La mia mano sudata e tremolante stritola quella del mio assonnato compagno Gianluca. È in pigiama e scarpe da ginnastica, mentre spettinato e assente aspetta con me sul marciapiede il taxi che mi porterà alla stazione di Edimburgo Waverley. Sono le sette e mezza di una mattina di metà luglio: il sole splende così alto che entro mezzogiorno avrà già fatto due giri. Ecco l’auto: saluto Gianluca come ho salutato i miei genitori prima di entrare a scuola il primo giorno. È la prima volta che passo un mese in nave e non so proprio cosa aspettarmi. Carico la mia ansia e i miei due borsoni nel bagagliaio dell’auto e partiamo.
Osservo la città che si sveglia e cerco di memorizzare ogni particolare, consapevole che fra quattro settimane, quando ritornerò, l’unica ad essere diversa sarò io, quindi tengo stretto il mio punto di vista, come Linus la sua coperta. Mi rifugio nei monumenti, nei palazzi che conosco a memoria, tenendo a mente la forma delle finestre, dei tetti, il colore ingrigito degli edifici del centro.
Raggiungo la stazione in meno di venti minuti. Da qui mi aspettano più o meno tre ore di treno prima di arrivare al porto di Aberdeen, 200 chilometri a nord di Edimburgo. Lì è ormeggiata la nave che mi farà da casa per il prossimo mese e a bordo della quale salperò per una campagna oceanografica a circa 15 ore di navigazione dalla costa, al confine marittimo con la Norvegia. Lo scopo del progetto è quello di caratterizzare un’area dove è in programma la costruzione di una grossa infrastruttura, pertanto la compagnia per la quale lavoro è stata ingaggiata per mapparne il fondale marino, descrivendo sia i sedimenti che gli ecosistemi che lo contraddistinguono. La campagna è già iniziata due mesi fa, ma ogni quattro settimane l’equipaggio viene cambiato e la nave ritorna al porto, dove vengono anche effettuati tutti i rifornimenti necessari all’imbarcazione per passare un nuovo mese al largo.
Il mio viaggio fino al porto procede senza intoppi, in un silenzio surreale.
La ferrovia serpeggia lungo la costa orientale scozzese, regalandomi un paesaggio mozzafiato. Prati verdissimi scorrono dai binari senza interrompersi, fino alla falesia, che scura precipita in mare. Sembra quasi che la costa sia stata tagliata di netto, come un pezzo di legno grezzo, e ficcata in mezzo all’oceano così, senza essere rifinita: ho ormai gli occhi pieni di azzurro quando arrivo a destinazione.
Il porto di Aberdeen ogni anno ospita in media 8000 navi ed è uno dei più grandi del Regno Unito, nonché l’attività commerciale ancora attiva più antica di Scozia. Benché in passato sia stato un importantissimo porto peschereccio, ad oggi rappresenta uno dei principali porti di servizio in Europa per i collegamenti con le piattaforme offshore. La sua fondazione risale al 1136 e i suoi quasi 900 anni di identità portuale ne giustificano la struttura ridondante. Decine e decine di navi gigantesche, coi ponti bianchi o gialli e gli scafi dipinti di un colore acceso, per la maggior parte verde, rosso, blu o arancione, sono ormeggiate. Le imbarcazioni sono talmente perfette che mi chiedo se siano vere o semplicemente messe lì per fare bella figura, attraccate ordinatamente, quasi fossero state parcheggiate.
La mia nave è una delle più piccole là in mezzo, con i suoi 65 metri di lunghezza e 15 di altezza, ma a me sembra comunque monumentale. Un colosso di ingegneria rosso e bianco. Mi trascino con i miei bagagli sulla passerella ed entro: sembra di essere in un quadro di Escher. È un nodo di corridoi, scale e porte smaltate. Senza perdere tempo, vengo accolta dal capitano e dal capomissione, appoggio le valigie davanti a quella che sarà la mia cabina e consegno il mio passaporto per la registrazione all’autorità portuale.
Ci accomodiamo man mano nella sala mensa, la galley, dove si affolla al momento quasi tutto l’equipaggio. È una stanza abbastanza grande, con quattro tavoli rotondi al centro e un buffet tipo self-service dove vengono serviti i tre pasti della giornata: colazione alle 7:30, pranzo alle 11:30 e cena alle 17:30. A bordo in totale saremo trenta (di cui due donne, io e la mia collega di ecologia marina), ma in questo momento ci sono sessanta persone sono in fila per riempirsi il piatto e consumare un ultimo pranzo tutti insieme. Chi sbarca cammina baldanzoso, ride, ha sul volto la fatica delle quattro settimane di lavoro appena trascorse, accompagnata da una gioia leggiadrissima che si manifesta con vestiti puliti, barbe appena tagliate, passi sereni e un profumo di colonia che si avverte sino al porto. Al cambio della guardia bisogna scambiarsi un documento chiamato crew change handover, che contiene tutte le informazioni sul progetto e le operazioni che sono state effettuate finora, insieme ad alcune indicazioni sul lavoro in programma nella prossima rotazione. Questa conversazione è specifica per ognuno dei ruoli a bordo, pertanto vedo le diverse figure operative appaiarsi come tessere del memory e discutere sui contenuti del documento. Effettuato l’handover, che dura circa 20 minuti, tutto è pronto per salutare la ciurma felicemente sbarcante e salpare. Mentre vedo il porto allontanarsi fino a scomparire e la massa blu intorno a me prevaricare su tutto il paesaggio, mi rendo conto che per quattro settimane questa sarà tutta la mia realtà, queste 30 persone tutta la mia umanità.
Vengo inserita nel piccolo gruppetto di coloro che sono a bordo per la prima volta. Il secondo ufficiale ci accompagna per un tour della nave, il cui scopo principale è quello di istruirci su tutte le uscite e le misure di sicurezza. Mentre ci muoviamo all’interno di un vero e proprio labirinto nautico la sensazione è quella di trovarsi in un sottomarino russo di uno dei quei film americani degli anni ’70 sulla guerra fredda. Oblò, porte che si aprono con pesanti maniglioni circolari, decine di monitor e milioni di cavi che collegano un numero altrettanto alto di computer, server e centraline di controllo per la strumentazione di tutta la nave. Partiamo dal ponte inferiore e procediamo verso l’alto. Il labirinto si dipana davanti ai miei occhi mentre a ogni analisi che dovremmo effettuare viene assegnata un ponte, una stanza, una sedia, un computer. La processing room (letteralmente la sala di elaborazione) è uno dei luoghi dove avviene la magia: qui vengono catturati e processati i dati raccolti durante le operazioni in tempo reale.
Ci sono sei postazioni di lavoro, ciascuna con un computer: una è per i geofisici, una per i geotecnici, una per il processor (deputato al processamento dei dati) e una anche per noi, ecologi marini. Al centro della stanza troneggia una grossa cassettiera dove è stato arrangiato un tavolo da ping-pong con una corda a mo’ di rete. Una seconda stanza importantissima è la stanza dei tecnici. Anche qui dominano i computer, ma è presente una monolitica colonna piena di luci, bottoni, levette. Adesso ho abbandonato il sottomarino russo per trovarmi direttamente in una sala di controllo della NASA. Da questa postazione è possibile operare da remoto quasi tutti gli strumenti che si trovano sul back deck (il ponte esterno a prua), comprese due grosse gru.
Non mancano una lavanderia, una palestra e addirittura una stanza ricreativa con un mini-cinema, una piccola biblioteca e un bersaglio per giocare a freccette. Una serie di botole collega tutte le stanze principali e i corridoi al punto di raccolta all’esterno in caso di emergenza. Abbandonare la nave deve essere considerata l’ultima spiaggia, poiché essa rimane in quasi tutte le circostanze il luogo più sicuro in mare aperto, ma nell’infausta evenienza che questa condizione sia compromessa ci sono quattro zattere gonfiabili poste all’esterno. Il Mare del Nord è un mare freddo, ventoso, ostile all’uomo. All’altezza cui ci troviamo ha una temperatura estiva che varia fra i 12 e i 16 gradi centigradi, pertanto a immergersi si rischierebbe una severa ipotermia dopo appena 15 minuti. È importantissimo quindi sapere dove trovare le mute per l’immersione, da indossare assolutamente sopra i vestiti prima di lasciare l’imbarcazione. Ognuno di noi ne ha una nell’armadio della propria cabina. Le taglie non sono pensate per l’equipaggio femminile, che è sempre una rarità, e quando provo quella che mi è stata assegnata (una taglia L, la più piccola) potrei ospitare una seconda Caterina con me.
Effettuate queste prime formalità si inizia a organizzare il lavoro. Ognuno ha la sua piccola esclusiva fetta che contribuisce a comporre il puzzle del progetto più grande. Si lavora 24 ore su 24, 7 giorni su 7, se il meteo lo permette. Quasi tutti si dividono la giornata in due turni: uno da mezzanotte a mezzogiorno e uno da mezzogiorno a mezzanotte. In questo modo non si smette mai di lavorare e il tempo diviene un continuum progressivo e indefinito, la cui unica ciclicità rimane fossilizzata nel buio che precede l’alba e segue il tramonto. Il mio è il turno notturno per cui la mia prima, impossibile mansione è quella di andare a dormire prima delle quattro del pomeriggio per essere fresca e riposata a mezzanotte. Fallisco miseramente.
Con l’animo (e la faccia) di un essere sopravvissuto per miracolo a una rissa da bar, alla mezzanotte del secondo giorno inizio ufficialmente il mio primo compito. Effettuiamo un’operazione di monitoraggio di cetacei prevista dalle normative locali, realizzata ogni qualvolta si usino degli strumenti che possono interferire o danneggiare il loro delicato sistema uditivo. I cetacei infatti utilizzano il suono, e quindi l’udito, per comunicare durante attività fondamentali come nutrirsi, accoppiarsi, migrare. L’immissione in acqua di un disturbo acustico compromette la riuscita di queste attività, sia perché rappresenta un rumore di fondo molto elevato, sia perché potrebbe danneggiare il loro orecchio, ed è purtroppo una delle maggiori cause degli spiaggiamenti di questi splendidi animali.
Ciò che viene utilizzato nel nostro caso è uno strumento sismico chiamato mini air gun che è praticamente una pistola ad aria compressa. Sono delle specie di cilindri metallici delle dimensioni di circa 40 centimetri con una forma che ricorda quella dei pistoni del motore dell’automobile disegnati sui libri di scuola guida. Ne vengono montate sei in due file parallele, in un set chiamato array. Quindi vengono collegate a un gigantesco cavo di alimentazione e calate sulla superficie dell’acqua, dove sono poi trascinate, mentre la nave procede alla velocità ridotta di 4 nodi. Ogni tre secondi esplodono circa 100 ml di aria compressa, generando un suono che può raggiungere anche più di 200 decibel (il decollo di un razzo spaziale ne produce circa 180). Un potentissimo battito che si sente attraverso ogni paratia, e vibra sotto i piedi come un temporale nascosto sotto la stiva. Questo suono rimbalza sul fondale marino e viene riflesso a intensità più o meno alte, a seconda del materiale che incontra. Più duro è il materiale più alta è la sua riflettività. Le onde rifratte vengono poi ricevute dallo streamer, un cavo di 1200 metri con una serie di idrofoni (dei microfoni subacquei) che le registra e le invia al computer. Si trova in acqua vicino agli airguns e registra i dati in una retta. Siccome l’area di campionamento è quadrata procediamo avanti e indietro seguendo linee parallele, fino a coprirla tutta. Il compito dei geofisici è quello di elaborare i dati e unire tutte le linee in modo da produrre una mappa batimetrica che mostra le caratteristiche del fondale, un po’ come una cartina fisica del substrato. Una volta che si inizia a sparare si continua senza sosta, fino a quando tutta l’area sarà stata mappata. Il rumore dopo i primi due giorni diventa parte del sottofondo, come un cuore meccanico che pulsa dalle viscere della sala macchine.
Io e la mia collega ci alterniamo ai nostri turni di guardia per registrare ogni avvistamento o localizzazione di mammiferi marini. Durante le ore diurne ci piazziamo con il nostro binocolo sul ponte di comando, e scrutiamo attentamente la superficie del mare in cerca di pinne, code, soffi d’aria. Durante la notte l’oscurità rende impossibile il monitoraggio visivo, quindi si lavora attraverso un monitoraggio passivo acustico (PAM) che richiede l’utilizzo di un idrofono e un software in grado di riprodurre graficamente lo spettro sonoro delle frequenze utilizzate da quasi tutti i cetacei. In questo modo riusciamo a percepire anche quelle più basse, che normalmente sarebbe impossibile sentire.
Ogni specie di mammifero restituisce uno spettro diverso. I delfini ad esempio emettono un suono sottile, simile a un fischio che disegna una serie di onde energiche e disordinate, che si tuffano e si capovolgono seguendo il ritmo delle loro nuotate all’orizzonte. Le balene appaiono invece come delle strisce dilatate e piuttosto lente, mentre i capodogli sono una serie ripetuta di linee verticali, corrispondenti ai click tipici del loro verso: suonano simili allo schiocco delle dita, fanno un rumore legnoso che ricorda la forma squadrata del loro capo. A mettersi le cuffie e ascoltare il mare ci si impressiona: è assordante. Il fruscio dell’acqua ogni tanto si riconosce, ma è niente rispetto alla moltitudine di swoosh, cling, plop, clang, ffrrrrrrrrr che mi riempiono i timpani. La nave fa un casino tremendo. Ogni tanto si riescono persino a sentire le trivelle delle piattaforme petrolifere distanti chilometri.
Secondo il regolamento prima di accendere qualsiasi strumentazione bisogna iniziare una guardia di 30 minuti chiamata pre-watch, che serve ad assicurare l’assenza di cetacei all’interno della zona di mitigazione, ovvero un’area circolare dal raggio di 500 m intorno alla nave. Qualora venisse avvistato qualcosa ogni operazione rimarrebbe in stallo e non si potrebbe procedere finché non sono passati almeno venti minuti dalla fine dell’avvistamento. Durante il pre-watch l’equipaggio intero si congela e aspetta un cenno da parte mia per iniziare, e io prego i miei occhi (o le mie orecchie) di non perdere nemmeno una virgola di quello che succede fuori. Appena si dà il via libera si accendono gli airgun per il soft start, un periodo di 20 minuti in cui la frequenza e la potenza degli spari aumenta progressivamente fino ad arrivare al regime massimo, al suo massacro di decibel. Questo dovrebbe dare il tempo a eventuali animali di accorgersi del disturbo acustico e nuotare da un’altra parte prima che diventi dannoso, poiché una volta che la sparatoria è iniziata non si può fermare, nemmeno in caso di avvistamento. La nave procede dritta sparando decibel a tutto spiano, e le linee di acquisizione durano dai 40 minuti alle due ore. Tra una linea e l’altra bisogna invertire la rotta e in questa fase gli air gun vengono tenuti accesi, a una frequenza ridotta, in modo da limitare, per quanto possibile, l’impatto ambientale. Se dovessero rimanere a potenza ridotta per più di 40 minuti sarebbe necessario spegnerli e ricominciare dalla fase di pre-watch. Il monitoraggio va comunque effettuato durante tutte le operazioni, sia per registrare eventuali avvistamenti, sia per essere sempre sul posto nel caso in cui qualcosa faccia interrompere gli spari e quindi renda necessario il nostro intervento.
Io sono costantemente combattuta fra il desiderio e il terrore di vedere una balena sbucare dall’acqua. Sebbene siano state messe in piedi queste misure di mitigazione infatti, la realtà è che non sono assolutamente sufficienti per prevenire degli importanti danni ambientali. Il sistema che stiamo utilizzando noi è niente in confronto ai potenti mezzi che vengono utilizzati per l’esplorazione petrolifera, ma le regole purtroppo sono le stesse. Le grandi imbarcazioni che ricercano il petrolio infatti necessitano di molti più airgun e molto più potenti dei nostri, poiché devono generare un suono in grado di penetrare molti metri nel fondale marino, per riuscire a localizzare il petrolio. Le esplorazioni di questo tipo possono proseguire ininterrottamente per mesi e il suono emesso da una singola nave è stato addirittura registrato in un’area complessiva di 300 000 chilometri quadrati. È come se il placido ambiente oceanico venisse trasformato in un rave a cui sono obbligati a partecipare tutti. Il mare non ha confini o stanze insonorizzate, non si può scappare al caos.
Dopo più di quattordici giorni e nessun avvistamento, inizio a capire il reale significato della parola alienazione. Alle 2 e 30 mi viene regolarmente fame, ma regolarmente il pavimento della galley è appena stato ripulito. Capisco quando sono le 6 e 30 perché fuori dal ponte di comando l’aria odora di salsiccia (la cucina ha iniziato a preparare la colazione). Mi rendo conto che sono le otto quando il capitano mi dà il buongiorno mentre inizia il suo turno, che sono le dieci quando il secondo ufficiale viene a farsi il caffè. L’unica cosa che non è mai uguale è il mare. Dei giorni, quando salgo sul ponte all’alba, è tutto rosa, una miriade di tonalità di rosa e arancione nel cielo che diventano ancora più immense quando riflesse dalla superficie dell’acqua. Altre volte il tempo è brutto e tutto diventa grigio, una nebbiolina copre l’orizzonte e rende piuttosto difficile capire quando finisce il cielo e dove inizia il mare, sembra di stare in un dagherrotipo invecchiato. Servirebbe una seconda lingua invece per descrivere tutti i blu e gli azzurri che si vedono durante le giornate di sole. I gabbiani ci volano attorno scambiandoci per un peschereccio e mi aiutano a convivere con il paradosso statico in cui ondeggio senza interruzione. Finalmente, dopo una serie di giorni che forse sono diciotto, ma non ne potrei essere certa, registriamo l’ultima linea. Gli air gun vengono spenti e una sensazione del tutto nuova mi pervade le orecchie: il silenzio. Una scheggia dimenticata nel pollice dà un sollievo inaspettato, quando esce.
Adesso è il momento di procedere con la nostra parte del progetto: l’indagine degli ecosistemi nell’area. Utilizziamo la mappa appena prodotta per decidere in quali punti vogliamo campionare. Interpretandola è infatti possibile farsi un’idea del tipo di substrato e quindi del potenziale ecosistema presente sul fondale. Basta tenere a mente una regola fondamentale: un oggetto duro ha una riflettività alta, che si traduce in un colore nerastro, un oggetto molle (ad esempio la sabbia) riflette meno e viene rappresentato da sfumature grigio chiaro. La cartina è molto precisa in realtà, addirittura si vedono bene i rivoli disegnati dai banchi di sabbia, ma anche i puntini più scuri, che potrebbero essere dei substrati rocciosi o biogenici, ovvero prodotti da animali. Un esempio di reef biogenico nel Mare del Nord è rappresentato dalle scogliere disordinate prodotte dal piccolo verme polichete Sabellaria spinulosa, il quale vive all’interno di tubi marroncini, che si costruisce da solo. Le colone di Sabellaria ospitano contemporaneamente milioni di individui, che crescono disordinatamente l’uno sopra l’altro, intrecciando i loro tubicini fino a formare una scogliera che può raggiungere anche il metro di altezza.
Questa struttura offre riparo e cibo a molti altri animali, favorendo lo sviluppo di comunità diversificate, molto più rare nei fondi sabbiosi, meno ospitali con il loro profilo piatto e omogeneo. Decidiamo per una ventina di stazioni, che dovrebbero essere sufficienti per indagare tutti i tipi di ambienti presenti nell’area di studio, sabbiosi, rocciosi, biogenici e anche alcuni che non si riesce a capire bene e bisogna approfondire meglio. Per ogni stazione effettueremo un transetto video, ovvero un video di una retta di 50 metri del fondale e una bennata, cioè preleveremo un campione di sedimento che verrà inviato ai laboratori per l’analisi degli idrocarburi, dei metalli pesanti e delle comunità della macrofauna (per definizione comprende tutti gli animali con una taglia superiore al millimetro).
La telecamera che utilizziamo è inserita in una slitta metallica di circa un metro quadrato, con quattro luci tutto intorno: niente da invidiare alla sonda inviata su Marte. Viene calata a circa un metro dal fondo e trascinata dalla nave, che procede molto lenta. Durante questo procedimento moltissime persone ci raggiungono nella sala dei tecnici, emozionate di vedere finalmente qualcosa di diverso dai soliti numeri. Spiare in tempo reale la vita sul fondo del mare è meglio del cinema. Si vedono i ricci brucare tranquilli, lasciando le loro impronte sulla sabbia. I merluzzi che, un po’ più coraggiosi, nuotano attirati dalla luce dei flash, a volte addirittura colpendo involontariamente la telecamera. Durante un transetto una razza, spaventata, emerge dalla sabbia e nuota via, scatenando un boato nella sala. I tecnici e i geofisici fanno il tifo dietro di me additando gli organismi sullo schermo, in visibilio a ogni rara volta che si vede un pesce.
Dopo una settimana di registrazioni troviamo solo sabbia quasi disabitata, qualche sassolino qua e là e una vecchia rete da pesca mezza seppellita sul fondo. Nessuna scogliera, nessuna specie protetta, solo un monotono piattume interrotto di quando in quando da qualche granchio incazzato o da un paio di anemoni. La scarsità di vita che incontriamo sulla superficie potrebbe non rispecchiare quella non visibile ad occhio nudo e rappresentata ad esempio da tutte le comunità di animali e microrganismi che vivono seppelliti nella sabbia. Per questo i dati raccolti e i campioni di sedimento verranno inviati all’ufficio centrale, dove saranno smistati fra i diversi dipartimenti e laboratori per essere analizzati. Fra qualche mese sarà pronto un report dettagliato con i risultati completi e interpretati.
Chiudiamo il progetto giusto ventisette giorni dopo essere partiti, appena in tempo per il nuovo cambio. Finalmente è il nostro turno di sentirci leggeri e profumati. Facciamo rotta verso il porto e l’equipaggio sembra galleggiare. Succede tutto molto in fretta, quasi sottovoce. Non faccio in tempo ad accorgermene che siamo tutti nella galley per il crew-change handover. Mi sembra allo stesso tempo ieri e una vita fa, quando salivo a bordo per la prima volta.
Accogliamo i nostri colleghi al cambio, in un tripudio di dopobarba. Non bisogna fare un vero handover, dal momento che loro inizieranno un nuovo progetto, ma ci si scambia comunque qualche informazione sulle condizioni dei macchinari, dei computer, su come è andato il nostro turno. Chi deve sbarcare freme, appena le formalità sono state svolte ci si stringe la mano, ci si ringrazia reciprocamente per il tempo passato insieme e via, ognuno per la sua strada. Tutte queste persone, che hanno rappresentato la mia famiglia per quasi un mese, ritornano ad essere la famiglia di qualcun altro: diventiamo nuovamente degli sconosciuti, l’uno per l’altro. Mi sento triste quando percorro la passerella verso la terraferma. I miei borsoni in spalla, avverto uno smarrimento diffuso quando mi accorgo che il volto del tassista in attesa ha la faccia dell’umanità ritrovata. Guardo le mie mani sudate appendersi alla ringhiera e lentamente condurmi verso la fine dell’esperienza: non tremano più.
Caterina Coral nasce a Pordenone il 19 ottobre 1989, di giovedì e in anticipo di 10 giorni. È pertanto un’accumulatrice di ritardi, per compensare.
Si laurea in Biologia Marina fra Ancona e Trieste, cercando di coronare il suo sogno di diventare un pirata. Vive e lavora a Edimburgo da due anni come scienziata, un po’ in ufficio e un po’ in nave. Continua a sperare di salpare con un pappagallo sulla spalla, prima o poi.
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