La Fulda, almeno quella che conosco io, è una donna forte, orgogliosa, tenace, che non ama le nuove mode.
Come il fiume da cui prende il nome è piccola, ma importante. Nasce dall’Arkaden sulla Karl-Marx-Straße, come un massiccio roccioso stagliato fragorosamente a proteggerla dal traffico più agguerrito, per poi gettarsi lentamente nel canale, lì dove tutto sembra essere pace e serenità.
Come fosse la prima moglie di un principe divenuto re, per i primi due isolati la donna Fuldastraße si fa matrona, si butta nel vivo e affronta a testa alta il centro nevralgico di Neukölln. Proprio dietro al municipio, lì dove la Karl-Marx si apre in uno slargo di vetrine e via vai, sebbene ancora un po’ appartata, come moglie di primo letto del Rathaus, come diva ma tenuta in disparte, da dietro l’angolo osserva ostinata la vita di corte che le spetterebbe di diritto, ma senza intromettersi troppo.
Quando è crepuscolo, alla mattina, è come se tutto si svegliasse tardi: solo poche ancelle silenziose sono in giro e cominciano in sordina a preparare il rito del nuovo giorno, quasi a non volerla turbare. Eppure è come se lei, la Fulda, sia sempre lì, sapiente, anche nel dormiveglia, con un occhio ancora aperto e il controllo su tutto: come una dea protettrice sembra essere lei a darmi il permesso, con la sua forza, di addentrarmi fino alle piazze più trafficate della mia giornata, benedicendomi. E’ una minerva omerica dal cuore tenero, che senza scomporsi, senza chiedere scusa, forte del suo ruolo tra le dee, intercede presso il Giove Rathaus a favore di me, Ulisse, affinché possa arrivare all’incrocio, scendere le scale e prender la metro che mi porterà lontano da lei, abbandonata Calipso. L’orologio della Martin-Luther-Kirche, intanto, più femminile e discreto, fa il verso a quello del municipio come un patto di nozze fra titani.
Donna, in tutto e per tutto, per me, la Fulda. Forse perché Fulda in italiano suonerebbe così femminile, forse perché Straße in tedesco vuole l’articolo die, o forse perché per me, Fuldastraße, è dove ha casa la mia compagna e dove ora ho casa anch’io.
Donna, in tutto e per tutto, per me, la Fulda. Forse perché Fulda in italiano suonerebbe così femminile, forse perché Straße in tedesco vuole l’articolo die, o forse perché per me, Fuldastraße, è dove ha casa la mia compagna e dove ora ho casa anch’io. Un appartamento dove il rosso, nelle sue varie sfumature, la fa da padrone; una casa piena di piante e orpelli e arredi: una casa al femminile. Così anche la strada per me, nel mio immaginario, si tinge di rosso: forse per il palazzo di fronte tinteggiato sangue, per qualche insegna, dell’Apotheke o della Metzgerei, o per i mattoni della chiesa protestante. Da sempre il mio ricordo di lei, della Fulda, è legato alle sue mani da signora, alla sua bocca, ai suoi seni, ai suoi capelli e al suo modo di parlare, ma anche ai veli delle donne in strada, al fioraio quasi alla metro e alla sua variopinta proprietaria, ai mazzi di rose ricolmi di nastri e nastrini dei matrimoni arabi, ai parrucchieri turchi in cui le ragazze si fanno l’epilazione alle sopracciglia con il metodo orientale del filo.
La signora turca della Backerei, il capellone del negozio di fotografia con le macchine antiche in vetrina, le macellaie con l’area gioco per bambini davanti al bancone delle carni, il piccolo rivenditore di vernici, l’edicola mai cambiata da decenni, gli anziani che smistano l’immondizia nel mio cortile, dove non c’è un Hausmeister ma un palazzo autogestito in cui ci si divide i compiti: tutto, di questo tratto della Fulda, mi riporta indietro, a riscoprire quella Berlino fatta di una piccola vita di quartiere, dove una catena estera faticava ad attecchire come idea troppo distante dalle persone. Mi immergo in un mondo altro e quando non voglio vedere il titano cattivo, per uscire di nascosto, la mia dea protettrice apre un varco segreto, strizzandomi l’occhio, e percorro l’Ideal-Passage (Modell sozialen Wohnens) costruito nei primi novecento dai fratelli Kind: come un piccolo torrente ghiacciato e protetto, affluente nascosto, qui nulla mi può far male; i vecchi abitanti sono ancora seduti in cortile con le loro sedie a leggere un giornale o a sistemare le aiuole; tutto sembra immobile, pietrificato nel tempo.
Perché tra i turchi di vecchia generazione dei caffè e dei rammendi ai pantaloni, tra gli arabi delle verdure e degli Spätkauf, tra il kebabbaro all’angolo con la Karl-Marx dove servono la migliore zuppa di lenticchie e quello libanese e tutto arancione all’angolo con la Sonennallee dove puoi ancora trovare un buon falafel a due euro, la Fulda non è cambiata poi molto: statuaria e inamovibile, sebbene tutto il quartiere attorno si stia stravolgendo, per questo breve tratto lei resta così, come se nulla potesse smuoverla. Pur con i prezzi che salgono (quelli degli immobili quasi triplicati) e gli stranieri che arrivano, lei resta comunque fedele a sé stessa e a Berlino, alla strada e al quartiere, con le sue due kneipe dalle tendine bianche merlettate, con l’arredamento in legno che a noi sa tanto di montagna tirolese (“Abenteuerland” recita l’insegna, rimandando ai tropici) e i vecchi baffoni seduti a bere. Lei non si smuove. L’unico nuovo negozio nato qui è una piccola pizzeria gestita da ragazzi albanesi che hanno vissuto a lungo in Italia, ma nulla ancora che possa ricordarci che siamo nel nuovo centro della gentrificazione: nulla che possa farci ricordare che Berlino è diventata tragicamente internazionale. Eppure basta anche solo girare l’angolo, o smuoversi di mezzo isolato sulla stessa via, per ritrovarsi nella nuova capitale giovane dell’hipsterismo, tanto irriconoscibile dalla vecchia Berlino quanto così sempre più uguale a tutte le altre città, con i locali fatti dai desiner e arredati all’ikea, con i cooworking e i concept store.
“Che parte della Fulda sei?” Perché la Fulda ha due caratteri ben distinti, è due donne in una, o meglio è come una pianta che sotto le foglie più spinose e mature, nasconde altri steli più teneri, fragili e docili. Perché la Fulda matrona ha, nascosta sotto le fronde di un viale alberato e più ombroso, una figlia adolescente e un po’ ribelle. Se la prima è un’esperta maestra di vita, che sa dominare il mercato, l’altra è una bambina, un germoglio, un mattino cinguettante nascosto nel sottobosco. Dalla Sonnenallee al canale la Fulda figlia si è da tempo venduta alla movida giovanile della Weser, ha ceduto al fascino dei localini trendy e si diverte ad essere altro, quasi si vergognasse della sua ostinata genitrice. Qui il parrucchiere turco diventa barbiere di tendenza, l’alimentari da Lenbensmittelgeshäft diventa impersonale discount e anche il passante, per quanto lo stesso, è come cambiasse faccia: il taglio fuori moda, in questi ultimi isolati, si chiama vintage. Tra i cortili popolari di Bruno Taut della Ossastraße e il piccolo Trödel accanto alla Kita, la Fulda ragazza sembra distendersi ad accogliere anche i nuovi venuti, tra occupazione e liberazione. E se fino a cinque anni fa nessuno ci avrebbe mai messo piede, nella zona malfamata e buia, oggi tutti la riconoscono come la regina, mamma bambina, spina trasversale della nuova Neukölln.
Eppure, sotto il suo ammiccamento giovane, dietro i muri ritinteggiati e le insegne minimaliste, per me lei resta sempre la cara Fulda: la vecchia signora tedesca della Berlino Ovest, affacciata con curiosità a spiare i cambiamenti della vicinissima Berlino Est
“Chi veramente volesse trattenere nella memoria l’accaduto, non dovrebbe affidarsi ai ricordi. La memoria umana è un processo troppo gradevole per mantenere il passato; è il contrario di ciò che pretende di essere. Perché il ricordo può essere di più, molto di più: realizza con tenacia il miracolo di fare pace con il tempo andato, dove si volatilizza ogni accenno di rancore e un soffice velo di nostalgia si deposita su tutto ciò che è stato percepito come duro e inflessibile. Le persone felici hanno la memoria corta e ricordi meravigliosi”
(Thomas Brussig, Am kürzeren Ende der Sonnenallee)
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