Primordi è un rubrica aperiodica, curata da Mattia Grigolo.
Ci piacciono degli esordi narrativi e ne scriviamo. Ma solo esordi.
Da qualche parte, in nessun luogo eppure in tutti, scandito da un tempo tachicardico eppure preciso. C’è la Liguria e occorre immaginarsela. Nient’altro.
In una famiglia problematica, mettiamola così, come sono tante, mettiamola anche così (purtroppo per la nostra società, ma per fortuna per la narrativa italiana, che ci sta puntando molte delle proprie fiches) si alternano le voci e il teatro di un padre, un figlio scappato, una sorella rimasta nonostante il dolore, un figlio rimasto perché forse non aveva scelta. Il figlio scappato torna perché il padre ha problemi (di salute). Allora, sempre il figlio scappato, si accorge che i problemi non li ha solo il padre, ma anche il fratello e la sorella, che invece sono rimasti. Ma forse già lo sapeva ed è per questo che è andato.
E poi altre voci, esterne eppure interne. La danza dell’intreccio è malinconica, violenta, ignorante, folgorante, primitiva, a tratti macabra, oddio quanti aggettivi, se vogliamo una trama scontata, perché lo è, costruita, la immagino così, non per tornare su sé stessa a pugni e calci e nemmeno per far scattare sull’attenti o sulla sedia. È una trama che scivola su binari che non facciamo fatica a capire che direzione vogliano prendere e quale sarà la destinazione. Li costruiamo prima noi che leggiamo, di lui che scrive. I punti di vista sono quelli, le svolte narrative anche.
Ma.
Il lavoro che viene fatto da Marangi con la lingua e la voce, beh, quello è davvero notevole e, soprattutto, avrebbe meno fascino e meno peso specifico, se sorretto da una trama più spinosa. Voglio dire, è quello che serve ad Angeli di Sale. La semplicità dell’una per la complessità dell’altra.
Eccolo il quadro di Angeli di Sale, libro d’esordio di Francesco Marangi, quarto prodotto della collana Interzona, curata da Ignazio Labbate, già finalista dell’Italo Calvino (con altro titolo, Risacca, forse meno potente ma più onesto rispetto quello che racconta).
Dicevo, la lingua. E dicevo la voce.
La vera forza del romanzo sta nella scrittura, nell’approccio sperimentale – e urliamo, sperimentale! senza paura di andare a scomodare chi vive all’ombra delle pietre – e quindi coraggioso, a cui l’autore decide di affidarsi. Voglio ricordarlo ancora: è un esordio. Che non deve essere una giustificazione, ma neppure una scusa.
Al netto di qualcosa che a mio parere (quindi soggettivo a livello superlativo) poteva essere fatto un attimo meglio – per esempio, c’è un lavoro sulla ripetizione che ho trovato non completamente riuscito – Angeli di Sale è un lavoro di limiti infranti a livello soprattutto linguistico ma anche strutturale, che mi fa ben sperare sul futuro di un certo tipo di narrativa in Italia. A maggior ragione che l’autore è molto giovane, il che può significare tutto e niente, ma che è pur sempre qualcosa.
È un romanzo che mi ricorda un altro romanzo e anche quello mi era piaciuto parecchio per il modo che aveva di intendersi con un certo tipo di tematiche – disinteressandosi dell’hype, ho usato la parola hype associandola alla narrativa, fiuuuuu –, anche se giocava meno con le forme da plasmare rispetto a Marangi: parlo del Resti di Gianni Agostinelli, uscito nel 2020 per Italo Svevo (tra l’altro anche lui finalista del Calvino all’esordio, ma con il romanzo precedente). Mi rendo quindi conto che questo è il tipo di scrittura e di temi trattati a cui godo assistere, appoggiarmi e attingere dall’intrattenimento. La quantità di letteratura, o meglio di narrativa, che riesco a ingurgitare senza stomacarmi. Siamo in quella zona del gusto.
Per andare invece in sponde oltre oceaniche e riprendere altri esempi, navigando non a vista, ma in territori più ostili ancora (e chi lo dice poi?) mi ricorda il redneckissimo Le Strade del Male di Donald Ray Pollock e, per la coralità, anche quell’altro suo, meno riuscito, La Tavola del Paradiso.
Le differenze tra Angeli di Sale, Resti e le due opere di Pollock sono sintetizzabili più che altro nella geografia e nella mancanza di essa (l’americano ambienta i suoi libri a Knockemstiff, città fantasma dell’America rurale che dà anche il titolo a una sua raccolta di racconti), nella semplicità o semplificazione e nel gioco dell’oca con il quale la trama va a frantumarsi nell’ovvio (cosa che non accade con gli esempi di confronto) che, mi ripeto, non è necessariamente un punto debole. Non lo è in questo caso specifico. Anzi.
“Se non li porto al fresco subito, il sole se li mangia lui, i pomodori.
Pietro mi sta di fronte e gli faccio cenno di passarmi la canna. La infilo nel serbatoio per vedere se c’è benzina. Me la lasciano sempre a secco.
‘Vai su a prendere la tanica’ dico, e quello mi fissa imbambolato. E allora gli tiro un urlo.”
È Sandro, il padre, a parlare.
E ancora:
“Non mi rispettano. Per loro sono uno stupido. Quello è appena arrivato e già si schiera dalla sua parte. Loro da una parte io da solo. Non vuole sentire quello che ho da dire. Bruno è il cattivo.”
Questo è Bruno, il fratello rimasto.
Infine:
“Cammina davanti a me, Bruno: alto e biondo, ancora più alto nel sole; la sua ombracome un tronco di pino copre l’ombra di Pa’, che farfuglia frasi senza senso e parla ai pomodori. Dice marciscono, lo ripete ancora. Una litania, fra le labbra, come se volesse capire il dire”
Pietro, il ritornato.
Ogni voce è pesata sulla bilancia dell’equilibrio linguistico e poi, come se Marangi decidesse di non volerne (di armonia) o forse come se preferisca affidarsi decisamente più al caos che alla forma da dare all’argilla, scioglie i dialoghi (ogni forma di dialogo) in periodi infiniti senza punteggiatura, trasformando un pensiero semplice in poema delirico. È indubbiamente la cosa più riuscita dell’opera. Il resto gli va dietro, insegue e noi ci restiamo incollati, perché la bravura dell’autore è proprio nel sapere prendere, trascinarsi lui per trascinare il lettore all’interno, o all’esterno, di un viaggio che si sa già dove porterà, eppure, nonostante tutto, vogliamo andarci.
La famiglia disfunzionale ha rotto il cazzo, dicono.
Non lo so, sai, non lo so. Secondo me no.
Un padre che ha fatto di tutto per non tenersi vicino i figli, ma per abbracciarsi stretto alla sua terra. Il figlio che è riuscito a scappare e quello che si è adattato alle botte in testa, a un pensiero che non è mai laterale, piuttosto è diretto come un dolore al centro del petto. Una figlia che si è trasformata in madre e puttana, un’altra figlia-madre-sorella a farle da specchio e un figlio-fratello che chiude il quadro con la figura dello scemo del paese.
È il ritornato a generare il cortocircuito. Oppure, forse, è la malattia del padre? Oppure il comportamento della sorella? La violenza e la rottura della routine del fratello rimasto? È lo scemo a rompere la quiete? Oppure il bracciante straniero? Che cos’è che spezza il filo teso da una parte all’altra di un campo, da un balcone alla finestra del palazzo di fronte, dal mare all’orizzonte, dal sole alla terra, dalla realtà al delirio?
Le risposte ci sono, limpide, senza fantasmi nascosti nelle pareti. Sono lì, e le abbiamo, appoggiate alla scacchiera, oppure ognuna su di uno scalino che, in una discesa tanto lunga quanto impercettibile, porterà sul fondo delle cose preziose, che abbiamo perso, nonostante siano sempre state lì, in cantina.
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