Ci sono poche cose al mondo gratificanti come il licenziarsi. La camminata leggera verso l’ufficio del direttore, la lettera in mano, il sorriso trattenuto perché il momento è solenne e va rispettato. Le parole che escono lente, chiare, inequivocabili: ‘Do le dimissioni’. Il disappunto nel volto del capo, il suo rimorso, i ‘possiamo parlarne’, le controproposte, e quell’orgoglio che ti porta a rifiutarle tutte. Tutte.
Non c’è niente che ti faccia sentire libero e padrone della tua vita come vedere la mano del boss che tentenna nel prendere la lettera che gli stai porgendo. Non c’è niente come riscattare il proprio tempo a cui è stato dato un prezzo, nonostante il suo valore inestimabile. È un urlo di indipendenza e di autodeterminazione. È un lusso che non tutti si possono permettere. È un’illusione, destinata a svanire appena i soldi finiranno, ma quanto è bella. E vaffanculo al domani.
Sai di essere schiavo dalla società in cui vivi. Non sei l’eccezione e, no, di fare l’eremita per uscire da questa macchina capitalistica non se ne parla. Sai che presto dovrai cercare una nuova occupazione, perché l’affitto, perché il cibo, perché tutto. Sai che la storia si ripeterà, che arriverai a bruciarti, e a mollare ancora. Poco importa che il lavoro ti piaccia o meno. È un ciclo dal quale si esce solo con la morte, e licenziarsi è l’illusoria e necessaria speranza di poterlo interrompere.
Ho lasciato il lavoro, l’ennesimo, e lo devo a Fantozzi.
Da piccolo non mi perdevo una replica. Conoscevo le battute a memoria. Ogni gag, ogni scena, ogni epiteto con il quale veniva umiliato dal megadirettore di turno. Ridevo, davanti al televisore, ogni volta come se fosse stata la prima. Mamma non poteva soffrirlo, invece. Provava troppa pena per quel ragioniere a cui capitava ogni tipo di sfortuna. Ora mi è facile capire il perché: io, al contrario di mia madre, ancora non avevo cominciato a lavorare.
Fantozzi è morto, o meglio, l’attore e l’autore che gli stava dietro.
Dell’uomo so poco o niente. L’ho sempre avuto in simpatia per quella maschera – sua fortuna e condanna – ma non so dirvi, tolti i panni del ragioniere, che persona fosse. Potrei spulciare informazioni su uno dei tanti coccodrilli che oggi ogni testata riporta, giusto per farlo sembrare un articolo con del lavoro dietro, ma a me il lavoro – si sa – non fa impazzire.
Fantozzi è vivo e lo sarà sempre, perché le cose non cambiano.
Veniva insultato, usato come parafulmini, ripudiato dalla bella signorina Silvani, e pure cornificato con il panettiere. Aveva la moglie racchia e la figlia peggio. Andava in giro con una Bianchina scassata e tutti lo chiamavano Merdaccia. Il massimo che si potesse aspettare dalla vita era una frittatona di cipolle con birra Peroni, guardando Inghilterra-Italia in mutande e vestaglia. L’invidia di nessuno, la vita di molti.
Ma c’era un momento in ogni suo film, un piccolo frangente tra le mille disgrazie, in cui Fantozzi non ci stava. Il momento del riscatto. Durava poco, mai abbastanza per un happy ending, e poi tutto tornava alla normalità. Ma in quel momento, dove anche mia madre riusciva a sorridere e tenere lo sguardo sullo schermo, c’era tutta la speranza di cui abbiamo bisogno.
Fantozzi è vivo, e lo sarà sempre. Fantozzi è necessario, perché come lui ci sarà sempre chi è sfruttato, umiliato, annullato. E così, anche tra gli ultimi, ci sarà sempre chi troverà il coraggio di dire che La Corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca.
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