Nelle pagine web dei siti delle più importanti agenzie turistiche di Seoul, la capitale della Corea del Sud, era scritto chiaramente: “a causa delle recenti tensioni politiche, i tour nella JSA possono essere soggetti ad annullamento”.
La JSA, Joint Security Area (Area di Sicurezza Congiunta) è un insediamento di servizio militare in Corea del Sud situato a circa sessanta chilometri a nord di Seoul, in cui dal 10 luglio 1951 al 27 luglio 1953 le delegazioni di Cina, Corea del Nord e Nazioni Unite (quest’ultima capeggiata dagli Stati Uniti) si incontrarono in ben 765 conferenze, per cercare di porre fine alla Guerra di Corea, scoppiata il 25 giugno 1950 con l’improvviso e arbitrario attacco alla Corea del Sud da parte della Repubblica Popolare Democratica di Corea (Corea del Nord) del leader supremo Kim Il-sung, nonno dell’attuale dittatore nordcoreano Kim Jong-un.
Sui media internazionali e negli ambienti militari la JSA è conosciuta anche con il nome di Panmunjom, dal toponimo di un villaggio circostante, inglobato adesso nella provincia nordcoreana dello Hwanghae settentrionale, la cui fama è dovuta al fatto che in un’area del villaggio abbandonato e distrutto dai bombardamenti, in un padiglione tirato su in fretta e furia, la mattina del 27 luglio 1953 il generale nordcoreano Nam Il e il generale William Harrison Jr. del Comando delle Nazioni Unite (la struttura di comando unificata della forza militare multinazionale creata nel 1950 per supportare la Corea del Sud durante e dopo la guerra di Corea) firmarono l’armistizio che poneva fine alla guerra, il “cessate il fuoco” più lungo della storia, una tregua che attende ancora oggi di essere trasformata in un vero e proprio trattato di pace.
Le tensioni politiche cui alludeva la guida erano invece quelle relative ai recenti test missilistici, svolti il 4 e il 9 maggio scorsi dalla Corea del Nord di Kim Jong-un. Si tratta di diversi “proiettili” – termine che può includere sia missili balistici sia razzi di minore potenza – che sono finiti nel Mar del Giappone, molto lontano dalle coste giapponesi, ma con i quali Pyeongyang, secondo gli analisti, avrebbe fatto capire a Trump la propria irritazione per l’atteggiamento duro e inflessibile che gli USA stanno tenendo sui temi della denuclearizzazione e delle sanzioni economiche, le questioni centrali nei colloqui di pace che in maniera sorprendente il presidente americano Donald Trump e il dittatore nordcoreano Kim Jong-un stanno portando avanti.
Gli incontri fra Corea del Nord e USA
Nel primo incontro della storia fra un leader della Corea del Nord e un presidente degli Stati Uniti, avvenuto a Singapore circa un anno fa, il 12 giugno 2018, Kim Jong-un e Donald Trump si sono trovati d’accordo sulla necessità di avviare nuove relazioni diplomatiche fra i due Stati e hanno espresso la volontà di aprire un tavolo di discussione su un definitivo percorso di pace che includa la completa denuclearizzazione della penisola coreana e la graduale cancellazione dell’embargo a Pyeongyang, che sta mettendo a dura prova la popolazione nordcoreana.
Il secondo incontro fra i due capi di Stato si è svolto ad Hanoi il 27 e 28 febbraio scorsi e si è concluso con una brusca interruzione dei colloqui. Le divergenze principali riguardano le modalità del disarmo nucleare della Corea del Nord, che per gli Stati Uniti e le Nazioni Unite deve essere “completo, verificabile e irreversibile”, mentre Kim Jong-un non è disposto, per mantenere il suo potere, a rinunciare a tutti i suoi missili e intende la denuclearizzazione possibile solo se estesa a tutta la penisola coreana, incluse dunque le armi nucleari americane in Corea del Sud Sud.
Allo stesso tempo, Kim vuole allentare la morsa dell’embargo che sta affliggendo il suo popolo e all’amministrazione americana ad Hanoi ha offerto, in cambio di un alleggerimento delle sanzioni economiche, lo smantellamento del reattore di Yongbyon, il principale sito nucleare del regime. Per gli Stati Uniti l’offerta nordcoreana non è sufficiente, ma Trump ha detto di fidarsi delle promesse che gli ha fatto Kim sulla denuclearizzazione, facendo leva sul rapporto personale e sulle prospettive di sviluppo economico della Corea del Nord. Tuttavia, tornare a casa senza aver raggiunto alcun risultato è stato per Kim Jong-un una vera umiliazione, che lo ha costretto, notizia pubblicata dal giornale sudcoreano Chosun Ilbo e ripresa il 31 maggio da tutti i media internazionali, a prendere provvedimenti radicali: a marzo, dopo il fallimento del summit di Hanoi, cinque alti funzionari del Ministero degli esteri sarebbero stati sommariamente processati e giustiziati. Kim Yong-chol, braccio destro di Kim e omologo nordcoreano del Segretario di Stato americano Mike Pompeo, sarebbe stato spedito in un campo di “rieducazione ideologica” al confine cinese e perfino Kim Yo-jong, la sorella del dittatore, è stata ridimensionata. Il condizionale è d’obbligo visto che il giornale sudcoreano Chosun Ilbo riferisce di avere avuto la notizia da un’unica e anonima fonte nordcoreana.
Altrettanto recente, e in questo caso però sicura, è la notizia, riportata il 24 maggio scorso dal settimanale americano Newsweek, del comunicato con il quale il Ministero della Difesa Nazionale nordcoreano minaccia gli USA di risposte più dure, fiercer, rispetto al lancio dei “proiettili” di inizio maggio, nel caso Washington non cambi la propria strategia nei colloqui di pace sulla denuclearizzazione della penisola coreana. Al momento, quindi, le trattative sono in una fase di stallo e la tensione fra i due Paesi è tornata a salire. Risulta dunque comprensibile che la Joint Security Area, un’area circolare di 800 metri di diametro lungo la linea di confine più blindata della terra e dove ancora si respira la tensione della Guerra fredda, non sia sempre accessibile ai turisti, che comunque vi si possono recare solo accompagnati da agenzie turistiche che collaborano con il personale militare sudcoreano e americano.
Gli incontri fra le due Coree
“Siete fortunati”, ci dice la giovane guida coreana dell’agenzia Koridoor di Seul, specializzata nell’accompagnare i visitatori di tutto il mondo nella DMZ. “Per oggi abbiamo il permesso di entrare nella JSA”, ci dice, “e questo nei mesi scorsi non è stato possibile”.
Dal 1°ottobre 2018 l’enclave militare è infatti rimasta sempre chiusa ai turisti per le operazioni di sminamento concordate congiuntamente da Kim Jong-un e dal presidente sudcoreano Moon Jae-in in occasione del loro terzo incontro del 2018, svoltosi a settembre a Pyeongyang, la capitale della Corea del Nord.
In tutta la storia del conflitto Corea del Sud e Corea del Nord si sono incontrate solo in cinque occasioni: nel 2000, nel 2007 e nell’aprile, maggio e settembre 2018. Nel drammatico, storico incontro del 27 aprile 2018 fra il leader supremo Kim Jong-un e il presidente sudcoreano Moon Jae-in, la prima volta di un presidente nordcoreano in territorio di Seul, è stata firmata la “Dichiarazione di Panmunjom per la pace, la prosperità e la riunificazione della penisola coreana”, in cui le due Coree confermano, fra gli altri, l’obiettivo comune della denuclearizzazione e di una Corea libera dal nucleare. Di fronte a 80 milioni di coreani e al mondo intero, i due leader hanno dichiarato solennemente che non ci sarà più guerra nella penisola coreana. Hanno inoltre promesso di aprire una serie di incontri trilaterali fra le due Coree e gli Stati Uniti, da estendere poi alla Cina, con la volontà di porre le basi per la fine della guerra e di trasformare l’armistizio del 27 luglio 1953 in un vero trattato di pace.
Il 19 settembre 2018 i due ministeri della difesa nazionali coreani hanno sottoscritto a Pyeongyang un accordo militare che vuole trasformare tutta la DMZ in un’area di pace. Molto è stato fatto, come le rischiose operazioni di sminamento all’interno della JSA, compiute nei primi venti giorni dell’ottobre 2018 in accordo con quanto annunciato dal Ministero della difesa sudcoreano. O come la rimozione di ventidue posti di guardia (undici ciascuno), situati entro il raggio di un chilometro dalla linea di confine, come misura preliminare per poi in futuro rimuovere tutte le postazioni all’interno della DMZ.
L’agenzia multimediale Voice of America, di proprietà del governo americano, ha dato notizia inoltre di due incontri avvenuti nel giro di una settimana, fra il 16 e il 22 ottobre 2018, nella parte sudcoreana della JSA, fra le delegazioni delle due Coree e dell’UNC (United Nations Command), in cui si è discusso sugli ulteriori piani di disarmo della Joint Security Area e sulle modalità di rendere effettivi i termini dell’accordo militare sottoscritto a Pyeongyang, che si propongono la demilitarizzazione della JSA. Informazioni aggiornate in rete sulla JSA sono ricomparse solo poco tempo fa, con l’annuncio, da parte del Ministero della difesa sudcoreano, della riapertura della parte sudcoreana della JSA alle visite turistiche a partire dal 1°maggio 2019. Considerati i missili nordcoreani d’inizio mese (4 e 9 maggio) e le tensioni che ne sono derivate, il venerdì 17 maggio 2019 segna quindi uno dei rari giorni in cui la Joint Security Area apre le porte ai visitatori.
DMZ
Partiamo alle 10 di mattina con un autobus carico di turisti, in prevalenza statunitensi. Considerando che ho potuto partecipare al tour soltanto perché un’altra persona all’ultimo momento si è ritirata, mi viene da pensare che il temuto incrocio di numeri e giorno non mi porti così sfortuna. Le strade di Seul sembrano stranamente vuote e in poco tempo raggiungiamo la gigantesca autostrada, in certi punti di 12 corsie, che ci porta verso nord. L’autobus costeggia il corso del fiume Han e dopo pochi minuti iniziano a spuntare reticolati di filo spinato e torrette militari, già molti chilometri prima della foce del fiume, che segna l’inizio del fronte occidentale della Zona Demilitarizzata coreana. La DMZ è sicura – diversamente, non ci sarebbero oltre 100mila turisti all’anno che la visitano – ma, anche se “congelato”, è pur sempre teatro di un conflitto e dobbiamo attenerci strettamente a determinate regole di comportamento e di abbigliamento (sono vietati pantaloni corti, canottiere, magliette scollate e scarpe aperte).
Quello che colpisce è il grande silenzio, la natura rigogliosa e incontaminata di questo lembo di terra che è la prova concreta della controversa storia della Corea degli ultimi settant’anni. Queste montagne dalla foltissima vegetazione sono diventate, proprio perché non antropizzate da anni, una riserva naturale per la tigre siberiana e l’orso nero asiatico, fra le tante specie sia di piante che di animali.
La Zona demilitarizzata coreana è una striscia di terra larga quattro chilometri e lunga 248 che corre da Ovest-Sudovest a Est-Nordest a tagliare in due la penisola coreana all’altezza del 38°parallelo. Più specificamente, a dividere in due parti la Corea fu la linea di demarcazione militare (MDL, Military Demarcation Line), la cui creazione fu decretata con l’armistizio del 27 luglio 1953 e intorno a cui si è poi sviluppata, due chilometri a nord e due a sud dalla linea di confine, la DMZ.
Fino allo scoppio del conflitto – era il 25 giugno 1950 quando 135.000 soldati dell’esercito comunista della Corea del Nord invasero la Repubblica di Corea – il confine che divideva de facto la penisola coreana nelle due sfere d’influenza sovietica e americana era quella del 38° parallelo. La spartizione della penisola coreana all’altezza del 38° parallelo non fu una decisione presa, come si è talvolta letto finora, dai leader di USA, Regno Unito e Unione Sovietica durante la Conferenza di Yalta nel febbraio del 1945 o durante le altre conferenze tenutesi prima della fine della Seconda guerra mondiale. Dai documenti ufficiali riguardanti il conflitto coreano e dal libro di memorie sulla Guerra fredda “As I Saw it” di Dean Rusk, Segretario di Stato nell’amministrazione Kennedy, emerge che furono Rusk e Charles Bonesteel, capo della divisione politica al Dipartimento di guerra di Washington, a tracciare urgentemente il confine militare lungo il 38° parallelo su una vecchia cartina geografica del 1942 del National Geographic. L’operazione fu fatta, con lo scopo di frenare l’occupazione sovietica dell’intera penisola coreana, alla mezzanotte del 10 agosto 1945, dopo che il Giappone, distrutto dalle le bombe di Hiroshima e Nagasaki, accettò la resa incondizionata. L’Unione Sovietica acconsentì al progetto americano e le sue truppe si fermarono all’altezza del 38° parallelo.
Fra le misure stabilite dall’armistizio del 27 luglio 1953 vi era anche quella della creazione da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di una speciale Commissione militare, la United Nations Command Military Armistice Commission (UNCMAC), che ha svolto e svolge tuttora il compito di monitorare le violazioni della tregua lungo tutta la DMZ e di fungere da intermediario fra le due parti in causa. La commissione militare tiene i suoi incontri nella JSA di Panmunjom ed è formata, oltre che dai rappresentanti del Comando delle Nazioni Unite (UNC), dai delegati della Corea del Nord e della Cina. Accanto alla Commissione militare (MAC), l’altro gruppo d’esperti incaricato fin dal 1953 di regolare le relazioni fra Nord Corea e la Repubblica di Corea è quello della Neutral Nations Supervisory Commission (NNSC).
I luoghi
Attualmente i tour nella DMZ comprendono diversi luoghi d’interesse dislocati lungo i settori occidentale, centrale e orientale della linea del fronte. La prima delle nostre tappe è quella al Dora Observatory, un grande edificio costruito in cima alla collina Dora, con un’ampia terrazza dotata di numerosi e potenti binocoli che permettono di gettare lo sguardo nella DMZ e verso la Corea del Nord. Riesco a scorgere in lontananza la città nordcoreana di Kaesong. Distinguo bene Kijŏng-dong, chiamato in Corea del Nord il “Villaggio della pace”, fattoria collettiva in cui vivono 200 famiglie, asilo, scuola e ospedale, esempio della prospera società nordcoreana, e ribattezzato invece dai media occidentali e sudcoreani “Propaganda Village”, perché in realtà non ci vive nessuno. Anche la guida sudcoreana ci conferma questa versione. Attraverso le potenti lenti del binocolo cerco in mezzo al verde delle colline e dei boschi la statua in bronzo di Kim Il-sung, ma non la trovo. Vedo invece, tremolanti per la rifrazione, due bandiere rosso e blu nordcoreane che sventolano sopra un posto di guardia e questo sarà il mio unico incontro della giornata con il “nemico” nordcoreano.
Nei pochi chilometri percorsi per raggiungere la seconda tappa del tour ho modo di vedere un folto gruppo di soldati sudcoreani che ha appena terminato una dura sessione d’addestramento. Fra i vari accordi contenuti nella “Dichiarazione di Panmunjom vi era anche quello di porre fine agli addestramenti militari dei due eserciti all’interno delle foreste della Zona demilitarizzata. Questo sembra essere uno dei punti dell’intesa militare che, insieme ad altri, non sono stati ancora messi in pratica.
La seconda tappa è una bizzarria nordcoreana. Si tratta di un tunnel della lunghezza di 1635 metri che corre ad una profondità di 73 metri sotto la superficie perforando lo strato roccioso. Attraversa per 1200 metri la parte nordcoreana della Zona Demilitarizzata ed entra per 435 metri in territorio sudcoreano. Ha un’altezza massima di 195 centimetri e un’ampiezza di circa due metri, adatte a far passare in un’ora una divisione di 30mila soldati equipaggiati di armi leggere. L’accesso al tunnel avviene attraverso una lunga rampa di 350 metri che presenta una pendenza non trascurabile. L’ambiente è molto umido a causa delle costanti infiltrazioni di acqua e abbastanza claustrofobico, specie in fondo alla galleria, dove si è costretti a stare fermi per alcuni minuti.
Il “Terzo tunnel d’infiltrazione”, uno dei quattro tunnel scavati dai nordcoreani e finora rinvenuti, è stato scoperto nel 1978 e doveva servire per sferrare un attacco a sorpresa da parte delle forze armate nordcoreane a Seul, distante soltanto 52 chilometri. Dopo la scoperta della galleria il Comando delle Nazioni Unite ha accusato Pyeongyang di avere tradito l’Armistizio del 1953 e ha valutato l’episodio come un vero e proprio atto d’aggressione. Attualmente, come detto sopra, sono stati individuati quattro tunnel, ma squadre di specialisti sudcoreani sono sempre alla ricerca di altre gallerie e sembra che in totale ce ne siano una ventina, anche se lo sviluppo della forza missilistica nordcoreana ha reso oggi l’utilizzo dei tunnel una cosa meno importante ai fini di un’aggressione militare.
Dopo il tunnel ci spostiamo alla Dorasan Station, una stazione ferroviaria situata a 650 metri a sud del margine meridionale della DMZ e disposta su una linea ferroviaria che una volta collegava le due Coree. Sembra una specie di museo triste, perché l’edificio, inaugurato nell’aprile 2002, è moderno, grande e accogliente come deve essere una stazione, ma c’è poca gente, mancano i viaggiatori. È il terminal settentrionale della Korail, la società ferroviaria sudcoreana. Poi i binari diventano della Korea State Railways, le ferrovie di Stato nordcoreane e continuano fino a Pyeongyang, lontana 205 chilometri, ma non c’è nessun servizio attivo. Sembra una stazione fantasma. Cartelli in coreano e inglese avvertono di non oltrepassare certe linee. La stazione, in un’area disabitata circondata dalle colline e dai boschi, ha un’architettura futuristica che vuole essere chiaramente il simbolo della speranza di vedere un giorno la Corea unificata. All’interno della grande hall, un’esposizione mostra le immagini dello storico meeting inter-coreano del 27 aprile 2018, quando i leader delle due Coree firmarono la “Dichiarazione di Panmunjom”. Nella parete opposta troneggia un gigantesco pannello che rappresenta quello che è un sogno da realizzare: da Busan, nel sud della Corea, a Parigi in due settimane, passando per Dorasan, “la prima stazione verso il Nord, non l’ultima stazione del Sud” come è scritto nelle targhe celebrative, una delle quali riporta l’autografo di George W. Bush, venuto in visita nel febbraio 2002. Un grande progetto che prevede la Dorasan Train Station come porta di entrata per il grande continente euroasiatico, attraverso la Trans Eurasia Railway Network, una rete di percorsi ferroviari leggendari: transcoreanica, transmongolica, transiberiana e poi fino al cuore dell’Europa.
JSA
Dopo una sosta per il pranzo ci muoviamo verso la Joint Security Area, il clou della giornata. Posti di blocco e new jersey messi di traverso segnalano l’arrivo a Camp Bonifas, una postazione militare del Comando delle Nazioni Unite dislocata a 400 metri dal margine meridionale della DMZ. La base militare è sede dello United Nations Command Security Battalion-Joint Security Area, l’unità militare costituita il 5 maggio 1952 per fornire sicurezza e appoggio logistico ai membri del Comando delle Nazioni Unite impegnati nelle negoziazioni dell’armistizio. Pur avendo cambiato più volte nel corso di questi settant’anni organizzazione e nome, il battaglione ha mantenuto nel tempo la sua missione primaria che è tuttora quella di garantire e rinforzare i termini dell’Armistizio del 1953 e vigilare sulla sicurezza del settore del Comando della Nazioni Unite all’interno della JSA. L’unità è composta ora quasi del tutto dalle forze militari sudcoreane.
“Se non fosse per le mine e i soldati armati, il posto potrebbe sembrare un grande campo di Boy Scout”. Descriveva così Camp Bonifas il reporter Kevin Sullivan in un articolo sul Washington Post dell’11 gennaio 1998. A quell’epoca Camp Bonifas e altre basi vicino a Punmunjom ospitavano circa 500 soldati americani e sudcoreani. Erano i militari più vicini al confine ed erano in costante allerta per il concreto pericolo di un’invasione della Corea del Nord. Il personale militare del campo provvedeva a garantire 24 ore su 24 la sicurezza ai membri del Comando delle Nazioni Unite con i loro ospiti e controllava l’entrata e l’uscita dalla JSA. Ancora oggi funziona così, benché dal 2004 la responsabilità delle strutture del campo sia della Repubblica di Corea. Anche lungo tutta la linea di confine le truppe sudcoreane stanno gradualmente sostituendo le forze militari americane nella gestione complessiva della Zona Demilitarizzata. Gli Stati Uniti però conservano per sé ancora i ruoli di maggior controllo, specie all’interno della JSA, dove il battaglione di sicurezza è guidato da un comandante americano con vice sudcoreano.
Dal 1953, tutta la Zona Demilitarizzata, ironia del nome, è stata disseminata di mine, bunker e chilometri di filo spinato. Due eserciti, con un milione di soldati, hanno stazionato per anni a ridosso della zona neutrale. Dopo gli accordi per il cessate il fuoco entrambe le parti hanno cosparso di mine tutta la DMZ. La Corea del Sud da sola ne ha sganciate un milione, usando elicotteri militari. Durante il lancio le mine sembravano sciami di farfalle che venivano giù dal cielo e per questo i piloti americani le chiamavano “Butterfly”.
Nei primi quarant’anni molti sono stati gli episodi di tensione dentro la DMZ che hanno fatto temere una ripresa delle ostilità, come è accaduto fra il 5 ottobre 1966 e il 3 dicembre 1969 nel Korean DMZ Conflict quando, durante schermaglie e incidenti vari, hanno perso la vita 43 americani, 299 sudcoreani e 397 soldati nordcoreani, più centinaia di feriti. In totale sono più di 50 i soldati americani che sono rimasti uccisi nella DMZ, 1000 quelli sudcoreani e imprecisato il numero dei nordcoreani.
Fra gli incidenti avvenuti a Panmunjom, l’omicidio dell’ascia – The axe murder incident – è forse il più noto e sicuramente il più assurdo se non fosse per la tragicità che lo ha contraddistinto. Si tratta della drammatica vicenda del capitano americano Arthur G. Bonifas e del tenente Mark T. Barrett avvenuta il 18 agosto 1976 all’interno della Joint Security Area. I due ufficiali americani stavano scortando una squadra di cinque elementi dei Korean Service Corps, formazione civile ausiliaria dell’esercito sudcoreano, che aveva il compito di abbattere un albero le cui fronde ostacolavano il contatto visivo fra una torretta di osservazione e un checkpoint del Comando delle Nazioni Unite (UNC). Il checkpoint era l’avamposto dell’UNC più a nord di tutti, situato in prossimità del “Bridge of No Return”, il “Ponte del non-ritorno” che attraversa la Linea di Demarcazione Militare e sul quale sono avvenuti gli scambi dei prigionieri. In quel giorno di agosto del 1976 i due ufficiali americani e i loro uomini furono sorpresi da un gruppo di soldati nordcoreani e fatti a pezzi con l’accetta. I militari nordcoreani motivarono il loro comportamento dicendo di avere avvertito gli americani che quell’albero era stato piantato da Kim Il-sung in persona, Presidente eterno della Repubblica Popolare Democratica di Corea.
Prima di quel 18 agosto 1976 i soldati nord e sudcoreani si mescolavano pacificamente all’interno dell’intera JSA. Dopo, le forze militari si sono fronteggiate a lungo in un clima di tensione con atteggiamenti di sfida, con i soldati sudcoreani cintura nera di taekwondo e judo in posizione di allerta con gli occhiali neri da sole per celare lo sguardo, elemento cruciale nel duello fatto di continue provocazioni con i rivali nordcoreani. Ancora oggi i soldati sudcoreani che sorvegliano da lontano gli spostamenti della nostra comitiva dentro la JSA, quando sono fermi, assumono la tipica posizione dell’arte marziale coreana.
Di quella tensione pericolosa, osservando il triplo strato di filo spinato sopra la rete che circonda Camp Bonifas, che fino al 18 agosto 1986 si chiamava Kitty Hawk, rimane ora solo una vaga impressione.
Al checkpoint di Camp Bonifas, prima di entrare nella JSA, il soldato Riopel dell’US-Army insieme ad un suo collega salgono sull’autobus e spiegano che da quel momento in poi sono loro i responsabili, come personale dello United Nations Command DMZ Orientation Program, della conduzione del tour e dell’incolumità dei visitatori. Sono conosciuti per questa loro attività come security escorts. Al briefing di venti minuti condotto al centro visitatori dobbiamo firmare una dichiarazione in cui è scritto che stiamo per entrare “in un’area ostile con la possibilità di lesioni o morte come effetto diretto dell’azione nemica”. In realtà i soldati sudcoreani e americani sono armati solo di radiotrasmittenti. Il disarmo all’interno della Joint Security Area e nella DMZ è un effetto del terzo summit inter-coreano del 2018 svoltosi a Pyongyang dal 18 al 20 settembre del 2018. È in quell’occasione che Kim Yong-un e Moon Jae-in hanno rilanciato il tema della demilitarizzazione della JSA, un argomento su cui si era discusso già a partire dagli anni 90 ma che non ha mai trovato le condizioni giuste per realizzarsi. A tal riguardo, la mitica rivista militare americana “Stars and Stripes” ha scritto il 6 novembre 2018 che ufficiali militari delle tre parti coinvolte (Corea del Nord, del Sud e Nazioni Unite guidate dagli USA) hanno iniziato lo svolgimento del servizio di vigilanza comune all’interno della JSA da parte di due squadre composte da 35 soldati disarmati.
Fra i primi concreti obiettivi della Dichiarazione di Panmunjom doveva esserci anche quello di una partecipazione congiunta degli atleti coreani ai Giochi asiatici 2018 che si sono svolti in Indonesia, dove però ci sono state due Coree. Analogamente, l’altro importante proposito di fare della JSA un’area aperta alla circolazione di turisti e di civili dovrà ancora attendere per qualche tempo, visto che a maggio 2019 non era assolutamente possibile circolare liberamente dentro Panmunjom.
I soldati americani che ci hanno preso in consegna ci spiegano infatti scrupolosamente cosa fare, come comportarsi, come muoversi e quando poter fotografare, sempre e solo verso nord. Né i militari americani né quelli sudcoreani, come detto in precedenza, sono armati, conformemente a uno dei punti della Dichiarazione di Panmunjom e quest’aspetto sottolinea il successo, almeno parziale, dei meeting inter-coreani.
Arrivati finalmente al Truce village l’immagine che si presenta è esattamente quella riprodotta dalle foto dei media, ovvero le tre baracche color blu della pace al centro del quadro, le guardie sudcoreane con gli occhiali neri a guardia della baracca centrale e sullo sfondo, il Phanmun Pavillon, l’edificio nordcoreano speculare alla House of Freedom, alle nostre spalle. Dall’altra parte non si vede nessun soldato, nessun movimento. Entriamo nella baracca, che è molto lunga ed ha al centro un lungo tavolo messo di traverso, la cui ideale bisettrice è segnata dai fili dei microfoni e scorre esattamente in corrispondenza della Linea di Demarcazione Militare. Ci è concesso di oltrepassare la metà della stanza, superando così la linea di confine e rievocando il gesto augurale dei due leader coreani del 27 aprile 2018. Un soldato americano si mette accanto alla porta che è sulla parete nord della baracca. Aprire quella porta e circolare liberamente a Panmunjom è un’azione ancora vietata. Almeno finora. In futuro vedremo.
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