’ammissione di Hannah per un semestre all’Università di Berlino. Lì conobbe Romano Guardini, teologo tedesco di origini italiane, e restò affascinata dal suo modo di insegnare e dalla sua lettura moderna e filosofica della religione. Il metodo di insegnamento di Guardini, che Hannah ha descritto come il saper rendere la conoscenza viva, la influenzò e rimase un modello a cui si ispirò in tutta la sua carriera accademica.
Nel 1924, superò brillantemente l’esame di maturità – grazie all’insistenza della madre era riuscita ad ottenere il permesso di concludere gli studi da esterna – finendo un anno prima dei suoi compagni. A questo punto, si apriva una nuova fase della vita di Hannah. Non volendo semplicemente “vivacchiare”, non poteva accontentarsi di restare a Königsberg. Così, a dispetto delle difficoltà economiche della famiglia (ricordiamo che nel 1922 un dollaro valeva 20.000 marchi e che nel 1923 Hitler tentò il colpo di stato a Monaco), Hannah decise di intraprendere una carriera filosofica, raggiungendo Grumach a Marburgo, dove insegnava un docente che non aveva ancora scritto nulla, ma già aveva una fama da ribelle e rivoluzionario: Martin Heidegger.
A Marburgo, Hannah Arendt scelse come materie di studio, oltre alla filosofia, anche il greco e la teologia. Ma, a catturare maggiormente la sua attenzione, fu, appunto, Heidegger. Allievo di Husserl e fedele al motto della fenomenologia “verso le cose stesse”, Martin Heidegger voleva riscoprire la filosofia come forza che permea la vita del singolo e la modifica. Hannah Arendt rimase talmente affascinata da quel professore di bell’aspetto e così profondo, al punto da iniziare una relazione amorosa con lui.
Fin dall’inizio, fu chiaro che Heidegger non voleva compromettere la sua carriera per una giovane studentessa. La relazione quindi, nacque e si sviluppò in segreto, nascosta dagli sguardi indiscreti degli altri studenti e professori e soprattutto da Elfride, la moglie di Heidegger. Su questa storia d’amore si sono scritti moltissimi libri e, per iniziare a spiegarne la complessità, servirebbe un articolo a parte. Basti accennare che, quando la situazione iniziò a farsi critica, Heidegger spinse Hannah a spostarsi ad Heidelberg, dove insegnava il suo amico Karl Jaspers, per non compromettere la sua carriera.
L’atmosfera nell’università di Heidelberg era molto diversa rispetto a Marburgo. Si trattava di un ambiente più aperto e più liberale, completamente disinteressato alla politica (almeno nei circoli filosofici, dove era considerata una disciplina “volgare”). Per questo quando, nel 1926, un dottore in filosofia, laureatosi proprio in quella università ed entrato in politica, venne a tenere un discorso si trovò di fronte a malapena duecento persone. Quell’uomo era Joseph Goebbels, il futuro Ministro della Propaganda del Terzo Reich. Ad Heidelberg, Hannah studiò con Jaspers, che divenne non solo un insegnante, ma una figura quasi paterna. Jaspers era colui che l’aveva “condotta alla ragione”, come affermò lei stessa nell’intervista, già citata, realizzata da Gaus. Proprio con lui, Hannah iniziò una corrispondenza intellettuale e sviluppò, dopo la guerra, un’amicizia che continuò per tutta la vita.
L’insegnamento più importante che le derivò dal rapporto con Jaspers fu l’apprendere un atteggiamento, che è anche un punto centrale del pensiero del filosofo, e che si potrebbe riassumere nella parola “comunicazione”. Hannah, che fino a quel momento aveva sempre cercato di mantenere una parte di sé privata, non accessibile agli altri, e che pensava di poter trovare se stessa solo nella solitudine, imparò a comunicare i suoi pensieri in modo chiaro e senza riserve. Un atteggiamento, appunto, che è possibile solo se si ha il coraggio di aprirsi agli interlocutori e che apre uno “spazio in cui tutti noi possiamo incontrarci”.
Nel 1928, all’età di ventidue anni, Hannah Arendt completò i suoi studi in filosofia, ottenendo il dottorato con una tesi sull’amore in Sant’Agostino. A quel punto, decise di trasferirsi a Berlino per scrivere un libro su Rahel Varnhagen, una scrittrice di origini ebraiche che aveva creato intorno a sè uno dei circoli letterari più importanti d’Europa tra il XVIII e il XIX secolo. Non potendo più contare su nessun appoggio economico da parte della famiglia, chiese a Jaspers di aiutarla ad ottenere una borsa di studio. Ad insaputa di Hannah, Jaspers contattò anche Heidegger. Naturalmente Jaspers non aveva idea della relazione tra i due amanti e non sapeva nemmeno che, proprio in quel periodo, Heidegger avrebbe deciso di troncare definitivamente i ponti con Hannah. In ogni caso, Heidegger scrisse una relazione molto positiva sulla Arendt e, grazie al supporto dei due filosofi, riuscì ad ottenere la borsa di studio e a trasferirsi nella capitale tedesca.
La Berlino della fine anni ’20 era una metropoli cosmopolita piena di vita. Non solo erano gli anni d’oro del cinema muto – registi come Fritz Lang ed Ernst Lubitsch sfornavano i loro capolavori proprio nella capitale – ma anche per il teatro (“L’opera da tre soldi” di Bertolt Brecht fu rappresentata allo Schiffbauerdamm per la prima volta nel 1928). Nella capitale si respirava aria di libertà. E, durante il suo primo Capodanno lì, Hannah incontrò nuovamente il compagno di Università di Marburgo Günther Stern (noto giornalista conosciuto sotto il nome di Günther Anders). Poco dopo l’incontro, i due andarono a vivere insieme e si sposarono.
Ma, la vivacità intellettuale della capitale doveva sempre più fare i conti con i problemi sociali della Germania. Il numero dei disoccupati raggiunse livelli record, la svalutazione del marco rendeva difficile comperare anche i beni di prima necessità e, ad interpretare il malcontento sociale, ci pensava un movimento politico che aveva tappezzato le strade di Berlino con i suoi manifesti. In primo piano era raffigurato un esercito di poveracci dallo sguardo vacuo e sopra di loro si leggeva la scritta: “Unsere letzte Hoffnung: Hitler” (la nostra unica speranza: Hitler).
La tensione sociale che si respirava nella capitale tedesca, spinse Hannah Arendt ad interessarsi ancor di più alla politica. Ben consapevole del pericolo rappresentato dai nazisti, accettò immediatamente di aiutare Kurt Blumenfeld, uno dei capi del movimento sionista in Germania, che aveva conosciuto durante una conferenza ad Heidelberg, a raccogliere dichiarazioni antisemite rilasciate da personalità importanti. Si trattava di un compito molto pericoloso, il rischio era quello di venire arrestati o peggio giustiziati. Ma Hannah aveva ancora la speranza di poter fare qualcosa. Iniziò quindi la sua ricerca e aveva già diverso materiale quando fu arrestata insieme a sua madre Martha (che molto spesso andava a trovare la figlia). Se la madre riuscì a farsi rilasciare immediatamente, convincendo la polizia di non sapere nulla, Hannah fu costretta a restare in prigione per otto giorni. Per fortuna, il funzionario che si occupò del suo caso, “un tipo gentile”, la prese in simpatia. Riuscì a convincerlo della sua presunta innocenza, raccontandogli una serie di bugie.
Fu dopo questo episodio che Hannah e Martha decisero di fuggire. La situazione si faceva sempre più pericolosa visto che persino i circoli intellettuali che Hannah frequentava salutavano Hitler come un eroe. Persino il suo amato Heidegger si aspettava una “piena rivoluzione del nostro Esserci tedesco” con l’ascesa del Führer – la posizione di Heidegger sul nazismo è controversa, c’è chi ritiene abbia giurato fedeltà al nazismo solo per motivi opportunistici e per diventare rettore, nel 1933, all’Università di Friburgo e chi invece, anche sulla base dei “Quaderni Neri” (i suoi diari personali pubblicati solo nel 2014), pensa fosse un nazista convinto. E, come disse anni più tardi nell’intervista con Gaus, Hannah Arendt pensava, mentre lasciava la Germania: “Mai più! Non mi mischierò mai più con una simile storia intellettuale. Non voglio più avere niente a che fare con questa società.” Così, sempre nel ‘33, attraversò i monti della Erz insieme alla madre, passando attraverso il cosiddetto Confine Verde. Dopo una serie di tappe intermedie, Praga, Genova e Ginevra, finalmente raggiunse Parigi.
A Parigi si riunì con il marito e tornò a vivere con lui, anche se ormai la storia tra i due era agli sgoccioli. Che sia finita perché il pessimismo di Stern era “difficile da sopportare” o perché, come scrisse alla moglie di Heidegger quasi vent’anni più tardi, “Mi sono sposata giusto per sposarmi, con un uomo che non amavo”, non è dato saperlo.
Nella capitale francese lavorò per la Youth Aliyah, un’organizzazione che cercava di mandare in Palestina giovani ebrei per lavorare come operai o agricoltori e, per un breve periodo, fu anche la segretaria personale della baronessa Germaine de Rothschild. Anche qui, Hannah riuscì ad inserirsi in alcuni dei circoli intellettuali dell’epoca e, conobbe tra gli altri, il filosofo Walter Benjamin. Nel 1940, si sposò per la seconda volta con Heinrich Blücher, un intellettuale tedesco marxista, che restò al suo fianco per tutto il resto della sua vita.
Raggiungere Parigi non significò, però, trovare la pace. Gli immigrati tedeschi che si riversarono a fiotti nella capitale francese in quegli anni, non erano ben visti dalla gente locale, che li percepiva come una minaccia all’economia francese perché disposti a lavorare a basso compenso. Nel 1941, Hannah fu internata nel campo di lavoro di Gurs per ordine del governo di Vichy ma, ben presto, riuscì a fuggire e a scappare a Lisbona. Da lì, si imbarcò su una nave che andava a New York. Era l’inizio di un’altra vita – ancora – per l’intellettuale tedesca.
Negli Stati Uniti, Arendt e Blücher si riunirono e ritrovarono anche alcuni amici, tra cui Kurt Blumfeld e, successivamente, Hans Jonas (all’inizio si era trasferito in Israele). Dopo pochi mesi negli Stati Uniti, Hannah mandò una lettera aperta ad un giornale in lingua tedesca, Aufbau, dove spiegava la sua idea sulla guerra che si stava combattendo in Europa e il ruolo degli ebrei. Il caporedattore rimase colpito dalla forza delle sue argomentazioni, al punto da offrirle un posto come libera collaboratrice del giornale.
I primi anni in America furono duri per i coniugi Blücher-Arendt – Hannah continuò ad usare il suo nome da nubile anche dopo il matrimonio. Nel corso degli anni ’40, scrisse vari saggi sull’antisemitismo, l’esigenza di avere un esercito ebraico e in generale sul tema dei rifugiati. Ma, tutto quanto aveva sostenuto e scritto subì un drastico trauma quando si venne a sapere dell’esistenza dei campi di sterminio. Prima di quella scoperta, come Hannah scrisse in una lettera ad un amico, riusciva a immaginare, quasi capire, le atrocità commesse in guerra. C’è sempre un nemico da odiare e, entrambe le parti, lottano per affermarsi. Ma, la scoperta di veri e propri luoghi di morte, cambiò radicalmente il corso della storia per Hannah Arendt. E la ispirò a scrivere quello che fu immediatamente riconosciuto come il suo lavoro principale: “Le origini del totalitarismo”.
Pubblicato nel 1951, resta ancora oggi uno dei testi più completi sulla storia dei regimi totalitari e il primo saggio a proporre un parallelismo tra la Germania nazista e l’Unione Sovietica staliniana. L’elemento in comune tra i due sistemi? Lo sfruttamento dell’ideologia per raggiungere il dominio assoluto, che altro non è che l’idea centrale totalitaria. Il sistema totalitario non ha precedenti storici, è diverso dalla tirannide o da qualsiasi tipo di dittatura precedente, perché mira al controllo dell’individuo in qualsiasi aspetto della sua vita, pubblica o privata, distruggendo la spontaneità umana.
Quest’opera diede una certa notorietà alla Arendt e fu anche un trampolino di lancio per una serie di lavori pubblicati nel corso degli anni ’50, tra cui La condizione umana e il saggio Sulla rivoluzione del 1963. Divenne la prima professoressa a Princeton e successivamente insegnò anche all’Università di Chicago, a Berkeley e alla New School. La carriera accademica e intellettuale della Arendt si accompagnò sempre con un percorso più giornalistico, collaborando, tra gli altri, con le riviste The New York Review of Books, Commonweal e Dissent. Inoltre, il 1951 fu un anno importante per la Arendt anche per un’altra ragione. Fu proprio in quel periodo che ottenne la cittadinanza americana, dopo quattordici anni da apolide (aveva perso la cittadinanza tedesca nel 1937 a causa delle leggi razziali).
Negli anni ’50, Hannah Arendt ritornò anche in Europa per la prima volta dopo la guerra e, durante un viaggio di lavoro a Friburgo, incontrò l’ex-amante Martin Heidegger. Il ritrovarsi fu imbarazzante. Arendt descrive il comportamento di Heidegger in una lettera all’amica Hilde Fränkel. “H. […] iniziò a recitare qualche sorta di tragedia, a cui probabilmente ho partecipato nei primi due atti.” scrisse all’amica. E ancora: “Inoltre, ci fu una scena surreale in cui sua moglie, agitata, continuava a ripetere “tuo marito”, al posto di dire “mio marito”.” La relazione tra i due, anche dopo la guerra, non è facile da interpretare. Non è chiaro se il filosofo abbia mai davvero rispettato il lavoro della Arendt. Certo è che Hannah si impegnò a fare in modo che i lavori di Heidegger venissero tradotti e pubblicati oltre oceano. Considerato che il filosofo tedesco non godeva di buona fama a causa della sua affiliazione al nazismo, non si trattò affatto di un compito facile.
Nel 1961, un evento storico contribuí a renderla famosa, anche al di fuori dell’ambiente culturale di cui faceva parte. L’evento in questione fu la cattura di Adolf Eichmann, gerarca nazista responsabile per la detenzione e il trasferimento degli ebrei nei campi di concentramento, a Buenos Aires. Decisa a voler vedere un nazista in carne e ossa, si propose come inviata speciale del New Yorker al processo di Eichmann, che si sarebbe tenuto a Gerusalemme nei mesi successivi. Ovviamente, la rivista accettò la sua proposta.
Nel reportage, che fu pubblicato diviso in cinque estratti, Arendt non si limitò a descrivere il processo. Certo, sono riportate alcune delle dichiarazioni dei testimoni (o forse sarebbe meglio dire “dei sopravvissuti”) e sono descritti nei minimi dettagli i numeri e le cifre delle persone trasportate nei campi dai diversi paesi europei, ma anche l’opinione dell’autrice è parte integrante del lavoro. E l’opinione di Hannah Arendt su Adolf Eichmann non era quella della maggior parte della gente.
A scatenare l’opinione pubblica contro di lei sono principalmente due considerazioni. La prima è un giudizio, più o meno implicito, sull’operato dei consigli ebraici, accusati velatamente dalla Arendt di aver cooperato con i nazisti perché, garantendo l’ordine dentro i ghetti, hanno favorito le deportazioni e altri atti. La seconda è la descrizione di Eichmann come un individuo banale. Non un Mefistofele o un Riccardo III che quando arriva la sua mezzanotte resta solo a fare i conti con la sua coscienza, ma un uomo disposto a compiere il più terribile dei crimini e allo stesso tempo ad essere un ottimo padre di famiglia. Eichmann non si sente responsabile dello sterminio degli ebrei, perché lui non ha mai fisicamente torto un capello ad un solo ebreo. Si limitava ad organizzare i trasporti, a preparare le liste. Era un burocrate. La Arendt descrive Eichmann semplicemente come un uomo “senza idee”, un “signor nessuno”, un individuo incapace di pensare. Insomma, come ben sintetizzato nel reportage: “Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso.”
Quando il reportage fu pubblicato, si scatenarono una serie di polemiche che cambiarono per sempre la vita della Arendt. Le critiche non erano cosa nuova per lei, solo un paio di anni prima, un articolo (ancora oggi molto controverso) pubblicato su Dissent con il titolo Reflections on Little Rock aveva scatenato un polverone. Infatti, l’autrice aveva criticato la decisione della Corte Suprema di imporre l’integrazione di studenti afro-americani nelle scuole dei bianchi. A fronte di questa decisione, moltissimi bambini di colore erano stati presi di mira dai bianchi. Ma, questa polemica non fu quasi nulla a confronto delle critiche che ricevette per la questione Eichmann. Furono moltissimi i suoi detrattori e rischiò persino di perdere il suo posto di lavoro in Università. Nei circoli culturali spesso veniva accusata di essere cocciuta o, peggio, “arrogante”, una donna senza cuore. Anche i suoi amici più intimi, come Kurt Blumenfeld, si arrabbiarono con lei: “Hannah, questa volta hai esagerato.” Persino il teologo Gershom Scholem le scriverà poco dopo la pubblicazione del reportage una lettera accusandola di non aver alcun “amore per il popolo ebraico”.
Per tutto il resto della sua vita, Arendt continuò la sua riflessione sul concetto di male e sviluppò in saggi e lezioni universitarie quanto aveva iniziato a teorizzare nel trattato su Eichmann. La sua fama da intellettuale si consolidò al punto da essere nominata membro dell’American Academy of Arts and Letters nel 1964 e da contribuire alla fondazione della Structured Liberal Education (SLE) alla Stanford University. Nel 1972 fu invitata a tenere le prestigiose Gifford Lectures, una serie di lezioni per promuovere lo studio della teologia naturale, all’Università di Aberdeen in Scozia.
Hannah Arendt morì di infarto nel 1975 nella sua casa a New York. L’ultima sua grande opera, uscita postuma e incompiuta nel 1978 grazie al lavoro di editing dell’amica Mary McCarthy s’intitola “La vita della mente”, un saggio che si concentra principalmente sulle facoltà del pensare (inteso in senso socratico come dialogo tra solitario tra me e me stesso) e del volere.
Quindi, a fronte di una vita così emozionante e di lavori tanto diversi tra loro, qual era davvero la professione di Hannah Arendt? Personalmente, non so rispondere a questa domanda. Arendt non è una politologa, visto che non ha mai sviluppato una teoria politica coerente, e nemmeno una filosofa, visto che non ha creato alcuna teoria che cerchi di descrivere in maniera onnicomprensiva il mondo e di incasellarlo in categorie. Quello che questa straordinaria donna, pure con le sue mancanze e i suoi limiti, ha cercato di fare per tutta la vita è stato il tentativo di comprendere il mondo per com’è. Nessun governo può estinguere la libertà umana, ma la società moderna e democratica ha paura del disordine e della confusione e, a volte, preferirebbe rifugiarsi nella sicurezza garantita da un insieme di regole inviolabili, garantite e promosse dalla burocrazia. È difficile – e probabilmente non è nemmeno utile – categorizzare una pensatrice che non vuole essere categorizzata. Di certo, molte delle riflessioni di Hannah Arendt suonano molto attuali oggi, in una società sempre più tormentata e dove sono in molti a chiedere ai governi di mettere “ordine”. Il dono più grande della Arendt al mondo è, come il direttore dell’Hannah Arendt Center for Politics and Humanities Roger Berkowitz, scrive “il potere vitale della sua difesa alla libertà in un’era costantemente sempre meno libera”.
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Immagine di copertina: © Private Hannah Arendt Archive
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