“Dice che l’immondizia è la gemella del diavolo. Perché l’immondizia è la storia segreta, la storia che sta sotto” (Don Delillo – Underworld, 1997 Scribner U.s.a., 1999 Einaudi It.)
Gomorra è il capolavoro della fiction italiana che ha conquistato anche l’audience internazionale. Una narrazione che da subito è diventata famosa per il suo sguardo realistico, rinnovato e continuamente sorprendente sul mondo del crimine organizzato. Un ritratto avvincente di una fetta di Napoli degna di Underworld. Il negativo delle epopee cavalleresche più classiche, il dark-side of the moon dell’italianità stereotipata, della quale il bright side è invece rappresentato da idealizzazioni smielate e americaneggianti come quelle di Woody Allen o Mangia Prega Ama: “for those who romanticize Italy, Gomorrah is a fizzing antidote” (The Telegraph). Una narrazione fuori-genere che non cade semplicemente nel noir ma costruisce un’epica interna al mondo criminale con quel pizzico di realtà che rende tutto più interessante e avvicina la cronaca e la fiction in una sorta di terra di nessuno ancora da esplorare.
TRAILER UK – GOMORRA STAGIONE 1
Insomma, Gomorra si era già pienamente inserita nel panorama delle produzioni di successo nel genere “mafia” e “gangster movie” apportando interessanti cambiamenti, figli dei tempi e dei modi di raccontare storie di una società liquida. Eppure, nonostante sia giunta alla sua quarta stagione (la quinta è già stata confermata), non smette di stupire.
Se ora abbiamo assistito all’ultimo capitolo dell’evoluzione del personaggio – fortissimo e avvincente – di Patrizia (la donna boss di Scampia) e al tentativo di Gennaro Savastano di mantenere un profilo, un’immagine ideale, migliore di quella del padre, il finale di stagione ha ribaltato completamente tutte le carte sul tavolo e pone le fondamenta per un nuovo capitolo davvero difficile da prevedere. Prepara a un capitolo nuovo, dove in Gomorra iniziano a trapelare elementi che fino ad ora erano stati esclusi.
Ma andiamo con ordine.
Mutatis mutandis – punti di contatto
Spesso accade che la finzione cinematografica, teatrale e letteraria, prenda spunto dalla realtà. E non è raro assistere a rappresentazioni che mettono in scena fenomeni sociali (spesso estremizzandoli), dinamiche locali, evoluzioni e strategie politiche, scenari socio-culturali poco noti e di vario tipo (che risultano sempre ipotetici ma anche credibili), in tutta la loro crudezza. Solo all’interno del genere criminalità&corruzione/gangster possiamo pensare facilmente a The Black List, Breaking Bad, The Wire, The Sopranos e chiaramente tante altre, tra cui Gomorra.
Ognuna di queste serie è diversa dall’altra nel suo Dna, ma tutte hanno qualcosa in comune perché tutte mostrano versioni di realtà solitamente nascoste e rispondono alla curiosità dello spettatore che non potrà mai (e perché dovrebbe, poi?) esplorarle realmente. Ognuna prende le mosse da qualcosa di reale per trasformarlo in qualcosa di chiaramente immaginario ma anche sempre ancorato alla realtà.
C’è già stato chi, anni fa, si è sperticato sulle somiglianze e differenze tra Gomorra e Breaking Bad oppure tra The Wire, The Sopranos e Gomorra: tutte serie dove la mafia e la criminalità più o meno organizzata – anche italiane – sono il fuoco della narrazione. Per questo trovo ora più interessante soffermarmi in modo particolare su altri aspetti che portano invece Gomorra (la serie) nelle vicinanze di più elevati generi letterari. Forse il passo è un po’ azzardato, ma non credo di essere la prima ad averci pensato. In ogni caso, statemi a sentire.
La prima pulce nell’orecchio me l’ha messa il tentativo di portare avanti il parallelismo tra serie Tv, uscendo però dai confini delle solite rappresentazioni in “tutti i gusti più uno” della mafia/mafiosità soprattutto all’italiana, e rispondere a questa domanda: cos’hanno in comune serie apparentemente diverse come per esempio House of Cards – una storia che parla di politica e delle dinamiche corrotte che la governano – e Gomorra – una serie che racconta la Camorra come in una bolla, secondo un punto di vista tutto interno e auto-riferito? La risposta è ovvia: Shakespeare!
Non ci avevate pensato, vero? Eppure Adrian Anthony Gill – famoso scrittore e critico britannico – si, o almeno ci aveva pensato per Gomorra, e il suo pensiero ha sicuramente raggiunto molte persone quando una topline tratta dalle sue prime recensioni di questa serie era stata ripresa dai titoli che apparivano nel trailer Uk: “Shakespearean tragedy crossed with The Godfather and the best bits of lock, stock and two smoking barrels” (per chi non lo conoscesse, è un riferimento al film che ha battezzato Guy Ritchie come regista, uscito in Italia con il titolo Lock & Stock. Pazzi scatenati, 1998).
Ma perché Shakespearean tragedy? Beh, non possiamo trascurare la risposta più intuitiva e banale: in primis perché sia nelle tragedie del vate britannico, sia in Gomorra, muoiono quasi sempre tutti quanti. Ma al di là di questo?
Punto primo – L’onore
Partiamo da una parola che è sotto-traccia ma riecheggia, anche attraverso il suo contrario, in tutta la serie Tv: l’onore. Il contrario: essere infame. Tutti i personaggi di Gomorra obbediscono a una morale ferrea. Si, esatto, una morale. Ovviamente negativa, nella quale i valori sono ribaltati rispetto alla normalità, ma permane un’etica – ovvero un criterio di comportamento davanti all’idea di cosa è bene e cosa è male. Questa etica, sotto diversi aspetti sembra, nella struttura e nei suoi “ingranaggi”, vicina a un codice d’onore antico/classico e (sempre!) sovvertito, capovolto, nell’impianto di base: in un certo senso “votato al male”.
Parte importante di questo codice è la regola per cui solo gli uomini “onorevoli” sono degni di far parte del gruppo/gang/cosca ecc.; e secondo cui, per essere “onorevole”, un uomo deve dare prova costante di sé stesso e delle proprie “virtù”, sulle quali si fondano la sua credibilità e l’intero funzionamento della società/gruppo in questione.
Se il valore supremo per i personaggi che si avvicendano nella serie è l’onore (il dimostrarsi degni di fiducia e fedeli a ogni costo al proprio boss), per i boss (purché sottostiano a questa macro-regola di base in cui le virtù sono al centro) tutto (o quasi) è lecito. E dunque, le uniche cose che ancora sembrano avere un valore intrinseco per questi personaggi sono: la prospettiva di detenere il potere ed esercitarlo, la fiducia e lealtà dei propri subordinati (che legittima e dà sostanza concreta al potere del boss), i rapporti sentimentali soprattutto di coppia o interni alla cerchia famigliare più ristretta. Ma spesso anche questi punti cardinali sono rimescolati, messi in discussione, scardinati. Basta guardare il finale dell’ultima stagione!
Ad ogni modo, questa logica – completa di dialoghi pieni di riferimenti archetipici ai rapporti tra padri e figli, alle eredità famigliari, al potere, al territorio e di affermazioni forti e apparentemente eccessive, altisonanti, su sogni, desideri, bene e male, sempre in un dialetto napoletano reso accessibile per la Tv – risulta in qualche modo atavica, antica, appartenente a chi ha vissuto su questa penisola prima di noi, indietro nel tempo fino all’età classica. E qui, si innesta il primo riferimento shakespeariano, almeno parziale e sempre mutatis mutandis, che dal mio punto di vista può essere stimolante: i grandi personaggi classici, il monologo di Marco Antonio in Giulio Cesare.
GIULIO CESARE – VITTORIO GASSMAN
Perché? Ebbene, qui Marco Antonio compie un’operazione retorica interessante di sovversione del senso del messaggio. Shakespeare scrive questa arringa facendo uso soprattutto di quella che sembra una semplice epifora, ovvero la ripetizione (ossessiva) di una o più parole in chiusura di una frase o di un paragrafo allo scopo di rafforzare un significato. Eppure, questa ripetizione, “perché Bruto è un uomo d’onore”, non fa altro che scalfire progressivamente e sempre più a fondo il proprio significato, fino a ribaltarlo. Proprio questo gioco di ripetizioni e messaggi nascosti ma a poco a poco svelati, di minacce e contrapposizioni forti e nascoste, di rovesciamento del significato della parola “onore”, fanno pensare a Gomorra e allo svolgersi di parti del racconto, almeno per quello che pertiene al piano dell’espressione. Dopo tutto, i gangster/mafiosi rappresentati, non fanno altro che riempirsi la bocca di “onore”, gonfiare il petto l’uno contro l’altro, per poi tradirsi reciprocamente e con estrema violenza alla prima occasione in cerca di più potere. L’onore di Gomorra è simile all’onore di Bruto agli occhi di Marco Antonio, pronto a tradire i capi, i padri, gli dei. Volatile, pieno di sé, inaffidabile. Ma è anche simile a quello di Marco Antonio, che è caparbio, contro tutti, pieno di passione e forte di un legame personale di amicizia e fedeltà con Cesare. Un mondo di passioni violente e infuocate.
Punto secondo – La prospettiva
Il secondo punto di contatto con Shakespeare inizia a dipanarsi a partire da una delle grandi innovazioni sul piccolo schermo portate da House of Cards: la messa in scena del rimuginare machiavellico e privato del suo protagonista, Frank Underwood. Proprio lui, guardando dritto in camera, usciva dal piano della finzione – diegetico – per entrare in quello della realtà – quello fuori dall’occhio delle telecamere, extra-diegetico, fuori dal palco, nell’ombra, lontano dalle “luci della ribalta” e di fronte al volto dello spettatore in platea – per raccontarci i suoi pensieri, le sue motivazioni, le valutazioni del tutto private che la sua mente compiva durante il dipanarsi della vicenda. E lo faceva in modo estremamente schietto e diretto. Novità! Sorpresa!
Eppure questo meccanismo di svelamento delle carte a uso e consumo esclusivo del pubblico è antico. Parecchio antico. È l’escamotage che aveva trovato il buon vecchio William Shakespeare per creare uno dei suoi più grandi e complessi personaggi: Riccardo Terzo. Una mente affascinante, un animo malvagio, un piano quasi perfetto e una sequela di frasi epiche scolpite nell’immaginario comune, che vanno da “ora l’inverno del nostro scontento è reso estate gloriosa da questo sole di York”, “anche la bestia più feroce conosce un minimo di pietà. Ma io non ne conosco, perciò non sono una bestia” fino a “il mio regno per un cavallo!”. E cosa ci racconta Riccardo Terzo, tra le altre, se non la brama, la ricerca spasmodica e a qualunque costo del potere? Il tutto come rivalsa personale e inarrestabile contro un destino imposto e avverso, la rivincita del brutto, del deforme e dell’oscuro sul bello e sul presuntamente buono. La volontà ferrea di non subire passivamente il proprio fato ma di forgiarlo senza alcuno scrupolo, traendo il proprio vantaggio da quello che almeno in partenza è un deficit, una fonte di sofferenza e di emarginazione.
E cosa è la criminalità raccontata in Gomorra, che nasce nella periferia di cemento, se non la versione contemporanea di questo stesso punto di vista? Di questa stessa brama, rabbia, sete che si racconta in modi diversi ma sempre schietti, che non risparmiano nulla, che sono difficili da digerire?
Se House of Cards applicava sia il meccanismo enunciativo sia la logica di fondo allo svelamento delle dinamiche sotterranee della politica e alle motivazioni reali, dietro la maschera, di alcuni politici, Gomorra in qualche modo mette in scena apertamente tutta una parte della realtà che è esclusa solo formalmente dai giochi socio-politici del paese. Dal soggettivo (per quanto fortemente rivelatore sul mondo della politica) si sposta sul piano sociale e mette a nudo un sistema, o almeno la parte più oscura del sistema. Una parte che appare indegna, abietta, locale e non rilevante almeno in superficie. Ne svela le carte. Carte complesse, passionali, forti, giocate contro tutti e tutto. Anche Gomorra, come Riccardo Terzo, è piena di frasi che restano in testa. Ha un suo linguaggio fortemente neomelodico che scimmiotta le passioni auliche, la “cultura alta”. Ma le fa davvero torto? Io personalmente credo di no, al massimo concorrenza, con una propria cifra stilistica di tutto rispetto. Prima di tutto perché il dialetto (soprattutto quello napoletano!) porta dentro di sé una verità profonda, concreta, atavica, a cui la lingua italiana può solo ambire senza raggiungerla completamente – e questo ce lo hanno già insegnato in diversi da diverse regioni, partendo da attori comici come Totò, Sordi e Troisi per arrivare ad autori come Camilleri e appunto, sceneggiatori e registi come, rispettivamente, Saviano e Sollima per citare soltanto i due più importanti. In secondo luogo perché, portando “il gioco in casa propria”, dove questa napoletanità in salsa criminale, stereotipata e quasi macchiettistica, si carica di significato, le consente di uscire dalla macchietta, dal melodramma, per entrare in una logica epica. Perversa. Ma pur sempre epica in tutto e per tutto.
Gomorra | Riccardo Terzo |
Je ‘o saccio che state penzanno! Voi dividete il mondo in quelli che non uccidono e in quelli che uccidono, e vi pensate che siccome io sono una femmina appartengo alla prima categoria, e ve sbagliate.
A guerra nun ‘a vince chi è chiù forte, ‘a vince chi è chiù brav’ a aspetta’. E chest’ nisciuno ‘o ssap’ fa meglio di noi femmine! O saje chi song ij? Ij so Scianel.. o saje pecchè m chiamm’n accussì? Pecchè ne capisc assaj’e e prufum: e tu puzz già e muort A pat’m nun l’ha accis Ciro Di Marzio. L’ha accis o’ velen ca tenimm tutt quant n’cuorp. Nuje o sapimme ca ce sta, ma nun o putimme sputà for. Nuje simmo figlie ‘e fantasmi e ‘e fantasmi nun trovano pace. Ce steva n’imperatore, se chiammava Giulio Cesare. O’ ssaje che diceva? Quando c’hai il nemico addosso lo devi anticipare. ‘A democrazia nun funziona, pecché i cani si mangiano tra di loro si nun ce sta ‘o bastone. |
My conscience hath a thousand several tongues, and every tongue brings in a several tale, and every tale condemns me for a villain.
Perjury, perjury, in the highest degree; murder, stern murder in the direst degree, throng to the bar, crying all, guilty!, guilty! Sin, death, and hell have set their marks on him, and all their ministers attend on him Why I, in this weak piping time of piece, have no delight to pass away the time, unless to see my shadow in the sun and descant on my own deformity But then I sigh, with a piece of Scripture tell them that God bids us to do evil for good; and thus I clothe my naked villany with odd old ends stolen out of Holy Writ; and seem a saint, when most I play the devil. Conscience is but a word that cowards use, devised at first to keep the strong in awe: our strong arms be our conscience, swords our law. March on, join bravely, let us to’t pell-mell; If not to heaven, then hand in hand to hell. Bloody thou art, bloody will be thy end; shame serves thy life and doth thy death attend. Despair and die. |
Musica.
Punto terzo – L’amore e la morte
Per arrivare al culmine di questo gioco di riferimenti, nel suo nocciolo, Gomorra mette in scena una storia ambientata in Italia, per le strade di una città dove famiglie avversarie si sfidano continuamente in una lotta di potere e controllo del territorio. Una lotta che non risparmia nessuno, nemmeno tra chi non c’entra niente, nella quale i primi a fare le spese della contesa sono gli innocenti e gli amanti. Rings a bell? Ma certo, è Romeo e Giulietta. L’associazione l’aveva già fatta nel 2000 un film di medio successo e (diciamocelo) scarsa qualità narrativa, che però ha segnato l’ascesa di Jet Li nel panorama cinematografico internazionale: Romeo deve morire. In questo caso la vicenda riguardava due clan malavitosi, afroamericani e asiatici, in lotta per il controllo del porto di Oakland. Proviamo allora a riprendere questa visione, che ci allontana dalla passione amorosa, per concentrarci sulla questione sociale. Mi viene in mente la scena della morte di Mercuzio per mano di Tebaldo, ucciso a causa di Romeo che cercava di mettere pace tra i due e finisce per intralciare il combattimento:
Lascio a voi la vostra guerra! È per voi ma senza me.
Io muoio in pasto ai vermi ma… ma muoio come un Re.
Maledico le famiglie.
Maledico il tuo mondo.
Romeo, Romeo, amico mio… la ragione perderai!
Mercuzio! Mercuzio!
Non lasciarmi ti supplico! Mercuzio fratello mio!
Chi raccoglierà
I sogni che avevi?
Dio la vita qui
Che infero é?
Mercuzio è lucido, nella sua analisi, maledice entrambe le famiglie perché, a un passo dalla morte, gli sembra vano sacrificare la vita per una causa non sua.
In questo dramma, così come in Priamo e Tisbe di Ovidio, emerge una rivalità famigliare il cui effetto nefasto raggiunge il suo picco peggiore nel momento in cui spezza un legame amoroso puro e virtuoso. La morale sempliciona sembra dire “l’amore è sofferenza. È bello finché va bene, ma se poi si mette di mezzo la famiglia, si salvi chi può”. E volendo stare su questa linea di pensiero, gli esempi di amori finiti male in Gomorra sono diversi. Non ultimo (spoiler!) e particolarmente rilevante quello che vede Patrizia come protagonista e che porterà alla sua morte, quella di suo marito e buona parte (quasi tutta) della famiglia Levante, oltre ai poliziotti della scorta della stessa Patrizia. Un momento estremamente grave, in cui emergono anche alcuni temi sollevati, per esempio, nella scena della morte Mercuzio con la frase: “chi raccoglierà i sogni che avevi?”
L’eco sovvertito, crudo, terribilmente consapevole, di questo lamento si sente in chiusura di puntata, pronunciato da Gennaro: “non ci sono sogni per quelli come noi.”
E dunque a uccidere l’amore, più della morte, è la rassegnazione. Gennaro parla a Patrizia come lo scorpione parla alla rana. “E’ nella mia natura”, sembra dire. La lotta interiore è finita, Gennaro ha scelto, Patrizia muore e con lei l’amore, l’amicizia e la fiducia. Restano i patti utili, convenienti, e la latitanza. Di fatto, Gennaro e Patrizia affondano insieme, portandosi dietro i loro sogni.
Eroi e mostri – le ragioni di chi Gomorra la odia
Confesso che in un primo tempo, a me, la serie Gomorra non piaceva. E anche adesso fatico a guardare più di una puntata per volta. Non si può in nessun modo negarle il merito di una qualità artistica altissima e sopra la media italiana in tutto (regia, sceneggiatura, interpreti, musiche ecc.), ma a me guardare Gomorra faceva (e fa) male al cuore.
Eppure è proprio quello che gli autori volevano. Fare male. Come uno schiaffo ben dato, che ferisce più la coscienza che la faccia.
E proprio per questo la serie, fin dalla prima stagione, ha sollevato diverse critiche. Vediamone un paio.
La prima: qualcuno, tra chi vive a Napoli, si sente un po’ oltraggiato. Escludendo le voci insensate che reclamano sempre panorami da sogno e il ritratto di una realtà edulcorata, mi sembra di capire che chi vive a Napoli – a prescindere da tenore di vita e classe sociale – abbia solitamente molto chiaro il quadro della situazione. Non occorre scavare per capire quanto sia più importante e rilevante, per la vita di tutti i giorni, in una realtà che supera la finzione, trovare alternative e concentrarsi su un punto di vista ispirante e propositivo: non c’è bisogno di “ravanare nel torbido”.
La seconda: non ci sono mai personaggi buoni. E come se non bastasse, questo “mito” della mafia può essere deleterio per la crescita di giovani che prendono a modello i personaggi della serie.
A queste critiche non credo si possa davvero rispondere. Sebbene Gomorra abbia notevolmente avvicinato – soprattutto se ne consideriamo la genesi da libro, a film, a serie tv, includendo poi il contorno della storia personale dell’autore – il mondo della cronaca al mondo della finzione, resta una finzione e una finzione ben fatta. Se i Napoletani si sentono offesi per questo motivo forse hanno ragione, ma allora dovrebbe valere per tutti. Cosa dovrebbero dire, per esempio, i newyorkesi, a proposito dei mille modi in cui sono stati ritratti dal cinema e dalla Tv? Allo stesso modo, ha davvero senso prendersela con una serie perché ripropone in modo romanzato modelli iper-negativi? Stiamo demandando l’educazione/ispirazione per il futuro dei ragazzi a un prodotto pensato per l’intrattenimento? Io credo di no. O in ogni caso, credo sia sbagliato porsi il problema in questi termini forse un po’ semplicistici e sicuramente polemici. Lascio comunque che siano le parole dello stesso Roberto Saviano intervistato a questo proposito, a chiudere questo paragrafo:
L’accusa più elementare di solito riguarda l’empatia, l’immedesimazione con personaggi negativi. “I ragazzi – dicono i critici severi – che guarderanno la serie emuleranno le loro gesta”. Ma non è vero: l’immedesimazione non avviene con la realtà, ma con una sua rappresentazione. Non c’è nulla di male. È proprio questo il meccanismo narrativo che faceva scattare la catarsi, la purificazione, nel teatro elisabettiano e prima ancora in quello greco. Comprendere il male per riconoscerlo, per conoscerlo. Quanto di loro c’è in me? Mi comporterei allo stesso modo? Non lo faccio per codardia o per coraggio? Se non conosciamo la storia di chi compie atti atroci, se non conosciamo la storia di chi sceglie il male, come possiamo conoscere il bene? Come possiamo scegliere il bene? Ma – affermano gli sdegnati censori – Napoli è il sole, il mare, la cultura, i frutti di mare e la pizza più buona del mondo, le canzoni, Enrico Caruso e Villa Pignatelli. Caravaggio e San Domenico Maggiore. Parla di questo no? (Roberto Saviano)
Resta per ultimo il punto di vista di quelli che, come me, semplicemente non la sentono nelle loro corde. Quelli che le idee, bene o male, almeno sull’argomento mafia, le hanno chiare e che, come le formiche, nel loro piccolo, si incazzano pure (rubo il titolo “rubato” del simpatico libro di Gino&Michele e Matteo Molinari, appunto, Anche le formiche nel loro piccolo si incazzano, Dalai, 2011). Cosa dire a queste persone? Come rispondere alla domanda: se sono tutti cattivi, se non ti immedesimi in nessuno, se gli italiani ne escono un po’ cornuti e mazziati, se mostra una realtà distopica e realistica allo stesso tempo, se tutti muoiono, se non c’è speranza, bontà o redenzione, allora perché farsi del male e guardare ben quattro stagioni?
Non resta che sforzarsi di non cadere nel giudizio troppo facile e dare a Cesare quel che gli appartiene: è una bella serie, ben fatta e tutto sommato anche interessante. Ha forse la pecca di presumere troppo intelligenti i suoi spettatori, così come aveva fatto Arancia meccanica a suo tempo. Ma si può davvero rimproverare a un autore di voler vedere il meglio nei propri lettori? E poi, magari, si potrebbe cercare un silver lining, un lato positivo, da qualche parte. La serie forse non piacerà, ma non si può dire che non faccia riflettere e che non costringa uno struzzo o due a tirare (almeno per un attimo, almeno un pochino) la testa fuori dalla sabbia.
Eroi e mostri – le ragioni di chi Gomorra la ama
Al di là del grande fascino di questo genere di narrazioni, della curiosità nei confronti delle organizzazioni criminali e della tensione costante esercitata da una trama che è come in continuo scivolamento e riassestamento, cosa fa tenere insieme tutto? Cosa crea il fenomeno che è diventata Gomorra?
La prima cosa che mi viene in mente è che il linguaggio, le musiche, la riproposizione “cool” di ambientazioni nostrane, insieme a un montaggio magistrale sono fondamentali. Ma non basta. In aggiunta a questo indispensabile framework artistico, a fare da vero e proprio collante per i fan, a mio parere, è proprio il meccanismo solo apparentemente secondario di cui parla Saviano: la catarsi. Un meccanismo però che spesso si annida anche nelle viscere dei più reiterati prodotti televisivi per l’intrattenimento, a partire dal livello più popolare: dai reality show come Il Grande Fratello. È un meccanismo semplice, in realtà. È quel qualcosa che infervora gli animi, di cui tutti possono parlare in ogni occasione, perché tutti sono in qualche misura chiamati a rispondere. È quel qualcosa che ci spinge a interrogarci, a dire la nostra, a riconoscerci o discostarci da ciò che vediamo rappresentato. “Rappresenta un bene o sarà un male, questa cosa? E per chi? Come mai?”
La Tv più becera e le serie più sofisticate devono molto spesso trovare, attraverso strategie di messa in scena differenti, in accordo con generi e tipi di prodotti editoriali differenti, il modo di interrogare la coscienza dell’audience, spingere le persone a parlare di quello che vedono, a confrontarsi, a porsi domande e a discutere con altri. Se la catarsi è il meccanismo di immedesimazione profonda e per lo più intesa positivamente, Gomorra la stimola in modo forte, per poi scatenare la reazione di allontanamento dai suoi personaggi perché troppo “neri”, anche se sono profondi, complessi. Ci lascia con un giudizio sospeso, in tensione. E questa tensione affascina, così come affascinava il pubblico delle tragedie antiche che si immedesimava in personaggi mitologici e abietti, come Clitennestra (che uccise per vendetta il marito Agamennone e fu uccisa a sua volta dai figli Oreste ed Elektra), Medea (moglie di Giasone, personaggio che commise crimini efferati tra cui l’assassinio dei propri figli), Edipo (che uccise il padre Laio e finì a sua insaputa per sposare la madre, Giocasta).
Ci sediamo davanti a Gomorra e non riusciamo a scollarci fino alla fine della puntata perché, se prestiamo attenzione, ogni azione, confronto, dialogo, ci pone davanti a interrogativi profondi e piuttosto universali, di tipo etico e morale. Ad essere importante è la capacità della serie di porre la domanda in modo inevitabile, come un pugno allo stomaco, e in questo modo attanagliare lo spettatore nella presa dei tentacoli di questo enorme, oscuro e complesso Kraken che è, tutto sommato, la vita sociale ripensata senza un framework di regole. Senza limiti o confini se non quelli auto-imposti. E poi, come colpo finale, la serie sgancia la risposta. Sempre al di là di qualche limite. Sempre molto forte e molto vicina, come uno sparo a bruciapelo.
A sostegno di questa lettura, in modo particolare, il perfetto match con il dialetto che da sempre rappresenta la pancia di una comunità. Qualcosa di concreto e antico, legato alle radici e alle eredità famigliari, creativo e suggestivo, ricco di immagini inconsuete eppure quotidiane, legato alla vita reale e che in qualche modo sembra escludere la possibilità di una speculazione esclusivamente teorica sul tema bene vs. male: occorre sporcarsi le mani, sembra dire Gomorra in questo modo, abbasso i principi e le belle teorie, se fossi lì avresti fatto la stessa cosa, si o no? Sei meglio, tu? Perché? Domande che valgono ancora di più per un pubblico italiano che sente la doppia spinta, narrativa e realistica, verso questa serie.
La risposta finale del pubblico, in ogni caso, non può essere che “si, sono migliore, ovvio!” Ma allo stesso tempo Gomorra stimola l’immaginazione su un piano abbastanza contiguo con il reale da sentire il bisogno di aggrapparsi con forza all’idea di quel “qualcosa di migliore” che abbiamo dentro. Per non dare spazio ai dubbi. Dopo tutto, come ci ricordano sempre le figure istituzionali e spesso impopolari che sono protagoniste della lotta alla mafia, sotto sotto, il “bene” è empatia ed è una scelta quotidiana che, per banale che possa sembrare, comincia con uno scontrino stampato e non omesso, un parcheggio pagato, una bugia fin troppo facile e comoda non detta, la capacità di non ignorare un problema voltando le spalle.
“Noi non volevamo costruire storie masticate, ma storie difficili da digerire, di quelle che ti tornano in mente il giorno dopo e ancora devi forzarti a scrollartele di dosso.” (Roberto Saviano)
Tornando con i piedi ben piantati nella trama: cosa succederà adesso?
Il filo rosso che davvero ha tenuto insieme la trama fino ad ora è stata, siamo d’accordo, l’evoluzione del personaggio di Gennaro. In ogni stagione abbiamo visto personaggi più importanti e forti cadere, così come personaggi secondari cambiare pelle, evolvere, magari più volte. Ma Gennaro è sempre stato lì, preso nella sua crescita lenta e costante. Ebbene, ora siamo all’apice.
La sua lotta interiore è terminata. Ha deciso chi è, non ha più dubbi. Ha abdicato al bene e si è lasciato avvolgere dalla seduzione del lato oscuro: Anakin-Gennaro è diventato Darth Veder, per metterla su un piano facilone e pop.
Ora non è più soltanto un capo. È un boss a tutti gli effetti, rappresentato nel più terribile ma anche topico dei momenti: l’inizio di una prima latitanza. Perché, lo sappiamo, la cronaca ha sedimentato nella mente delle persone l’idea che il boss davvero boss, quello che fa paura a tutti, nessuno escluso, è quello ricercato dalla polizia. Quello invisibile, che non si sa dove sta, ma potrebbe essere ovunque. Il male nella sua forma più terrificante è sempre quello che non si può vedere.
Per contro, si delinea per la prima volta in modo chiaro e forte, anche se ancora sotto traccia (non ha fatto vere mosse autonome e potrebbe non farle mai, vista l’imprevedibilità della serie), il nemico per antonomasia: lo Stato. Personificato nel magistrato che abbiamo visto mostrare a Patrizia una foto di Gennaro. Cosa avrà risposto lei? Che cosa ha davvero in mano la polizia? Cosa faranno e cosa farà Gennaro? Che ruolo avranno gli altri? Ci saranno ritorsioni da parte dei Levante in Gomorra? E questo O’ Maestrale in Gomorra, chi è? È oscuro e potente come sembra? È un amico o si trasformerà presto in un nemico?
E dunque: si vis pacem, para bellum. Il terreno dello scontro è chiaro, gli avversari sono schierati. Non resta che aspettare l’inizio della battaglia.
Marta Pellegrini vive faticosamente a Milano (ma sotto sotto la ama), è di Torino (la ama spudoratamente), ma ha girato come una trottola per diversi anni. Un pezzo di cuore è rimasto a Berlino. Ha uno spirito ribelle che l’ha portata a lavorare con Onlus come Gruppo Abele e Libera Contro le mafie. È molto curiosa e ama tutto ciò che unisce creatività, letteratura e tecnologia. Nella vita si occupa di ricerche
di mercato con un focus sul settore media, grazie a un bizzarro background in semiotica e design.
Ama il gelato al cioccolato fondente, odia la ‘nduja e se dovesse mai fare bungee jumping avrebbe
decisamente bisogno di qualcuno che le desse una spinta forte.
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