Questo racconto è stato realizzato nell’ambito dei laboratori di scrittura creativa organizzati da Le Balene Possono Volare
Detesto questa casa di campagna. Tutte le volte la stessa merda, gli scricchiolii, il fetore di tubature vecchie e inefficienti. Ma si sa, a volte il senso di colpa muove il sole e le altre stelle. Non vedevo i miei genitori da quattro anni. Sono ancora più rancorosi e cagionevoli di quanto ricordassi. La casa di due piani, sperduta in mezzo ai campi e alla bruma, è più fatiscente e dimessa di quanto voglia credere. È rimasto tutto uguale: i mobili rosicchiati, le tende orrende, i tappeti, i maledetti arazzi, le porte, la carta da parati giallognola. Dio che schifo.
Dopo il lungo viaggio e il verboso sermone triste di mio padre a cena, raccolgo stancamente la mia roba e mi ritiro nella vecchia stanza di quando ero ragazzo. Chiudo a chiave. Meglio essere vittima di quel terribile odore di polvere e naftalina che dell’ingerenza dei miei genitori. Incredibile, hanno tenuto persino i due vasi osceni che stanno all’ingresso come due cani imbalsamati. Due anni fa è morta la zia in questa stanza. Noto, infatti, che c’è qualcosa di insolito appeso alle pareti. Per vedere meglio sollevo la lampada dal comodino avvicinandola al muro. Vari cristi, madonne e santi dallo sguardo pietoso e caritatevole. Ce n’è uno che tiene un giglio bianco, deve essere Sant’Antonio, a cui la zia era devota.
Dal piano di sotto sento urla e fracasso, oggetti buttati a terra. Forse mio padre ha ricominciato a bere. Le porte e le finestre tremano. Spengo la luce e la stanza si zittisce; il silenzio è cadenzato dal mio respiro. Devo ancora prendere le medicine. Apro la porta della camera e nell’oscurità scivolo lungo il corridoio. Con la coda dell’occhio noto due oggetti a terra, in fondo alle scale. Mi accorgo che sono i vasi da guardia, ridotti in cocci.
La porta d’ingresso in fondo alle scale è socchiusa e sibila. Mi sta dicendo qualcosa? Oppure mi sta invitando ad andarmene una volta per tutte, senza crogiolarmi nel senso di colpa? È la porta che mi parla. Ti ascolto, porta. Chi ti ha toccata? Dove sono andati? Non piangere, porta, va tutto bene, sono qui. Devo cercare le mie medicine e poi torno da te. Sarò presto da te, porta. Non chiuderti. Non chiuderti!
Mi volto cercando di non distogliere lo sguardo dall’entrata, cerco di coordinare il mio respiro affannoso con il suo sibilo, così in qualche modo ci teniamo compagnia mentre mi dirigo in cucina. Dentro, le luci sono tutte accese, ma dei miei genitori non c’è traccia. Meglio così. Il bagliore tremolante mi innervosisce. I luridi sportelli gialli sono aperti. Vuoti. Non c’è più nulla: piatti, bicchieri, tazze, medicine. Le medicine! Mi aggrappo allo sportello all’angolo e mi accorgo che delle medicine è rimasto solo l’odore.
Infilo la testa per analizzare meglio: lo sciroppo della disgustosa tosse cronica da fumatore stronzo di mio padre è davvero sparito; i sedativi socialmente accettabili di mia madre pure; i cerotti; la sacra trinità Aspirina-Tachipirina-Ibuprofene.È impossibile che mia madre sia andata a dormire senza Lexotan. Eppure l’ho vista mettere delle gocce nella minestra di papà, a cena. Ha nascosto tutto, quella perfida? Perché cerca sempre di confondermi? Torno alla mia porticina. È triste e ombrata di rosso. Sospira ancora. La sfioro e la tiro verso di me accarezzando la maniglia di ottone incredibilmente liscia. L’afa di campagna, impudente e nauseabonda, non si è lasciata intimorire dalla notte e dal grido delle cicale: mi si attacca alla faccia. Esco in giardino. Il tavolo di ferro battuto è rovesciato. In un angolo vedo le scarpe di mio padre. Chissà dov’è finito. Patetico. Mi siedo sulla vecchia altalena costruita dal nonno e mi lascio dondolare, aggrappandomi forte alle corde e guardando la luna velata da una patina di grigio rarefatto; l’afa deve essersi attaccata anche alla sua faccia rotonda e butterata. Mi bruciano le mani. Percepisco che sono leggermente rosse. Maledette corde dell’altalena. Ora soffio sulle dita e canticchio una filastrocca che mi ha insegnato zia Agata quando da piccolo mi sbucciavo le ginocchia e piangevo: “Soffia forte, soffia tanto, il dolore passerà d’incanto. Soffia forte, soffia tanto, il dolore passerà d’incanto”.
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