“Lo terrible es, lo descubrí en ese instante, que todo lo increíble es verdadero.”
Elena Garro, La culpa es de los tlaxcaltecas
Siamo a Città del Messico, nel quartiere Juárez, zona residenziale per classi agiate nell’epoca del porfiriato, oggi punto d’incontro per hipster, stranieri benestanti e comunità queer. Il quartiere è particolarmente tranquillo per essere nel centro di una delle città più caotiche al mondo. All’incrocio tra la Calle Gran Prim e la Calle Lisboa, al numero 17, sta un edificio grigio, basso, con impresso a rilievo sull’angolo l’anno di costruzione: 1926. È in questo edificio, nella stanza al secondo piano, che si nascose Elena Garro nell’ottobre del 1968, prima di venir arrestata dalla Dirección Federal de Seguridad. La DFS – l’ente dei servizi segreti messicano – fu creata all’apice della Guerra Fredda per “preservare la stabilità interna del Messico contro tutte le forme di sovversione e minacce terroristiche”, ossia per arginare il presunto pericolo comunista d’oltreconfine, in linea con la dottrina Truman di contenimento dell’espansione sovietica nel mondo.
Di Elena Garro in Messico si ricorda solo la vita, pochi rammentano la sua opera di scrittrice, giornalista e drammaturga. Eppure, c’è chi la considera la seconda grande scrittrice messicana, dopo la suora e poetessa seicentesca Sor Juana Inés de la Cruz. Nel 2016, al centenario dalla nascita di Garro, è iniziato un movimento di recupero e rivalutazione dei suoi scritti, che sono finalmente usciti dalla nicchia accademica entro cui erano relegati per iniziare ad approcciare timidamente un pubblico più vasto. Anche in quest’occasione, però, la casa editrice Drácena decide di pubblicare un suo libro con la fascetta riportante: «Moglie di Octavio Paz, amante di Bioy Casares, ispiratrice di García Márquez e ammirata da Borges», riproducendo il noioso stereotipo per cui l’opera – e la vita – delle donne è interessante solo quando vi sono voci maschili pronte a confermarne il valore.
Elena da giovane vuole fare la ballerina. Mentre studia Lettere alla UNAM, lavora come drammaturga e coreografa per il teatro universitario. Quando si sposa con Octavio Paz però interrompe gli studi per dedicarsi alla vita privata, come richiesto dal consorte. Dopo il matrimonio i due si trasferiscono prima a New York e poi a Parigi, con lunghe soste in Spagna. Impara a scrivere attraverso il giornalismo, professione che inizia a praticare dai venticinque anni: tuttavia la sua carriera giornalistica sarà sempre discontinua, ciò che davvero le interessa sono la letteratura e il teatro. Per anni i suoi scritti letterari rimangono inabissati nei bauli che trascina con sé ad ogni trasloco; vengono letti e apprezzati solo dalla cerchia di intellettuali di cui lei e il marito si circondano in ogni casa, città, Paese. Esordisce una decina di anni dopo, con la pubblicazione di una raccolta di tre opere teatrali (Un hogar sólido) profondamente intrise di surrealismo, movimento artistico con il quale ha vissuto a stretto contatto negli anni parigini. Il definitivo riconoscimento della critica arriva nel 1963 con il conferimento del premio Xavier Villaurrutia per I ricordi dell’avvenire (unico suo testo tradotto in italiano, oltre ad un racconto, La colpa è degli tlascalani, trad. it. Di Giovanna Minardi, inserito nell’antologia: Donne allo specchio. Racconti ispanoamericani tra Otto e Novecento, Le Lettere, Firenze 1997).
Paz sarà decisivo nella pubblicazione del libro, nonostante i due abbiano già divorziato, nel ’59. Molti indicano l’opera quale primo esempio di realismo magico latinoamericano, etichetta in cui la scrittrice non si riconoscerà mai, considerandola un mero espediente commerciale. Il libro è uno spartiacque nella letteratura nazionale, un’opera di critica e riflessione sul passato messicano e sui segni che questo ha lasciato nelle campagne. La scrittura della Garro è leggera, sensoriale, quasi inafferrabile. Protagonisti indiscussi dei suoi testi sono la luce e il tempo. Scrivere per lei è come danzare: la grazia della scrittura, come quella del salto di una ballerina, è incomprensibile, semplicemente accade e nel suo accadere è già qualcosa di magico.
Un testo che in Italia non è mai arrivato, e che meriterebbe invece di venir tradotto e pubblicato anche qui da noi, è la raccolta di racconti, del 1964, Semana de colores. Uno dei racconti della collezione, La colpa è degli tlaxcaltechi, è un gioco letterario che si snoda su due momenti temporali distinti: su un piano avviene la disfatta indigena per mano dei conquistadores spagnoli, mentre sull’altro assistiamo alla contemporaneità di una coppia destabilizzata da un tradimento. Il tutto è contraddistinto dalla scrittura intricata e veloce tipica di Garro, che esige la massima attenzione da parte delle lettrici. La protagonista del racconto, Laura, l’adultera della coppia, incolpa la popolazione indigena degli tlaxcaltechi tanto per il disfacimento interno alla sua famiglia, quanto per quello esterno del Paese. La figura di Laura nel racconto si confonde continuamente con la figura della “Malinche” messicana. La Malinche era la personale interprete, amante e schiava di Hernán Cortés. Il suo ruolo di triplice traduzione – dal maya, al nahuatl, al castigliano – fu di fondamentale importanza nella conquista spagnola della grande Tenochtitlan (l’antica Città del Messico) di Moctezuma II, per questo motivo la Malinche è assurta oggi a simbolo supremo del concetto di “tradimento”. Altra figura fondamentale nella conquista spagnola di Tenochtitlan furono però anche gli tlaxcaltechi: popolazione rivale e sottomessa all’impero azteco che si alleò di buon grado con Cortés, permettendogli la vittoria finale contro il popolo azteco e la conquista definitiva del Messico. Incolpando gli tlaxcaltechi, Laura compie un gesto sovversivo: costringe il lettore a mettere a fuoco il contesto e a rileggere in modo critico la vulgata secondo cui la conquista spagnola si può attribuire al mero lavoro di traduzione di una donna. La scrittrice attua, attraverso la figura di Laura, un gesto di redenzione della figura storica della Malinche, della donna traditrice. È curioso notare che sarà poi lei stessa, Elena Garro, a venir chiamata “la Malinche degli intellettuali messicani”.
Perché una scrittrice dovrebbe venir accusata di essere traditrice dell’intero corpo degli intellettuali del suo Paese? È qui che la vita di Elena Garro inizia a inghiottirne l’opera. Narrare questa storia non è semplice, perché una versione ufficiale non esiste: da un lato vi sono gli intellettuali militanti, amici di Paz, che condannano la condotta di Garro, dall’altro vi sono le femministe che ne difendono il ruolo di vittima del patriarcato. In mezzo ci stanno coloro i quali credono che a un certo punto della sua vita sia semplicemente e banalmente impazzita. A tutto ciò si aggiunga che la biografia della scrittrice si intreccia con la storia messicana del secolo scorso, storia in gran parte ancora irrisolta.
La grande questione aperta della storia messicana del secolo scorso è il 1968, in particolare il 2 di ottobre di quell’anno. Una delle cronache più precise e articolate della giornata ce l’ha lasciata una persona tanto discussa, controversa e complicata quanto la Garro: Oriana Fallaci. Fallaci in quel momento si trovava in Messico in qualità di inviata per le Olimpiadi imminenti, che sarebbero iniziate, simbolicamente, il 12 ottobre, anniversario della “scoperta” dell’America. Oriana è all’apice della sua carriera giornalistica: è tornata da poco dal Vietnam, dove ha lavorato nel 1967 come corrispondente di guerra. Arriva in Messico già a fine settembre e partecipa subito ad una manifestazione studentesca, dove conosce i capi del Movimento.
Il ’68 è un anno caldo per gli studenti in Messico. Quello messicano è un movimento studentesco non dissimile dagli altri che sorgono e marciano nel resto del mondo in quel periodo di proteste. Verso fine luglio però il carattere allegro delle manifestazioni viene incrinato da un crescendo di violenza e repressione. Una delle immagini di questi giorni che resta più impressa nella memoria storica messicana è quella del colpo di bazooka dell’esercito che distrugge il portone del diciottesimo secolo di un liceo dentro cui si sono nascosti alcuni studenti per rifugiarsi dagli scontri. Quel gesto viene vissuto come una violazione: il giorno dopo il rettore universitario issa la bandiera messicana a mezz’asta nella UNAM. La stessa UNAM viene occupata dai militari la mattina del 18 settembre, fatto allora e tuttora inconcepibile: nei territori autonomi della città universitaria non è consentito l’ingresso delle forze dell’ordine. Bolaño racconterà anni dopo, nei suoi Detective Selvaggi, della poetessa uruguayana Alcira Soust Scaffo, che rimase chiusa nei bagni dell’Università occupata per giorni. Il Movimento Studentesco però non retrocede e, a ogni intervento delle forze dell’ordine, aumentano gli arresti. L’opinione pubblica inizia a dividersi, c’è chi crede che gli studenti siano un gruppo di facinorosi che provocano gratuitamente le violenze della polizia. Per dimostrare il contrario, il Consejo Nacional de Huelga (CNH) convoca una manifestazione silenziosa, la Marcha del Silencio, per il 13 settembre. Mezzo milione di persone cammina in religioso silenzio per le strade della città, si sente solo il frusciare dei piedi, un cartello legge: “Il silenzio non è cedimento. Qui nessuno si arrende”.
È il CNH a organizzare il raduno del 2 ottobre, e i capi dell’organizzazione sono gli stessi che ha conosciuto Oriana Fallaci e che la invitano a partecipare, insieme ad altri giornalisti. Il ritrovo è a Piazza Delle Tre culture, nel distretto di Tlatelolco, la stessa piazza dove Cortés perse per l’ultima volta contro agli aztechi. La piazza si chiama così per via dei resti del tempio azteco da un lato, la chiesa coloniale di Santiago di fronte e l’edificio Chihuahua – rappresentante della modernità meticcia messicana – dall’altro: è sul terrazzo al terzo piano di questo edificio che stanno i capi studenteschi e i giornalisti. Il ritrovo è convocato per le 17, la giornalista arriva con un quarto d’ora d’anticipo e trova la piazza già praticamente piena. Quando l’incontro inizia, ci sono diecimila persone: soprattutto studenti, ma anche bambini, anziani seduti per terra, venditori ambulanti, governanti coi bambini in braccio, abitanti del circondario, gente che passa di lì per curiosare. Tra la folla si distinguono anche alcuni individui con un guanto bianco alla mano destra. I capi degli studenti arringano la folla, uno studente della UNAM dice che “il Movimento continuerà, nonostante tutto”. Richiedono il rilascio dei prigionieri politici, lo smantellamento delle occupazioni delle forze dell’ordine dalle università, lo scioglimento del corpo dei granaderos. Ad un certo punto, ricorda la Fallaci, giunge sulla terrazza un attivista parecchio turbato, dicendo che è arrivato tardi perché i militari hanno circondato l’intera zona e non lasciano passare nessuno. I leader del CNH si consultano tra loro e decidono di disdire il corteo programmato al Politecnico Nazionale, ancora occupato dalle forze dell’ordine. Annunciano quindi alla piazza che dal lunedì seguente verrà indetto uno sciopero della fame, approfittando della piattaforma delle Olimpiadi imminenti per comunicare la lotta studentesca al resto del mondo.
Quando lo studente finisce di parlare, si avvicina un elicottero. Sorvola lentamente la piazza, girando in cerchio, poi sgancia due bengala verdi. La Fallaci, forte dell’esperienza acquisita in Vietnam, capisce subito. Cerca di avvisare gli studenti, ma loro non la prendono sul serio, quasi la deridono. Non succede niente, signora, non vede che siamo tranquilli? Nel frattempo gli autoblindo e i carri armati dell’esercito avanzano da tutte le parti, fino a circondare la piazza. Il silenzio è teso. Si sente uno sparo, poi un altro, in pochi secondi esplode una pioggia di proiettili. Tra la folla si diffonde il panico, mentre Sócrates, uno dei leader del CNH che sta sulla terrazza con gli altri, grida ai compagni di stare calmi, che è solo una provocazione. Ma una provocazione non lo è proprio per niente, e i militari che avanzano compatti verso la folla non sparano in aria, ma ad altezza uomo. La gente fugge, si cade addosso, precipita nella conca vuota dei resti archeologici. È una somma di grida, spari, raffiche di mitragliatrice. Nessuno capisce dove andare, cosa fare, da che parte fuggire; i proiettili arrivano da ogni direzione. Sulla terrazza dell’edificio Chihuahua salgono di corsa degli agenti in civile, tutti con un guanto bianco alla mano destra. Mettono studenti e giornalisti contro al muro e puntano loro i mitra addosso. Intorno è l’inferno, l’esercito ha preso a sparare anche dalle mitragliatrici montate sui carri armati e dall’elicottero che si avvicina sempre più alla piazza. Oriana sente come dei chiodi entrarle nella schiena, nel ginocchio sinistro e nella coscia. Sono schegge dei proiettili. Poi sviene. Viene raccolta insieme alle altre vittime e portata in obitorio. Sarà un prete ad accorgersi che lei, in obitorio, apre gli occhi. Quando si rimetterà, la Fallaci farà una delle più preziose testimonianze di quella mattanza senza senso, registrandola direttamente dal letto d’ospedale.
Cosa sia successo di preciso quel 2 di ottobre in Piazza del Tre Culture ancora non si sa. Chi sia stato di preciso a dare l’ordine di attaccare ancora non si sa. Quante persone di preciso siano morte ancora non si sa. Trecento minimo, ma i governi messicani successivi non hanno mai confermato il numero. E l’esercito impedì ai giornalisti di recarsi nella piazza la sera della mattanza per fotografare i cadaveri. I corpi vennero portati via sui camion dell’immondizia. Per quanto riguarda i mandanti, ci sono pochi dubbi sul fatto che sia stato un ordine del governo dell’allora presidente in carica, Díaz Ordaz. Gli unici dati su cui abbiamo certezza sono che l’esercito dispiegò 5000 uomini, che il fuoco intenso durò 29 minuti e che, oltre ai più di 300 morti, 2000 studenti vennero arrestati. Il Movimento Studentesco messicano fu sconfitto: tra carcere e morte, non lasciarono nessuno che potesse continuare la lotta, o che volesse anche solo provare a ricominciare.
Ogni 2 ottobre a Città del Messico si tiene un corteo di commemorazione del massacro, ed è lì che nel 2014 si stavano recando i 43 ragazzi della Scuola Normale di Ayotzinapa quando i loro autobus vennero sequestrati e i loro corpi fatti sparire, aggiungendosi alla già esorbitante cifra dei desaparecidos di un Paese disegnato da fosse comuni nascoste, carbonizzate, cancellate.
Il massacro del 1968 aprì una voragine nella vita del Paese, e Elena Garro ci rimase invischiata. Il 2 di ottobre segna infatti una cesura netta tra ciò che era la sua vita prima e ciò che sarà invece dopo. La posizione politica della Garro è sempre stata difficile da inserire in una casella dai confini chiari. Per la militanza a favore dei campesinos e delle popolazioni indigene viene associata al mondo progressista, ma le dichiarazioni spietate nei confronti degli intellettuali di sinistra confondono le carte in tavola. Da febbraio a maggio del 1968 Elena – ormai figura pubblica del Paese grazie ai suoi successi letterari, ma anche a causa del brutto divorzio con Paz, che non smette di essere sulle bocche di tutti – scrive articoli di opinione per la rivista Por Qué, articoli che spesso esprimono giudizi forti nei confronti del governo, da un lato, e del Movimento Studentesco, dall’altro. La pubblicazione di alcuni di questi articoli le costa diverse telefonate anonime, in cui alcuni arrivano anche a minacciarla di morte. I contrasti politici crescenti in Messico garantivano un acuirsi della follia generalizzata, mentre il clima di Guerra Fredda nel mondo tracciava ovunque confini netti. In ogni situazione era necessario scegliere con chi stare. Criticare tutti significava non stare con nessuno. Non stare con nessuno significava avere nemici ovunque.
Una sera di settembre del 1968 Elena e la figlia Helena tornano a casa e la trovano ribaltata: qualcuno è entrato in loro assenza a perquisirla. Madre e figlia, terrorizzate, escono nella notte e arrivano a piedi nella casa di María Collado, una vecchia tata della madre che affitta alloggi a poveri immigrati spagnoli nell’edificio Prim, nella colonia Juárez. Fuori sta albeggiando quando María le sistema controvoglia nella stanza al secondo piano: madre e figlia sono due bombe a orologeria, e la vecchia tata non ha voglia di farsi coinvolgere nei loro problemi.
María ci ha visto lungo e infatti, dopo una settimana di relativa tranquillità, irrompe nella loro stanza e lancia furiosa un fascio di giornali sulla branda dove dormono. Excélsior, El Universal, El Heraldo de México. È domenica 6 ottobre e i titoli di testa accusano la Garro, insieme all’amico politico Madrazo e ad altri, di essere istigatrice del Movimento Studentesco e di fare parte di un complotto comunista volto a rovesciare il governo. Ad accusarli è stato Sócrates, durante una conferenza stampa dalla prigione del Campo Militare Numero Uno, lo stesso leader del CNH che aveva urlato alla folla di Tlatelolco di stare calma mentre l’esercito iniziava a sparare. Sócrates, tra i militanti più radicali ed estremisti del Movimento, venne a sua volta accusato di essere un infiltrato della DFS mandato nel Movimento con lo scopo di distruggerlo dall’interno.
Fuori dall’edificio Prim nel frattempo c’è un movimento inusuale. Un gruppo di auto della polizia sta circondando l’edificio. Madre e figlia si sentono in trappola e qualcuno consiglia loro di fuggire, ma Elena non acconsente: fuggire sarebbe come ammettere una colpevolezza che non ha. Tuttavia hanno paura, talmente tanta paura da cambiare piano un secondo dopo: va bene, fuggiremo, ma in incognito. Le due – alte, magre e bionde – decidono di tingersi i capelli di nero e vestirsi come indigene (gonne larghe, scialli a coprire le teste) e scappare dalla porta sul retro. María nel frattempo riceve una chiamata di minacce al telefono: “Lei tiene in casa quelle due coglione. Le faremo saltare in aria”. La paura è tanta ed Elena cambia di nuovo idea: iniziano a contattare le redazioni di tutti i giornali. Entro sera la stanza al secondo piano dell’edificio Prim si trasforma nell’improvvisata sede di una conferenza stampa.
Le fotografie che abbiamo di quella sera ritraggono una Garro stanca, magra, pallida sotto quella tinta nera che non le dona per niente. Lei sta seduta in un angolo della misera cucina, fuma una sigaretta dietro l’altra, i giornalisti la circondano e bombardano di domande. Vogliono i nomi degli studenti che conosce, come se le dichiarazioni di Sócrates fossero vere e lei stesse davvero alle spalle di una congiura comunista. Lei nega tutto, ma i giornalisti insistono. Allora dice tutto quello che sa, tutto quello che pensa, tutto ciò che peraltro aveva già detto e scritto più volte in passato: “gli intellettuali sono i colpevoli. Io incolpo gli intellettuali di essere i veri responsabili di ciò che è accaduto. Questi intellettuali di estrema sinistra che hanno lanciato gli studenti in un’avventura pazza, che è costata vite e ha provocato dolore in diverse case messicane. Adesso come codardi, perché sì, sono dei codardi, si nascondono…”
Poco dopo i giornalisti corrono nelle loro redazioni per sistemare le note. Le dichiarazioni della Garro sono sensazionali: da accusata è divenuta accusatrice. La mattina del giorno dopo madre e figlia controllano i giornali: Elena è di nuovo sulle testate di quasi tutti. Sulla prima pagina de El Universal si legge il titolo “Elena Garro incolpa 500 intellettuali”. L’articolo riporta una lista di nomi di intellettuali e artisti, come se Elena li avesse nominati esplicitamente: ci sono Luis Villoro, Rosario Castellanos, Carlos Monsiváis e Leonora Carrington, tra i molti altri. Quella sera due agenti della DFS, la polizia segreta, entrano nell’edificio Prim per arrestare la scrittrice. Lo facciamo per la sua incolumità, spiegano alla figlia incredula, i comunisti la vogliono ammazzare. Non avete letto i giornali? Le due vengono quindi scortate all’Hotel Casablanca, dove pernotteranno fino a che non si calmeranno le acque.
Elena ribadì sempre di non aver fatto nomi, che quei nomi erano già noti a tutti dai manifesti di solidarietà al Movimento che gli intellettuali avevano firmato in passato e che i giornalisti avevano deliberatamente manipolato le sue parole, ma ciò non cambiò l’opinione pubblica, che da quel 7 ottobre considera la Garro alternativamente una sporca comunista o un’infame traditrice. Chi ne ha pietà invece la ignora, con la paternalistica comprensione che si riserva ad una povera pazza, scacciando via il suo nome dalle conversazioni con una manata distratta, come farebbero con una mosca troppo rumorosa.
Gli anni che seguono a quel turbolento 1968 sono orribili per la Garro. La crociata sociale nei suoi confronti è impietosa: riceve con regolarità minacce, telefonate intimidatorie e lettere di insulti. La sua accusa agli intellettuali di sinistra e i sospetti mai archiviati sul suo ruolo di cospiratrice l’hanno resa una sorta di paria: nessuno vuole affittarle una casa, darle un lavoro, invitarla alle cene. L’esclusione e la mancanza di sicurezza l’affossano in una cupezza rancorosa, è psicologicamente instabile e fisicamente fragile. La Garro diviene lo zimbello di cui si ride alle cene tra scrittori, la piaga di Paz, la donna meschina, lasciva e seduttrice che merita la sua situazione. Il suo prezioso apporto al mondo della drammaturgia e della narrativa viene dimenticato. Nel 1972 decide infine che la vita in Messico le è insostenibile e lascia il Paese: resterà in esilio per 22 anni tra gli Stati Uniti, la Francia e la Spagna. Gli anni all’estero sono oscuri. La sua scrittura si fa più confusa, perde la leggiadria di ballerina che ne aveva caratterizzato il luminoso esordio.
Garro torna in Messico solo nel 1992, ma non a Città del Messico, dove i ricordi dell’ostilità ancora le impediscono di respirare. Va a Cuernavaca e nel 1998 si spegne, nell’indifferenza generale, in seguito ad un tumore ai polmoni. La sua vita ha opacato la sua opera per decenni: romanzi, racconti e opere teatrali dove la luce e il tempo – che in fondo sono la stessa cosa – sono i personaggi principali. Adesso è arrivato il momento di dissipare il baccano che ha prevalso su di lei – la visione misogina e pettegola, di vittima e carnefice – per rivelare un’opera monumentale.
La foto di copertina è ©Editorial Debate
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin