Friedrich Trump, il nonno di Donald, nacque a Kallstadt, in Germania, ed emigrò in America a fine Ottocento, dove nacque Fred, il padre di Donald, l’uomo che costruì la fortuna di cui si bea oggi il tycoon-Presidente. Donald Trump, per intenderci, è nipote di un immigrato tedesco, nato in quello che, allora, era ancora il Regno di Baviera. Non solo, in quanto tizio molto ricco grazie al padre, Trump rientra anche nell’intramontabile categoria che domina l’Olimpo dei poteri forti: quella dei figli di papà.
Il giorno della storica vittoria di Trump alle presidenziali, l’8 novembre 2016, tra gli stati esteri più sconvolti non c’è stato solo il Messico, ma almeno altri due paesi.
Il primo è l’Arabia Saudita, che ha improvvisamente capito di aver inutilmente inondato Hillary Clinton di soldi per continuare a comprarsi l’impunità e prendere per il sedere l’Occidente.
Il secondo paese è certamente la Germania, che da decenni basa l’ideologia portante della propria democrazia sul rifiuto dell’intolleranza neo-trumpiana, avendo strutturato lo stesso potere statale su principi profondamente liberal-democratici, fino a farne il cemento narrativo dei propri equilibri istituzionali.
Proprio dopo l’esito delle elezioni USA, un altro figlio di papà, il Principe saudita Alwaleed, che pochi mesi prima aveva insultato Trump su Twitter, gli ha invece mandato un messaggio di congratulazioni, scegliendo un atteggiamento ultra-diplomatico.
Quello che è riuscito ai sauditi, però, non è riuscito a Frank-Walter Steinmeier, Ministro degli Esteri tedesco e futuro Presidente della Repubblica della Germania. Steinmeier aveva iniziato a parlare male di Trump già nel luglio 2016, mentre il 9 novembre non ha fatto alcun complimento diplomatico al neo-eletto, aggiungendo che “Il risultato delle elezioni americane non è quello che molti in Germania si aspettavano” e che “le relazioni transatlantiche non diventeranno più facili, molte cose saranno più difficili”.
Non solo: sempre in occasione dei risultati delle elezioni americane, la stessa Angela Merkel, una che, per intenderci, riesce ad andare d’accordo pure con Erdogan, ha invece deciso di parlare chiaramente al prossimo Presidente, con un discorso di rara fermezza per la realpolitik merkeliana del ‘non ti muovere per non sbagliare’. La Cancelliera ha dichiarato di essere pronta a collaborare con Trump, a patto che questo avvenga sulla base dei valori di “democrazia, libertà, rispetto della legge e dignità umana […] senza distinzioni di origini, colore della pelle, religione, genere, orientamento sessuale o opinione politica”.
C’è un motivo per cui Trump, di fatto, rappresenta l’incubo peggiore del Governo e dei maggiori partiti politici tedeschi. La ragione è abbastanza semplice, e non risiede solo nei devastanti squilibri geopolitici che si vedono all’orizzonte del futuro prossimo.
Il fatto è che Trump ha tutti i difetti che possa avere un tedesco tendenzialmente nazistoide.
Donald, che è al 100% americano ma è pur sempre nipote di suo nonno Friedrich, è la cattiva coscienza della Germania. Non è cosa da poco: la Germania democratica si è sviluppata sul rifiuto sistematico e sistemico delle proprie tendenze razziste, mentre tutta la sua storia post-nazista è stata portata avanti proprio sotto l’ala protettiva dei difensori della libertà americani.
Americani che ora, invece, saranno guidati da uno che gioca a golf con i suprematisti bianchi e non odia particolarmente i nazisti dell’Illinois.
Qualche mese fa, durante la campagna elettorale americana, non sono mancati i giornalisti che sono andati a cercare le tracce degli avi tedeschi di Donald. Pare che a Kallstadt, ridente cittadina di 1200 abitanti a sud di Francoforte, abbiano subito risposto di non voler avere niente a che fare con Trump. Spesso i kallstadtesi (magari si chiamano così) hanno invitato i cronisti a scoprire piuttosto le origini locali di un altro famoso tedesco-americano, Henry John Heinz, l’inventore dell’Heinz ketchup.
La determinazione degli abitanti del paesino del nonno di Trump nel negare legami con il nipote è frutto della derisione scientifica e del disprezzo militante che, nell’ultimo anno, la stampa e la politica tedesche hanno riservato al magnate newyorkese.
“Rappresenta tutto ciò che è male”, ha detto una delle abitanti ad alcuni cronisti. La frase è emblematica nella sua semplicità: il manicheismo della signora di Kallstadt non deriva dal cristianesimo, la sua è la religione civile dello Stato democratico tedesco. Religione di Stato che si basa su un principio fondamentale: non parlare come un nazista, perché è parlando come un nazista che finisci per comportarti come un nazista.
Per alcuni, un certo nuovo spirito dell’America di Trump sembra una rappresentazione di come potrebbe essere la Germania se non avesse imparato dai propri orripilanti errori.
Trump non avrà ancora fatto niente di male, ma, per come la vedono in Germania, ha già parlato abbastanza. Donald ha messo in scena tutto ciò che tanti tedeschi non vogliono essere o sanno di non voler diventare: irrispettosi, razzisti, sessisti, vendicativi, iracondi. Il fatto che Trump lo abbia fatto come un businessman che usa le opinioni come prodotti, importa poco.
Per alcuni, un certo nuovo spirito dell’America di Trump sembra una rappresentazione di come potrebbe essere la Germania se non avesse imparato dai propri orripilanti errori.
Del resto, ci sono elementi del suprematismo bianco che sono tanto anglosassoni quanto germanici, ad esempio nel solco delle teorie della ‘razza nordica’, e il neonazismo tedesco è oggi tra quelli che più si collegano alle suggestioni del White Power americano. Non solo: la Germania è tra i paesi dove esiste uno dei più noti gruppi Ku Klux Klan al di fuori degli Stati Uniti e, tanto per intenderci, nel 2012 è scoppiato uno scandalo perché emerse che due poliziotti tedeschi erano membri attivi del Klan.
Insomma, ci sono affinità elettive transatlantiche poco note, ma che esistono, da anni, andando a creare relazioni pericolose.
Certo, Donald Trump non è un nazista. Ma può essere visto come un tedesco che, appunto, non ha vissuto il Novecento in Germania, uno che si è perso quegli anni che hanno ferocemente insegnato a un intero popolo perché la strada dell’odio sia sempre una via verso la distruzione.
Un tedesco liberato dalla colpa del Novecento che, non a caso, piacerebbe tanto alla nuova destra populista in Germania, il cui sogno non è sventolare la svastica, ma, prima di tutto, dimenticarla, liberarsi del suo stigma, per sempre.
Esiste un nuovo populismo politico tedesco che condivide con Trump quel marketing del risentimento liberatorio, capace di conquistare tanto la frustrazione sociale quanto quella psicologica, offrendo narrazioni che impattano il reale senza il peso di quella colpa che impone una prudenza totale sui temi della tolleranza etnica e religiosa.
Negli Stati Uniti, Trump ha potuto scardinare il vecchio ordine della tolleranza liberal, sfruttando quelli che sono stati gli evidenti eccessi narrativi e linguistici del cosiddetto politicamente corretto. In un’America in cui le narrazioni (spesso solo quelle) sono sempre più stimolate dalle rivendicazioni identitarie delle varie minoranze, d’un tratto, anche i maschi bianchi hanno voluto appropriarsi di una narrazione identitaria. Poco importa se nel mondo reale essere un maschio bianco è ancora un privilegio oggettivamente gerarchico e materiale: viviamo in una società dello spettacolo radicale, in cui non è l’individuazione, ma la narrazione di sé, a essere divenuta un bene quasi primario.
è la struttura stessa della piattaforma Facebook, basata su psicotici e massificati atti di personal tracking e personal branding, ad averci portato nel nostro presente post-politico.
La rivendicazione sociale di quello che si crede essere il proprio sé è oggi considerata un diritto fondamentale: tanti elettori di Trump vogliono dire di essere “proudly white”, così come i neri dicono di essere “proudly black”.
Si dice che la vittoria di Trump sia nata anche sui social network e si è finiti a parlare come dei paranoici di fake news, senza renderci conto che è la struttura stessa della piattaforma Facebook, basata su psicotici e massificati atti di personal tracking e personal branding, ad averci portato nel nostro presente post-politico.
Che Mark Zuckerberg lo sappia o meno, è il “Descrivi chi sei” che troviamo sotto la nostra foto del profilo una delle fonti cruciali da cui stanno sgorgando delle nuove e inedite forme di tribalismo. Alla base della nuova ondata identitaria non ci sono solo la paura della crisi e la globalizzazione, ma anche un nuovo modello integrato di comunicazione e consumo, in cui il comunicatore-consumatore agisce comunicando se stesso e, contemporaneamente, consuma la comunicazione di se stesso. Che in questo cortocircuito si inseriscano isteriche semplificazioni di appartenenza e inimicizia tribali, che agevolano i processi di auto-valorizzazione di individui in cerca di un valore sociale, è il minimo che potesse accadere.
In Germania non esiste una frammentazione etnica e potenzialmente balcanizzata simile a quella Stati Uniti, ma sono venuti a crearsi meccanismi non dissimili di fronte agli evidenti eccessi di cautela narrativa durante la cosiddetta crisi dei migranti. Si è trattato di uno shock, anche qui, comunicativo, ancora prima che materiale, che ha esacerbato uno strisciante conflitto culturale tra il sostanziale laicismo tedesco e alcuni tratti delle culture islamiche. (Possiamo anche saltare tutte le tiritere per cui dovremmo spiegare perché parlare di immigrazione significhi parlare di culture islamiche. Quello delle culture islamiche è l’elefante nella stanza di qualsiasi dibattito sull’immigrazione, ed è proprio averlo negato per anni in Europa ad aver portato, oggi, Marine Le Pen a qualche metro dalla Presidenza della Repubblica in Francia. Non a caso AfD, la destra populista tedesca, si è presentata con un manifesto che contiene un intero, fondamentale, capitolo, che recita testualmente che “L’Islam non appartiene alla Germania”, permettendosi anche una generalizzazione semplicistica senza precedenti di una delle maggiori religioni del mondo).
In una Germania in cui la tolleranza è stata, per decenni, vissuta come direttamente proporzionale al rifiuto di una forte rivendicazione identitaria, c’è oggi chi si oppone a una tolleranza che accetta acriticamente l’intolleranza culturale di specifiche forme di Islam, e che lo fa in nome del senso di colpa per il peccato originale del proprio passato.
se è la democrazia a permettere a un salafita di predicare la jihad in Germania o giustificare lo stupro di una donna non velata, sarà sempre più complesso spiegare ai tedeschi che sia la stessa democrazia a pretendere che le loro tendenze identitarie appartengano, invece, al tabù nazionalsocialista.
Non stupisce che in questo scenario si presentino forze populiste che promettono di liberare i tedeschi dalle loro contraddittorie cautele. Del resto, i tedeschi hanno ogni giorno sotto agli occhi una comunità spesso nazionalista, quella dei turchi di Germania (circa due milioni, se si escludono i curdi), che dimostra quotidianamente come si faccia a scrollarsi di dosso la responsabilità storica di un genocidio: dicendo, ad esempio, che 1,5 milioni di armeni siano morti un po’ per caso.
Tornando al meccanismo del nuovo tribalismo identitario e della sua dimensione prettamente spettacolare, se è la democrazia a permettere a un salafita di predicare la jihad in Germania o giustificare lo stupro di una donna non velata, sarà sempre più complesso spiegare ai tedeschi che sia la stessa democrazia a pretendere che le loro tendenze identitarie appartengano, invece, al tabù nazionalsocialista.
Il fatto che, davvero, di questo perverso meccanismo stiano approfittando proprio discorsi politici imparentati con quella cloaca del pensiero che è il post-nazismo, beh, questo è l’enorme problema che siamo destinati ad attraversare.
Siamo dentro a stravolgimenti epocali, di cui nessuno può pretendere di avere una visione davvero complessiva. Non ci sono, oggi, facili interpretazioni, e bisognerà ragionare a lungo su quali siano le vie aperte per la libertà concreta, senza la pretesa di trovare porti sicuri.
Quello che sappiamo è che lo scenario contemporaneo è stato perfetto per l’affermazione del trumpismo in America.
Ecco perché, ora, le istituzioni liberali tedesche vogliono fare in modo che lo scenario in patria non diventi altrettanto perfetto per l’emergere e l’affermarsi di un Donald Trump made in Germany. Vista la banalità ontologica del discorso post-politico, si tratterebbe di un tizio che potrebbe spuntare da ovunque. Magari nelle vesti di un altro nipote di nonno Friedrich Trump.
Un nipote tedesco che, fino a oggi, è rimasto nascosto.
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