Un estratto da “Gli Annegati”, il romanzo edito da Il Saggiatore
nel quale Lorenzo Monfregola, al suo esordio,
scrive il Pasto nudo della generazione Erasmus.
Un gorgo romanzesco di caos, violenza e cinismo
in cui assieme al lettore annegano le delusioni
e le speranze del contemporaneo.
“Gli annegati”, soprattutto, è
una storia d’amore in un fiume d’odio.
Il fiume puzza del mondo intero e io ci sto affogando dentro. L’acqua è scura, è verde, è viola, sta bruciando, è cattiva. Sento i rumori, sento le voci, sento le risate della città che se ne sta là fuori a vivere. Mentre io sto per crepare, qui, adesso. Io so nuotare bene, ma ora si mette male. Ci vuole un attimo: cadi nel fiume sbagliato e non ti ricordi nemmeno più come si faccia a respirare. Che questo sia un fiume, io lo so, ne sono sicuro. Perché io lo sappia, non ve lo so dire: non ne ho il tempo. Apro la mia bocca, bevo l’acqua infetta di melma e paura. Non tocco mica, ma certo qua sul fondo, sotto alle mie gambe, ci sono le peggiori cose: le peggiori tra quelle vive, le peggiori tra quelle morte. Sto annaspando in un qualche brodo primordiale, dove la vera stranezza è nascere, dove capitare al mondo è l’eccezione più velenosa, dove riuscire a vivere è solo una coincidenza rubata bene.
Là, sulla riva, ci sono dei tizi! Riesco a tirare tutta la testa fuori dall’acqua: eccoli, si staranno bevendo una birra. Perché ’sti qui non mi aiutano? Perché non mi vedono? La notte non è abbastanza illuminata? Perché io non li chiamo? Devo solo urlare, se ora urlo mi vedranno, devo solo far gridare la mia gola. Ma io non posso urlare, io non posso, io non voglio farmi vedere, non so perché, ma io non posso farmi vedere. Mi sa che sono vestito, sì. Il cellulare. Il cellulare sarà andato, ovvio, qua c’è solo acqua. Ancora pochi secondi e sono fregato pure io, ecco cosa. Si pensa per anni che mica si muore, in qualche modo si finisce per convincersi che non si morirà mai. Poi, nel giro di un solo minuto, si crepa in un fiume. Vedrai se non va a finire così. Come funzionerà? ’Sta brodaglia prebiotica ora mi risucchia e la finiamo qui? Devo solo lasciarmi andare? Diventare fondale, energia, cellula marcia? Che faccio? Smetto di muovere gambe e braccia ed è già tutto risolto? Mi spiegate? Spiegare a chi? A me. Chi? A me. Perché io sono io. Non lo so, il nome, però. Aspettate, dove l’ho messo? Dev’essere da queste parti, galleggia qui nel buio, mi gira intorno, ma non riesco ad afferrarlo, il mio cazzo di nome. Il mio nome è come la coda di un cane nel fiume: il cane sono io, proprio così: io sono un cane rabbioso. Mi sento già le unghie crescermi dalle zampe. Niente istruzioni su come mollare e crepare? Allora sapete che c’è? Io nuoto, dai, io nuoto. Io ora le muovo meglio, queste zampe. Nuoto a stile, anzi a rana: sono un cane rognoso che nuota a rana: entro ed esco dalla pelle fetida dell’acqua, quello è il muro! Lo vedo, quello è il muro: un muro, qui, alla mia destra: c’è il muro. Guarda, quello è il muro dei turisti: Berlino! Nuoto. Io sono a Berlino, ora nuoto, riesco a nuotare, Berlino. Questa è Berlino, e quelli là fuori sono loro, tutti quanti: a ballare, a bere, a divertirsi, a dimenarsi, a girare, a esserci. Sì, quelli sono loro, questo lo so: sparpagliati, ammucchiati, scappati, eccoli là, loro: berlinesi, berlinisti, intellettualisti, startuppisti, scopaioli, hipster, cazzetti, danzatrici, raver, spacciatrici, cazzoni, fiche, anche-artisti, refugees, musicisti, psicotici, fotografisti, nevrotici, tossici, maschiosi, bariste, cervellinfuga, cervelli nella vasca, rampolli, femministe, genitori, senza-dio, legionari, depressi, dottorande, vegani, post-vegani, schiavi, compagni, tatuatori, ciclisti, nazisti, camerieri, sciroccati, nemici, vagine, pance, spine dorsali, biglietti della metro, controllori, burocrati, sgherri, sbirri, costruttori, architetti, buttafuori, kebabbari, l’elettronica quella vera, viaggiatori, millantatori, comparse, suicidi, accoltellatori, preservativi, vittime, discepoli di tutto, sacerdoti di niente. Sono loro.
Ho deciso: non morirò nell’acqua lurida di Berlino. Sì, stavo mollando un attimo fa, ma ho cambiato idea: io sono un cane senza ritegno. Ora mi arriverà in bocca il mio nome, forse ora ce la faccio, a nuotare fino al mio nome: voglio tornare in città, voglio uscire dal fiume, subito: a scopare, a picchiare, scricchiolare, crollare, cadere, masticare, sputare, vomitare, ingoiare, venire, aggredire, micro-aggredire, uccidere, studiare, amare, negare, rubare, accarezzare, muoversi, fare la fila, tanta fila: tu sì, tu no, tu sì, tu no, poi scappare, comunque e sempre: scappare, il mio nome? Cazzo. Il mio nome è nuotare, nuotare, nuotare! Fino al muro, quello è il muro, devo solo raggiungere il muro. Mi bruciano le narici, la gola, la trachea, le orecchie, le cosce, le braccia: brucio come un pezzo di carne di cane impazzito. Ma io me ne frego. Io ci arrivo alla riva, ormai ho deciso: devo arrivarci. Dai. Poi sistemo anche ’sta cosa del nome, non ora, prima la riva: sta là, ora la vedo, la sento: nuota, nuota. L’acqua in faccia, l’acqua negli occhi, nei polmoni, nell’intestino, nel culo: nuoto e nuoto e nuoto. Ci sono quasi, alla riva, ancora un colpo e poi eccola, ancora un altro colpo, ancora una bracciata, un’altra ancora, eccola: mi sporgo per arrivare ad aggrapparmi, che succede? Mi graffio le mani e i polsi: è cemento, infame, tutto è infame, perdo la presa. Uno, due: e dai. Uno, due, e dai. E tre. Tre. Adesso ci sono. Salvami! Non ti mollo più, mi ci spacco le dita sul bordo di questa riva: mi tiro su, ce l’ho la forza, lo so. Berlino, eccoti, da quanto tempo non ero a Berlino? I jeans strisciano sul cemento mentre esco del tutto. Ora sono fuori dall’acqua. Mi inginocchio per terra, respiro, sputo: la terra è sporca, mi giro, lo guardo bene, il fiume: questa che striscia è la Sprea, si chiama così: il fiume di Berlino, con il muco che mi sale dal cuore, si chiama Sprea. Stavo là dentro, io, poi mi sono tirato fuori, proprio ora, ho fatto tutto da solo: la Sprea bruciava, la Sprea brucia ancora. Sto a Berlino, eccomi, non sono più a Kuala Lumpur, e ora mi arriva anche il mio nome, vedrai. Che è successo? Devo essere caduto dentro il Gombak o il Klang, sì, magari là era giorno, ma qui è notte: questi fiumi sono tutti collegati tra loro, sottoterra, ti basta finire nella corrente giusta e vieni sparato da una parte all’altra del mondo, esatto, è così che da Kuala Lumpur devo essere finito nella Sprea, succede. Mi tocco la pancia, le gambe, la faccia, il cazzo, tutto è gelido, eppure il fiume mi pareva bollente. Qua sulla destra ho la catena, penzola dalla cintura, finisce nella tasca dei pantaloni, c’è ancora? Il portafoglio, sì, eccolo, è rimasto in tasca, attaccato alla catena, non è andato come il cellulare, e se lo apro forse ci trovo anche il mio nome. Ma non serve: ora il nome me lo ricordo senza andare a guardare, va bene? Ora ci riesco, mi devo solo concentrare. Me lo ricordo, dai. Mi ci vogliono solo 10 secondi, no 11, magari 17, 19, 21, 33 secondi, allora: ora corro contro il muro e mi spacco questa testa fradicia che mi ritrovo. No, no, ho detto che non devo mollare. Ancora un attimo, devo riuscirci: 35, 39, 41, 42 secondi, io ci sono, ci sono. Dai che sono quasi vivo, dai che sono quasi pronto: 43, 46, 48, sputa, sputa. Sputa questo cazzo di nome. 50, 52, 53, che bello, 54, 55, sì, ci sono, arriva: 56 secondi, dai, 57, 58, 59, sono pronto, sono qui, sono Arthur, io sono Arthur, Arthur Cipriani! Cipriani, Arthur Cipriani. Io sono Arthur Cipriani.
© Il Saggiatore
Il libro “Gli annegati”, di Lorenzo Monfregola, è edito da Il Saggiatore e può essere acquistato qui.
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